martedì 18 ottobre 2016

Sinopie

[...]
mentre in disparte l’umiltà dei vinti
[...]
C. REBORA, Framm. XXXIV

Ce n’è uno, si chiama, credo, Marzio,
ogni due o tre anni mi ferma che passo
adagio, in bicicletta, dal marciapiede mi chiede
se Dante era sposato e come si chiamava sua moglie.
«Gemma», dico, «Gemma Donati.» «Ah sì, sì, Gemma»,
fa lui, con suo sorriso, «grazie, mi scusi.»
                                                                   Un altro,
più vecchio, che incontro più spesso, son sempre io a salutarlo
per primo, e penso: forse si ricorda
d’avermi aiutato, una notte di pioggia e di vento ch’ero uscito
per medicine, a rimettermi in sesto con suoi ferri (a quell’ora!)
una ruota straziata dall’ombrello.
Un terzo, quasi centenario, sordo, per solito
se appena mi vede grida: «Uheilà, giovinotto», e dal gesto
                                                                                     [si capisce
che mi darebbe, se potesse, una pacca paterna sulla spalla,
ma talora si limita a sorridermi, o, ad un tratto, eccitato
esclama: «Ha visto! La camelia è sempre la prima a fiorire»,
o altro, secondo la stagione.
                                               D’altri
pure vorrei parlare, che sono già tutti sinopie
(senza le belle beffe dei peschi dei meli)
traversate da crepe secolari.

Giorgio Orelli



Cfr., volendo.


domenica 9 ottobre 2016

Nella mia giacchetta verde

C'è una battuta attribuita a Montale, non so se rivolta a Svevo o a Saba, visto che continuano ad essere riportate entrambe le ipotesi, che fa più o meno così (oltre alle due ipotesi ne coesistono anche diverse versioni): "Come xe a Trieste, eh? Vi odiate sempre così tanto?"*

Non lo escluderei. Escludo, tuttavia, che degli uomini come Svevo e Saba possano nascere nella Trieste odierna e che uno come Joyce possa decidere di trasferirvisi per più di un giorno. Mi sentirei anche di escludere che una città in cui si nega il rispetto del diverso, che assuma le fattezze dell'immigrato, dell'artista di strada, del senzatetto, del ricercatore curioso di altre culture, di coloro che, pur in carne ed ossa, non rientrano nello schema delle identità sessuali codificate dalla Chiesa Cattolica o che assuma invece la forma della commemorazione dell'infamità delle leggi razziali, si possa continuare a definire come "sfregiata" da ognuna di queste avversioni. Credo sia piuttosto un luogo che intrinsecamente produce queste ed altre avversioni.

Non ho alcun titolo, a parte la casualità insita nel mio esservi nata, per chiedere ai triestini di oggi di fare alcunché di diverso. Mi sento solo di chiedere, con tutta la gentilezza possibile, che la smettano di millantare una tolleranza ed una multiculturalità cui non aspirano e che anzi rifuggono almeno dal momento in cui fu perpetrato, con l'avallo della Repubblica e dei suoi intellettuali, l'omicidio culturale inevitabilmente seguito all'imposizione della camicia di forza della Trieste italiana (sic).

Tenetevela così: la stiamo ricostruendo altrove, o almeno ci stiamo provando. Io, per quel che può contare, in un piccolo angolo al confine - e sottolineo al confine - tra XI e XX arrondissement.

*Scriveva Giotti in uno dei suoi Appunti inutili, quello del 23 agosto 1947: Stamattina sono stato a un pelo dall'inciampare in Saba. Non avrei potuto solo salutarlo; avrei ben dovuto fermarmi, sia pure per un momentino. E lui non avrebbe sentito di dover fermarsi. E non avremmo saputo cosa dirci: ci saremmo scambiati delle frasi insignificanti e insincere. Per iscansarlo cercavo una porta dove ficcarmi, quella d'una casa o d'un negozio. E invece fu lui che, con mio sollievo, si precipitò, nella sua giacchetta verde, dentro una formaggeria. Mi aveva veduto? Penso di sì. Gli ho fatto comperare del formaggio, o altro di simile, che non pensava a comperare.
Un giorno, se continuerò a scrivere queste note solitarie, dovrò ben dire qualcosa di ciò che fu e come finì la nostra lunga amicizia.