domenica 28 dicembre 2014

Wintermorgen

Die Fee, bei der er einen Wunsch frei hat, gibt es für jeden. Allein nur wenige wissen sich des Wunsches zu entsinnen, den sie taten; nur wenige erkennen darum später im eignen Leben die Erfüllung wieder. Ich weiß den, der mir in Erfüllung ging, und will nicht sagen, daß er klüger gewesen ist als der der Märchenkinder. Er bildete sich in mir mit der Lampe, wenn sie am frühen Wintermorgen um halb sieben sich meinem Bette näherte und den Schatten des Kindermädchens an die Decke warf. Im Ofen wurde Feuer angezündet. Bald sah die Flamme, wie in ein viel zu kleines Schubfach eingepfercht, wo sie vor Kohlen kaum sich rühren konnte, zu mir hin. Und doch war es ein so Gewaltiges, das dort in nächster Nähe, kleiner als ich selbst, sich einzurichten anfing, und zu dem die Magd sich tiefer bücken mußte als zu mir. Wenn es versorgt war, tat sie einen Apfel zum Braten in die Ofenröhre. Bald zeichnete sich das Gatter der Kamintür im roten Flackern auf der Diele ab. Und meiner Müdigkeit kam vor, sie habe an diesem Bilde für den Tag genug. So war es um diese Stunde immer; nur die Stimme des Kindermädchens störte den Vollzug, mit dem der Wintermorgen mich den Dingen in meinem Zimmer anzutrauen pflegte. Noch war die Jalousie nicht hochgezogen, da schob ich schon zum erstenmal den Riegel der Ofentür beiseite, um dem Apfel in seiner Röhre nachzuspüren. Manchmal hatte er sein Arom noch kaum verändert. Und dann geduldete ich mich, bis ich den schaumigen Duft zu wittern glaubte, der aus einer tieferen und verschwiegeneren Zelle des Wintertages kam als selbst der Duft des Baums am Weihnachtsabend. Da lag die dunkle, warme Frucht, der Apfel, der sich, vertraut und doch verändert wie ein guter Bekannter, der verreist war, bei mir einfand. Es war die Reise durch das dunkle Land der Ofenhitze, der er die Arome von allen Dingen abgewonnen hatte, welche der Tag mir in Bereitschaft hielt. Und darum war es auch nicht sonderbar, daß immer, wenn ich an seinen blanken Wangen meine Hände wärmte, ein Zögern mich beschlich, ihn anzubeißen. Ich spürte, daß die flüchtige Kunde, die er in seinem Dufte brachte, allzu leicht mir auf dem Wege über meine Zunge entkommen könne. Jene Kunde, die mich manchmal so beherzte, daß sie mich noch auf dem Marsch zur Schule tröstete. Dort angelangt, kam freilich bei Berührung mit meiner Bank die ganze Müdigkeit, die erst verflogen schien, verzehnfacht wieder. Und mit ihr jener Wunsch: ausschlafen zu können. Ich habe ihn wohl tausendmal getan und später ging er wirklich in Erfüllung. Doch lange dauerte es, bis ich sie darin erkannte, daß noch jedesmal die Hoffnung, die ich auf Stellung und ein sicheres Brot gehegt hatte, umsonst gewesen war.

Berliner Kindheit um Neunzehnhundert


Mattino d'inverno

La fata a cui si ha il diritto di chiedere un desiderio esiste per ciascuno di noi, solo che pochi riescono a ricordarsi del desiderio espresso, così solo pochi riconoscono il suo compimento nel corso della propria vita. Io so bene quello che si è avverato e non voglio dire che sia stato più ragionevole di quello dei bambini delle favole. Prendeva forma in me con la lampada, quando questa si avvicinava al mio letto nel primo mattino d'inverno, alle sei e mezza, proiettando l'ombra della bambinaia sul soffitto. Nella stufa veniva acceso il fuoco. Subito la fiamma, come se fosse stipata in un cassetto troppo piccolo dove poteva agitarsi a mala pena, data la quantità di carbone, si metteva a guardarmi. Eppure era così formidabile quello che iniziava a compiersi lì, così vicino a me, ancora più piccolo di me, a cui la domestica doveva chinarsi ancor di più che per raggiungere me. Quando il fuoco era pronto, metteva una mela a cuocere nel forno. Subito la griglia dello sportello del camino si profilava in forma di guizzi rossi sulla tavola. E alla mia fatica sembrava sempre di averne abbastanza, di questa visione, per il resto del giorno. Così era immancabilmente a quell'ora; solo la voce della bambinaia disturbava il raccoglimento con cui il mattino d'inverno aveva l'abitudine di presentarmi gli oggetti della mia stanza. La tenda non era ancora sollevata che già scostavo per la prima volta la sbarra dello sportello del forno per sorprendere la mela nel suo forno. Qualche volta non aveva ancora cambiato il suo aroma. E poi pazientavo fino a quando credevo di avvertire il profumo schiumoso che proveniva da una cellula della giornata invernale più profonda e più sorda ancora del profumo dell'albero la vigilia di Natale. Eccolo lì, il frutto scuro, caldo, la mela che, familiare eppure cambiata come cambia un buon conoscente che torni dopo un lungo viaggio, si presentava dinanzi a me. Era il viaggio attraverso l'oscuro paese del calore del forno, che aveva assorbito gli aromi di tutte le cose che la giornata mi riservava. Ed è per questo che non era neppure strano che, se mi scaldavo le mani alle sue guance lisce, mi prendesse a poco a poco inevitabilmente un'esitazione che mi tratteneva dal morderla. Avvertivo che la fugace notizia che apportava nel suo profumo poteva sfuggire troppo facilmente, mentre prendeva la via della mia lingua. Quella notizia che talvolta si impadroniva a tal punto del mio cuore che mi consolava ancora durante il mio cammino verso la scuola. Arrivato là, al contatto col mio banco, la fatica, che prima sembrava dissipata, ritornava decuplicata, e con essa quel desiderio: poter fare una lunga dormita. L'ho formulato un migliaio di volte ed in seguito si sarebbe davvero realizzato, ma mi ci è voluto molto tempo prima di poter riconoscere che la speranza riposta in un'occupazione e in un pane sicuro si rivela ogni volta vana.

sabato 27 dicembre 2014

Renzi sul mio divano

C'era Renzi sul mio divano, poche sere fa. Un flusso continuo di parole (rò-rà-remo-rò-rà-remo-rò-rà-remo) mitragliate all'altezza dei cuscini e diffuse ovunque nella stanza: impossibile ignorarlo. Rò-rà-remo. Abbandonato lì disteso da mia madre, interessata a sentir parlare di cose italiane anche quando viene a trovarmi, dentro un piccolo apparecchio elettronico che ne diffondeva la voce da uno studio televisivo fino a me. Rò-rà-remo. Renzi a casa mia, dico, ché la sua voce è tutto quello di cui sembra essere composto. Non sembra avere corpo, pensieri, non suoi almeno*, o parole di qualche significato che vadano al di là dell'affermazione di sé e - a ruota - della denigrazione dell'avversario, specie se del proprio partito. Rò-rà-remo-rò-rà-remo-rò-rà-remo. Non sono neanche sicurissima parlasse italiano, quella sera in cui ha occupato abusivamente il mio divano: nessuna pausa o titubanza, troppa energia, troppa fretta, troppi verbi coniugati al futuro, un verbo su tutti: fare. Farò-farà-faremo.
Per sua fortuna la mia stanchezza decembrina impediva alla stizza di montare**, mentre lui non aveva pietà, né di me né del suo interlocutore, che deve aver infilato due mezze parole compiacenti, tra una raffica verbale e l'altra.
Togliti da lì, pensavo, se proprio non puoi smetterla, levati dal mio divano, che è dedicato esclusivamente ad Oblomov e ai suoi seguaci, vai a trovare Hollande, proponigli una gara in scooter, sfida Valls a corsa, tieni una conferenza sul patto del Nazareno o sulla fraternité con i compagni di partito a Sciences Po, vai a farti fotografare in una posa plastica mentre corri davanti alla tour Eiffel, buca le Ninfee di Monet per cercare Leonardo, vai a vedere la Gioconda e smarrisciti nel suo enigma***, se possibile. Oppure, più semplicemente, non dico di tacere, che è azione articolata, ma respira, respira ogni tanto e, per una volta nella vita, compi una piccola azione da uomo: infragilisciti.

* In this present crisis, government is not the solution to our problem, government is the problem, Ronald Reagan, 20 gennaio 1981.
New Labour believes in a flexible labour market that serves employers and employees alike, Manifesto del Partito laburista, 1997 
** Mi sono riposata, in questi ultimi due giorni: ma ch'el vadi in monazza, ch'el vadi. 
*** Anche perché diciamo la verità: la Gioconda è più enigmatica che bella, Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli 2012.

giovedì 25 dicembre 2014

This is my project

Photography, photographers, photographs deal with facts.
I have been photographing the United States, trying by investigating photographically to learn who we are and how we feel, by seeing what we look like as history has been and is happening to us in this world.
Since World War II we have seen the spread of affluence, the move to the suburbs and the spreading of them, the massive shopping centers to serve them, cars for to and from. New schools, churches, and banks. And the growing need of tranquilizer peace, missile races, H bombs for overkill, war and peace tensions, and bomb shelter security. Economic automation problems, and since the Supreme Court decision to desegregate schools, we have the acceleration of civil liberties battle by Negroes.
I look at the pictures I have done up to now, and they make me feel that who we are and how we feel and what is to become of us just doesn’t matter. Our aspirations and successes have been cheap and petty. I read the newspapers, the columnists, some books, and I look at some magazines (our press). They all deal in illusions and fantasies. I can only conclude that we have lost ourselves, and that the bomb may finish the job permanently, and it just doesn’t matter, we have no loved life.
I cannot accept my conclusions, and so I must continue this photographic investigation further and deeper. This is my project.

Garry Winogrand, application for a Guggenheim fellowship, 1963
/domanda di borsa di studio Guggenheim, 1963

La fotografia, i fotografi, le fotografie hanno a che vedere con i fatti.
Ho sempre fotografato gli Stati Uniti cercando di imparare, le mie foto come strumento di ricerca, chi siamo e come ci sentiamo, vedendo quale aspetto abbiamo nel corso della storia passata e presente in questo mondo. 
Fin dalla Seconda guerra mondiale abbiamo visto la ricchezza diffondersi, le persone spostarsi verso le periferie e queste ultime espandersi, la creazione di enormi centri commerciali a loro destinati e l'andirivieni di automobili. Nuove scuole, chiese e banche. E la crescente esigenza di pace rassicurante, le corse ai missili, le bombe ad idrogeno ad elevato potenziale distruttivo, l'alternanza di tensioni tra la guerra e la pace e la sicurezza dei rifugi antibomba. Problemi di automazione economica e, da quando la Corte Suprema ha deciso di mettere al bando la segregazione nelle scuole, abbiamo l'accelerazione della battaglia per le libertà civili da parte dei neri.
Guardo le foto che ho fatto finora: mi fanno capire che chi siamo e come ci sentiamo e quello che diventeremo non conta proprio niente. Le nostre aspirazioni e i nostri successi sono stati di scarso valore, insignificanti. Leggo i giornali, gli editorialisti, alcuni libri e guardo qualche rivista (la nostra stampa). Si occupano tutti di illusioni e fantasie. Posso solo concludere che abbiamo smarrito noi stessi e che la bomba potrebbe definitivamente finire il lavoro, e non ha proprio alcuna importanza: la nostra vita è senza amore.
Non mi rassegno ad accettare queste conclusioni, per cui devo proseguire questa ricerca e devo condurla più a fondo. Questo è il mio progetto.

sabato 29 novembre 2014

Gare de l'Est

Nivasio Dolcemare scese dal treno e senza transizione entrò nei libri di Maupassant.

Alberto Savinio, Maupassant e l'altro, Adelphi 1975


venerdì 31 ottobre 2014

A Stefano Cucchi

A Stefano Cucchi e alla sua famiglia dedico una poesia nata quarantaquattro anni fa per Pinelli. Al SAP e a Giovanardi, il mio disprezzo.

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L'alibi del morto

Giuda dice che l'alibi del morto
era crollato: per questo il morto è sceso nel cortile.
Ma l'alibi era buono; il morto è riabilitato:
nessuno dice che Giuda aveva torto.

*

Il perito settore dice che le ferite
non sono incompatibili con la meccanica di
una caduta dall'alto. Il giornale conclude
che dunque il morto si è suicidato.

*

Miserabili vecchi che per pietà
di se stessi dovrebbero esser morti
ci parlano degli specchi, ci ammoniscono, ci insegnano il futuro,
escono dagli specchi per baciare i morti.

*

L'assassino s'è affrettato a sparlare del morto.
S'era sentito un assassino compatire un morto.
S'era visto un assassino baciare la fronte di un morto.
Vedi che gli assassini non trascurano i morti.


20.30 cordoglio del beone.
20.31 rampogne del furfante.
20.32 consigli dell’idiota.
20.33 ultimatum del boia.

*

La Borsa è sana, la Borsa reagisce
con splendido, inatteso, confortante vigore
alle notizie dal fronte, ai proclami, alla limpida morte
del legionario ucciso dal nemico.

*

Corvi senz'ali all'ombra
piatta della bilancia
trinità di sicari
brandiscono la lancia.

*

Giuda dice: la gente ai miei guerrieri
ha buttato dei sassi, per questo han caricato.
Di chi c'era nessuno se n'è accorto:
ma il Senato dice che Giuda non ha torto.

*

Non predicate la dittatura
di una classe sull’altra, non è il vostro lavoro.
Non dite niente che possa suscitare
l’odio di classe: ci pensano già loro.

*

Parlo per me ma forse anche per voi.
Amici, diciamo la verità:
di sentirci oppressi ci sentiamo felici;
ci importa adesso esser vittime, non esser liberi poi.

Giovanni Raboni, 1970
da Cadenza d’inganno

mercoledì 29 ottobre 2014

Caro Einaudi,


Caro Einaudi,

La traduzione mi sembra scorrevole, forse un po' ingenua, ma il mio tedesco è troppo ridotto per giudicare. L'edizione è elegante.
Visto in tedesco, il mio libretto mi fa uno straordinario effetto mediterraneo, italiano: se io fossi tedesco mi farebbe venir voglia di visitare l'Italia. Curioso. Forse perché ha messo in evidenza tutti quei Cefalù, Cesenatico, Ostia, Piombino, e le illustrazioni sono in prevalenza acquatiche. Chiederò qualcosa all'Ente del turismo e al ministero degli Esteri.

Cordiali saluti.

(9 ottobre 1964)

domenica 26 ottobre 2014

Dizionario di tutte 'e cose: V come Visco e come Vocazioni

& tentons encore une fois d'arracher au fanatique son poignard,
& au superstitieux son bandeau
Jean-Edme Romilly, Tolérance
Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers

e tentiamo ancora una volta di strappare il pugnale al fanatico
e la benda al superstizioso

Sono andata a Visco per vedere cosa è rimasto del campo di internamento fascista per civili jugoslavi. Ci sono andata in compagnia di diverse domande, la maggior parte delle quali relative al periodo che ha seguito la fase propriamente detta fascista della storia italiana: cosa è rimasto, a quasi settant'anni dalla nascita della Repubblica? Come è stata elaborata, in tutti questi anni, l'esperienza fascista, che in nome della superiore civiltà italiana ha commesso violenze contro le popolazioni slave (e africane e anche contro parte della propria, di popolazione, ma queste sono storie che sono passate per altri campi), incendiato case, deportato civili in decine di campi di internamento - di cui Visco è stato solo un esempio - privandoli della libertà, della salute e in molti casi anche della vita? A quali conclusioni è giunta l'Italia su quella parte del proprio passato, da quando si richiama a valori diversi da quelli del regime fascista, sanciti dalla Costituzione più bella del mondo, come ha osservato quel fine costituzionalista che è Roberto Benigni?

Tornandomene a casa, la sola risposta che sono riuscita a trovare è che l'Italia, a Visco, ha lasciato passare il tempo, nient'altro che questo. Deve avere a che fare col principio di minima energia o forse con l'urgenza delle cose presenti, solitamente di carattere emergenziale, da fare nell'immediato, che tolgono spazio ad una riflessione piena sul passato, su se stessi e sul rapporto con l'altro (la riforma agraria tributaria urbanistica del lavoro della scuola delle pensioni costituzionale delle istituzioni federale la grande riforma liberale adesso! la riforma di questo è prioritaria la riforma di quest'altro va fatta subito una riforma al mese le riforme dei primi 1000 giorni, e via riformando dal 1946 ad oggi).

Tutto sembra essere infatti rimasto com'era, salvo - appunto - l'intervento del tempo nella sua doppia, ambigua accezione, nella lingua in cui ora scrivo, di tempo cronologico e tempo  meteorologico, almeno da quel che si riesce ad intravvedere attraverso le aperture nelle recinzioni che costeggiano la strada che da Visco va verso Palmanova.

La caserma Sbaiz è lì, in mattoni rossi, con le sue torrette di osservazione ed i cartelli destinati al corretto utilizzo dei loro fari, testimoni delle poche, puerili difese contro la noia che devono essere state a disposizione dei soldati che vi hanno prestato servizio: "È assolutamente vietato dirigere la fase (?) del faro verso i veicoli in transito sulla strada".


Anche gli edifici del campo sembrano essere tutti lì, quali più quali meno in attesa di essere definitivamente divorati dal verde, isolati dal resto degli edifici più recenti da un cancello interno, visibile dalla strada attraverso la cancellata esterna, che delimita tutta l'area, e dai campi limitrofi.


Al tutto si è aggiunto anche dell'altro: un campo da tennis, edifici il cui uso non sono riuscita ad identificare, una sede della Protezione civile, alcune sedi di imprese, edili e di trasporti, una pista ciclabile che segue il vecchio campo per un lungo tratto.


Come omaggio a memoria degli internati, dopo settant'anni potenzialmente disponibili per studiare e diffondere la storia del campo per poterla integrare nella memoria viva del Paese, ma anche, volendo - e non si è voluto -  per identificare e punire i responsabili della sua ideazione e della sua gestione, anni invece lasciati passare uno dopo l'altro invano, una ghirlanda ormai secca appesa ad un palo, che ben si presterebbe ad una metafora dell'Italia e su cui invece non ho alcuna intenzione di insistere, se non per dire che per istinto mi verrebbe da chiederne la rimozione, per un minimo di decenza e rispetto, se non si finisse però inevitabilmente per offendere le mani, del tutto probabilmente slovene (v. Novice, Visco, 11. oktober 2013 e v. qui), cui l'Italia deve aver gentilmente concesso di posarla.


Se si allarga la limitata visione che si può trarre oggi del campo di Visco alle parole spese sul suo conto, ci sono anche altre ghirlande, se possibile ancora più secche:


Il Presidente della regione, che, diversamente da me, ritiene che a Visco non ci sia più niente, è pieno di buona volontà, ma, per sua stessa implicita ammissione, del tutto impotente. Debora Serracchiani davanti al cancello chiuso restituisce concretamente, in forma di immagine, l'idea della debolezza del potere ufficiale. Se in settant'anni si fosse persa la memoria del campo di internamento, cosa che non è, perché il campo non è stato demolito, perché i giornali di tanto in tanto lo ricordano attraverso le singole persone, quali Ferruccio Tassin o Boris Pahor, che se ne occupano con caparbietà, perché gli sloveni ed i croati non lo dimenticano, perché la Serracchiani ogni tanto ci va e ne parla, sarebbe paradossalmente meglio. In questa ipotesi, potremmo attribuire alle istituzioni delle omissioni più o meno gravi, fino, nella peggiore delle ipotesi, una cosciente volontà di oblio, come in molti altri esempi di misfatti della storia italiana. Invece le istituzioni ci sono, si esprimono, si sbracciano, si rammaricano, si fanno ritrarre sui luoghi storici e condividono i propri video su YouTube, ma non servono a nulla. Se mai un giorno ci sarà un memoriale, sarà in primo luogo grazie alla perseveranza di singole persone come Tassin, non all'iperattivismo mediatico del partito democratico, che dal Friuli Venezia Giulia a Roma sembra sempre di più l'incarnazione del verso delle Elegie Duinesi in cui Rilke scrive del Tun ohne Bild, del fare senza disporre di una visione, dell'agire alla cieca - sempre riformando, s'intende.

Non è sempre così, tuttavia, perché non è vero, come comunemente si crede, che l'Italia non abbia memoria o non abbia vocazione alla memoria (il concetto di n'avoir pas la vocation come negazione assoluta me l'ha insegnato involontariamente il francese più triestino che abbia mai incrociato, uno che, elegantemente, non aveva vocazione a - e non semplicemente voglia di - intraprendere nessuna attività umana che odorasse vagamente di lavoro).
In effetti, quando si tratta di ricordare chi si è reso responsabile di soprusi e violenze grandi e piccole, alcune istituzioni sono molto efficaci e capaci di Tun mit Bild.
Come già ricordato tempo fa, l'ex omologa della Serracchiani alla regione Lazio ha concesso al comune di Affile il finanziamento di un mausoleo al generale Graziani: in seguito allo sdegno della stampa, anche internazionale, l'attuale Presidente del Lazio ha dichiarato di voler interrompere il finanziamento, con la conseguenza, probabilmente, che il mausoleo resterà lì, in tutto il suo splendore.
Non si contano poi le volte che si leggono notizie di assessori comunali desiderosi di intitolare una via ad Almirante.
Più modestamente, qualche anno fa il comune di Novara, su iniziativa dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici di quella città, ha intitolato un'area verde a Primo Boccaleri


 - Maestro -

Nato a Piovera (AL) il 24/7/1909 - morto a Novara il 17/10/1965.
Uomo di cultura, educatore, sensibile, capace di trasformare i valori dell’uomo in singoli percorsi educativi. Cittadino di spiccata vocazione umana e sociale.

E pure di altre spiccate vocazioni, il maestro, non si sa se omesse o se finite nel dimenticatoio dell'associazione o se semplicemente ignorate da quest'ultima e dal comune di Novara, perché Boccaleri fu anche e soprattutto un fervente fascista, secondo lo storico Christopher Duggan in Fascist Voices: An Intimate History of Mussolini's Italy e anche secondo la Fondazione dell'Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che ne conserva il diario. Secondo Duggan, in seguito all'invasione della Jugoslavia del 1941, Boccaleri accettò con entusiasmo un posto di maestro a Torrette, sulla costa croata, nonostante la sua famiglia avesse tentato di dissuaderlo, in nome di una grande missione per la sua Patria ed un imperioso comando fascista a svolgere appieno il suo dovere e a qualsiasi costo: "Duce, insegnerò qui non solo la nostra dolce lingua, ma anche i nostri ideali: ad ogni costo". Dal racconto di Duggan, si capisce che le lezioni di Primo Boccaleri

 - Maestro -

erano intese come lezioni di civilizzazione a bambini intrinsecamente non civilizzati ("non hanno nemmeno un senso di civiltà"), sporchi, brutti e cattivi, in un contesto quotidiano di prevaricazione linguistica e politica di cui Boccaleri fu, assieme a molti altri italiani, parte attiva nel suo ruolo di educatore, per usare le parole del comune di Novara, non risparmiandosi, tra l'altro, sentimenti di vivo rammarico per non potersi unire alla Milizia nelle operazioni armate, negli assassini e nella distruzione delle case di coloro che non si piegavano all'occupazione fascista.

Sono andata a farmi un giro anche lungo le strade attorno al parco "Primo Boccaleri" di Novara, per quanto solo tramite lo Street View di Google Maps, e ancora in compagnia delle stesse domande che mi hanno portata a Visco, ma sono poi tornata con una sola risposta nella realtà del mio appartamento, in un Paese in cui nemmeno cinque Repubbliche ed altrettante Costituzioni repubblicane sembrano essere bastate per assumere appieno le responsabilità passate, dall'affaire Dreyfus al regime di Vichy e da questo alla guerra d'Algeria, e per essere in grado di scongiurare possibili derive nazionalistiche ed antisemite: una sola risposta fattasi, a questo punto, definitivamente ritornello:

Primo Boccaleri


 - Maestro -

lunedì 8 settembre 2014

Morire per l'hotel Excelsior

Per una serie di casualità (includenti il mio essere nata in Italia ed il mio frequentare librerie, una decisione del passato che trovo tuttora giustificata, quella di votare con i piedi andandomene in Germania, ed un probabile errore di cui non mi pento, quello di aver continuato ad usare i piedi per varcare la frontiera tedesco-francese), mi trovo ora tra le mani uno dei pochi libri di cui non creda esista un'edizione priva dell'intervento di un traduttore, in quanto scritto, nella sua prima redazione, in parte in francese ed in parte in italiano. Nell'edizione di cui dispongo, la parte francese è naturalmente lasciata telle quelle, mentre la parte italiana è stata tradotta in francese da Gabrielle Cabrini e trasformata in corsivo, per distinguerla dal francese dell'autore. Nell'edizione italiana cui ho avuto parziale accesso, del 1966, la parte francese è stata tradotta in italiano, probabilmente dall'autore stesso. Se tutte le edizioni italiane sono effettivamente così, allora i lettori di queste mie paginette possono trovare, unici al mondo, le due versioni originali. Siccome sono paginette, so che non si monteranno la testa.

Samedi 13 septembre.
Si je ne suis pas mort, c'est parce qu'il n'y avait pas, en Italie, un « hôtel Majestic » pour lequel il vaille la peine de mourir.
Il fait très chaud. J'habite rue Galilée.
Dans la rue Galilée, entre l'avenue d'Iéna et la place des Etats-Unis, sur la façade au n° 17, sur une plaque de marbre, j'ai lu cette merveilleuse épitaphe : « Ici est tombé, le 25 août 1944, Raymond-Charles Bonenfant, marié, père de famille, mort pour la libération de l'hôtel Majestic. A sa mémoire. Ceux qu'il a délivrés. »
C'est-à-dire les clients de l'hôtel Majestic.
J'aime et respecte M. Charles Bonenfant. Si, pendant les combats de la libération, il m'était arrivé de mourir, je n'aurais pas voulu mourir pour l'Italie, pour l'Italie entière. Il y a en Italie beaucoup, oh, mais beaucoup ! de cochons, de salauds, pour lesquels je n'aurais jamais voulu, ne voudrais nullement mourir. 
Je n'aurais pas voulu non plus mourir pour la libération de Rome, ou de Florence, ou de Milan. Ah ! non ! A d'autres, pas à moi. Je suis, moi, de la race de M. Raymond-Charles Bonenfant. J'aurais voulu mourir pour quelque chose de bien personnel, de bien gentil, de bien propre, et pas trop grand : par exemple pour la libération de l'hôtel Excelsior. Au moins, j'aurais eu quelqu'un qui me serait resté reconnaissant ; non pas l'Italie, non pas les Italiens, mais la clientèle de l'hôtel Excelsior.
« Moi, cela m'est égal, parce que j'écris Paludes. » 
Curzio Malaparte, Journal d'un étranger à Paris, éditions de la Table Ronde, 2014. Première edition : Denoël, 1967 



Sabato, 13 settembre 
Se non sono morto, è perché non c'era, in Italia, un Hotel Majestic per il quale valesse la pena di morire.
Fa molto caldo. Abito in rue Galilée.
In rue Galilée, dove abito, tra l'avenue di Iéna e piazza degli Stati Uniti, sulla facciata della casa al n. 17 ho letto in una lapide questo meraviglioso epitaffio: «Qui è caduto, il 25 agosto 1944, Raymond Charles Bonenfant, del FFI, coniugato, padre di famiglia, morto per la liberazione dell'Hotel Majestic. Alla sua memoria, coloro che ha liberato».

Ossia i clienti dell'Hotel Majestic.
Amo ed onoro Charles Bonenfant. Se, durante la guerra di liberazione, mi fosse capitato di morire, non avrei voluto morire per l'Italia, per tutta l'Italia. Vi sono in Italia molte, oh, ma tante porcherie, sudicerie, per le quali non avrei mai voluto e non vorrei affatto morire.
E nemmeno avrei voluto morire per la liberazione di Roma, o di Firenze, o di Milano. Oh, no! Altri, non io. Io sono della razza di Raymond Charles Bonenfant. Avrei voluto morire per qualche cosa di molto personale, di molto gradevole, di molto pulito, e non troppo grande. Per esempio, per la liberazione dell'Hotel Excelsior. Almeno, avrei avuto qualcuno che mi sarebbe rimasto riconoscente: non l'Italia, non gli Italiani, ma la clientela dell'Hotel Excelsior.
«Per me è lo stesso, perché io scrivo Paludes».

*Nell'edizione italiana del 1966, il signor Bonenfant è stato cambiato in Bonefant. Non me la sono sentita di replicare questo cambio: ecco il mio apporto creativo odierno.

giovedì 28 agosto 2014

Dizionario di tutte 'e cose: T come Totalitario

Nel 1923, prima che il governo fosse di matrice completamente fascista (vi facevano parte quattro ministri fascisti su un totale di quattordici), prima che Mussolini, il 22 giugno del 1925, parlasse di volontà totalitaria del fascismo e ben prima che il sistema maggioritario divenisse normalità incontestata ed incontestabile, un politico italiano che, a differenza di Almirante, non mi risulta che nessuno desideri oggi commemorare, usò, su un giornale che non esiste più, forse per la prima volta al mondo, l'aggettivo totalitario.

Mentre l'on. Mussolini ripete la manifestazione del suo proposito di voler ricondurre il fascismo nei limiti della legalità e della disciplina, si ripete altresì con frequenza — che non accenna a diminuire — il fenomeno delle elezioni amministrative con relativa conquista di maggioranza e minoranza da parte di fascisti o sedicenti fascisti. "Maggioranza e minoranza": ecco la formola che esprime a maraviglia l'intima aspirazione di quegli individui che sono accorsi, frettolosi e dimentichi di ogni precedente atteggiamento, verso il partito che rappresentava, agli occhi loro, la promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato, nel campo della vita politica ed amministrativa... È bene che l'attenzione degli italiani si fissi con un po' di calma su questo fenomeno: mentre il governo fascista sta considerando il sistema "maggioritario" che deve, sul terreno elettorale, prendere il posto della proporzionale. Sistema "maggioritario"? Qualcuno che ha cercato di indovinare i connotati badando alle interviste del comm. Bianchi, ha proposto di chiamarlo invece sistema "minoritario": noi che, con tutto il riguardo dovuto al segretario generale del Ministero dell'Interno, incliniamo ad attribuire importanza anche maggiore alla realtà elettorale di tutte le domeniche, dubitiamo assai che non si debba finire per chiamarlo, con più verità, "sistema totalitario"!

Giovanni Amendola, Il Mondo, 12 maggio 1923

martedì 19 agosto 2014

Karo Antonio

Karo Antonio,

Kyero eskrivirte en djudyo antes ke no keda nada del avlar de mis padres. No saves, Antonio, lo ke es morirse en su lingua. Es komo kedarse soliko en el silensyo kada dya ke Dyo da, komo ser sikileoso sin saver porke.

Lo ke aki te eskrivo, Antonio, es el poko de ke me akodro despues de estos cinkos syekolos en Turkya. Yo naci en Asnières, ke es una sivdeka cerka de Paris, ama mi padre y mi madre eran cerka de los treynta kuando vinieron a morar en Francia. Dainda avlavan en franses ke era la lingua de todos los djudyos de Turkya en akel tyempo porke l'Alliance israëlite universelle asi les embezo. Despues de este se foueron al Lycée français de Galata Sarail en Stambol y es por esto ke tanto les plazya la Francia, ma en kaza nunka decharon de avlar djudyo y ansina es ke yine yo me embezi.

Antes de eskrivirte, Antonio, devo serar los ojos para akodrarme del avlar de mis padres. La difikoldad es ke muchos biervos me vyenen al tino i ke no se kualo dizirte kon eyos. Ke dizirte kon la “yaka” ? ( “Este no me pasa por la yaka” dizya mi nona) kon la ekspresyon “el kulo de pipino” ke mos saltava la riza, el “ijo de Mamzer”, kon todas las kozas ke son “kozas de tresalirse”...? 
Los biervos stan lokos, Antonio. Atornan y se fuyen. No ay mas ke asperar de eyos. No dizen mas ke la rolor, la dulsura lejana de la dondurma, de las keftikas, de los platikos ke se gizava en kaza. No dizen mas ke el gusto y el tormento del pasado, la lokura del tyempo. Se van los biervos y, lechos de mi, se mueren komo las nuves del cyelo.

La lingua maternal: asi se dize de lo ke se entendya en kaza, ma, en este kavzo, Antonio, la madre no se muere nunka. Siempre se keda fuerte. Puedes azer el mas gran viage; kuando retornas la topas bien en pies. En eya vive tu pasado, en eya te sientes presente a ti mismo.  Las palavras son tu verdadero lougar y tu esperanza. Kale ser loko para pensar ke, en eyas, podryas ser un dya el mousafir de ti mizmo. En el mas profondo de ti saves ke las kozas, o al meno el sentido ke tienes de las kozas, no se mueren nunka.
Ma, kuando se bozea tu lingua, kuando se deskae, desaziendo en el mabul, kuando deves serar los ojos, soliko en tu kamaretika y pensar por oras antes ke trucher dos biervizikos en la luz, kuando no ay nada ke meldar en tu lingua, ninguno dentro tus amigos por avlarla kon ti, kuando el poko ke te keda no lo vaz a dechar a ninguno despues de ti, kuando la mujer de tu alma te mira komo a un razino ke pok a poko se le fuye el meoyo y ke, kada dya te deves olvidar mas de ti para ser bien al lado de eya, kuando mirando a su kerida facha te vez, algunos dias ke te akodras del pasado, komo a un zingano ke no ubyera nunka dourmido kon eya y ke nunka lo podrya por ke saves ke, en akeyos momentos, la distansya entre vozotros es tan grande ke parece a la mar, eya veyendo solamente una partizika de ti, alora, Antonio, saves ke la muerte avla por tu boka.

Marcel Cohen, Lettre à Antonio Saura, traduit du judéo-espagnol par l'auteur, édition bilingue, L'Échoppe, 1997  



*
Fermatevi qui e rileggete questo incipit di un breve, intenso testo, se ci tenete a cogliere Cohen nel suo tornare bambino, figlio e nipote, ma non padre, e a non spezzarne la magia e se, per una volta, accettate di lasciare la materia narrativa nella sua forma originale: un grumo di vite. Mai una traduzione dello stesso autore mi è stata d'impaccio più che d'aiuto come questa volta: Cohen si è sdoppiato, traducendosi in francese, modificando e, soprattutto, omettendo. Autore e traduttore sono due persone diverse riunite nella stessa persona. Quel che segue sono solo io.
*

Caro Antonio,

Desidero scriverti in djudyo prima che non resti più nulla della lingua dei miei antenati. Non puoi immaginare, Antonio, cosa significhi estinguersi nella propria lingua. È come trovarsi da soli nel silenzio ogni giorno che Dio manda in terra, come essere sikileoso [in ansia, oppresso, in turco], senza sapere perché.

Quello che ti scrivo, Antonio, è il poco di quel che mi riesco a ricordare di questi cinque secoli in Turchia. Nacqui ad Asnières, che è un sobborgo di Parigi, e i miei genitori erano sulla trentina quando vennero a vivere in Francia. Allora parlavano in francese, in quanto lingua, all'epoca, di tutti gli ebrei della Turchia. Lo avevano imparato all'Alliance israëlite universelle. Frequentarono poi il liceo francese di Galata Sarail, ad Istanbul, ed è per questo che la Francia piaceva loro così tanto, senza peraltro rinunciare a parlare il djudyo a casa, che così imparai anch'io.

Prima di scriverti, Antonio, devo chiudere gli occhi per ricordarmi della lingua dei miei antentati. La cosa difficile è che molte parole mi vengono in mente senza potermici esprimere. Che dirti con  “yaka” ? (“Questo non mi passa per la yaka[collo, in turco], diceva mia nonna), con l'espressione “il culo del cetriolo” che ci faceva scoppiare a ridere, con “figlio di Mamzer” [bastardo, in ebraico], con tutte le cose che sono “cose da trasalire”...? 
Le parole sono folli, Antonio. Vanno e vengono. Non c'è altro da aspettarsi da loro. Non esprimono che l'odore, la dolcezza lontana del dondurma [gelato, in turco], delle keftikas [polpette turche], dei piccoli piatti che si cucinavano a casa. Non rendono che il gusto ed il tormento del passato, la follia del tempo. Se ne vanno, le parole, e mi sfuggono, muoiono come le nuvole del cielo.

La lingua materna: così si chiama quello che si sente a casa, ma, in questo caso, Antonio, è una madre che non muore mai. Resta sempre forte. Può intraprendere il viaggio più lungo; quando ritorna, la trovi ancora ben salda sulle gambe. In lei vive il tuo passato, in lei ti senti presente a te stesso. Le parole sono il tuo vero paese e la tua speranza. Bisogna essere folli per pensare che, in esse, potresti diventare, un giorno, straniero a te stesso. In fondo a te stesso sai che le cose, o almeno la loro percezione, non muoiono mai.
Ma quando la tua lingua si sgretola, quando si disfa, diluendosi nel mabul [diluvio, in ebraico], quando devi chiudere gli occhi, solo nella tua cameretta, e pensare per ore prima di portarne qualche brandello alla luce, quando non c'è niente da leggere nella tua lingua, nessuno dei tuoi amici con cui poterla parlare, quando il poco che te ne resta non lo trasmetterai a nessuno dopo di te, quando la donna della tua vita ti guarda come un malato che a poco a poco perde il senno e ogni giorno ti senti in dovere di dimenticare te stesso per poter stare bene al suo fianco, quando guardando il suo caro volto ti vedi, i giorni in cui ti ricordi del passato, come uno zingaro che non abbia mai dormito con lei e che mai potrebbe perché sa che, in quei momenti, la distanza tra di voi è tanto grande da sembrare il mare, lei riuscendo a vedere solamente una particella di te, allora, Antonio, sai che la morte parla attraverso la tua bocca.

venerdì 15 agosto 2014

La France

La Francia, come qualsiasi altro paese, dà il meglio di sé grazie alle sue minoranze e alle sue minorità. Voici un piccolo esempio, con un accento d'altri tempi, tra l'altro.

La Chine excelle dans le textile
La Thaïlande, dans les grains de riz
Le Japon fait des automobiles
Et les US, du RNB
La Suisse attire les comptes en banque
Les anglais ont un humour exquis
Le Nicaragua produit la cocaïne,
et la revend au meilleur prix,
La France, la France, des photocopies,
la France, la France, des photocopies

La mer fait pousser les poissons
Et le ciel fait péter la pluie
Quant à Dieu, assis sur l'horizon
Il nous envoie des messies
La lune produit des cratères
Et le soleil à se faire chaud
Luc Skywalker vote pour les Verts
Dans l'univers, quelle harmonie
La France, la France, des photocopies,
la France, la France, des photocopies

Les savants disent que dans quelques siècles
Il y aura sur terre plus de forêts
Je lis déjà dans vos pensées inquiètes
Sans arbres, plus de papier
Mais la France prévoyant la disette,
Rassurez vous ne payera pas le prix
Photocopiant sur un air de fête
Tous les arbres du pays
Chênes, cerisiers et hêtres
Pour faire face à la pénurie

La France, la France, des photocopies,
la France, la France, des photocopies
La France, la France, des photocopies,
la France, la France, des photocopies



La Cina eccelle nel tessile
La Tailandia nei chicchi di riso
Il Giappone fa automobili
E gli USA, il rhythm and blues,
La Svizzera attrae i conti in banca
Gli inglesi hanno un umorismo delizioso
Il Nicaragua produce la cocaina,
e la rivende al miglior prezzo,
La Francia, la Francia, fotocopie,
la Francia, la Francia, fotocopie

Il mare fa crescere i pesci
E il cielo fa scoppiettare la pioggia
Quanto a Dio, seduto sull'orizzonte
Ci manda messia
La luna produce crateri
E il sole fa caldo
Luc Skywalker vota per i Verdi
Nell'universo, che armonia
La Francia, la Francia, fotocopie,
la Francia, la Francia, fotocopie

I saggi dicono che nel giro di qualche secolo
Sulla terra non ci saranno più foreste
Leggo già nei vostri pensieri preoccupati
Senza alberi, niente carta
Ma la Francia, prevedendo la carestia,
State tranquilli, non ne pagherà il prezzo
Fotocopiando su un'aria festiva
Tutti gli alberi del paese
Querce, ciliegi e faggi
Per far fronte alla penuria

La Francia, la Francia, fotocopie,
la Francia, la Francia, fotocopie
La Francia, la Francia, fotocopie,
la Francia, la Francia, fotocopie

Bonus track

mercoledì 13 agosto 2014

Bettelein

When I was little [my grandmother] would bounce me on her leg, hobby-horse style, and sing an old German nursery rhyme:

Bettelein
Ging allein
In die weite Welt hinein.
Stock und Hut
Steht ihr gut
Ist gar wohlgemut.
Aber Mutter weinet sehr,
Hat ja nun kein Betty mehr!
Wünsch' ihr Glück
Sagt ihr Blick,
Kehr' nur bald zurück!

Lauren Bacall
Myself and then some, Harper Collins, 2010


Quando ero piccola, [mia nonna] mi faceva sempre andare a cavalluccio sulle sue gambe e mi cantava una vecchia filastrocca tedesca:

Bettina
se n'è andata stamattina
per il mondo sola solettina.
Col cappello ed il bastone
- che bel trio, la perfezione -
non c'è che dire, sta benone.
Ma la mamma piange assai,
perché Betty non ha più ormai.
A parole le augura ogni bene
ma con lo sguardo le dice: 
torna presto, mio caro bene!

venerdì 8 agosto 2014

Kiosk am Meer

Freiheit - und weiter ging der Verkehr. Die Idee
Hat sich ausgedehnt unterwegs. Am Ende der Mole
Stand ein Topf aus Beton, keiner wüßte wofür.

Der Kiosk am Meer, das war sie. Im Fenster hingen
Blaustichige Ansichtskarten verblichener Sommer.
Wie sind wir hierher gekommen? Der Brandung wegen?
Wer ist noch derselbe nach Jahren der Egomanie?

Über den Wolken schlafen die Mauersegler,
So geht die Legende. Aber wie geht sie weiter?
Verzeihung, wir kannten uns kaum. Und Zeit war
Kein Eigentum, das der Einzelne schützte wie die Natur.
Ist der Sand enttäuscht, wenn die Dämmerung fällt?

Wir sprechen, blinzeln solang wir am Feuer sitzen.
Wenn du sie siehst, grüß sie von mir. Sag Guten Tag.

Durs Grünbein


Chiosco sul mare

Libertà - e il traffico, imperturbato, continuava. L'idea
si è poi diffusa, cammin facendo. In cima al molo
c'era un vaso in cemento, ma se ne ignorava il motivo.

Il chiosco sul mare, ecco, lei era questo. Sui vetri della finestra,
cartoline illustrate di estati passate di un azzurro slavato.
Come siamo arrivati qui? Con la risacca?
Chi è rimasto lo stesso, dopo anni di egomania?

Oltre le nubi i rondoni dormono in volo,
così dice la leggenda. Ma come prosegue?
Pardon, ci conoscevamo poco. E il tempo non era
una proprietà protetta da ognuno, come la natura.
È delusa la sabbia quando viene buio?

Intorno al fuoco, parliamo socchiudendo gli occhi.
Se la vedi, salutala da parte mia. Buongiorno, dille.

domenica 3 agosto 2014

Lenen van de grieken

Net alsof je Ptolemaeus Euergetes bent
vraag je de Atheners
Aeschylus, Sophocles en Euripides aan jou uit te lenen
(de manuscripten van al hun toneelstukken,
ook die die later verloren zijn)
en je geeft hen vijftien zilveren talenten
die zij mogen houden
als je ze niet onbeschadigd zou terugsturen.

Je schrijft de manuscripten over
en stuurt de kopieën terug,
niet in het geheim, maar alsof je op het podium staat
leg je meteen uit dat de Atheners
de vijftien talenten kunnen houden
als boete voor wat je hen aangedaan hebt.

Nachoem Wijnberg


Come se fossi Tolomeo Evergete
chiedi in prestito agli ateniesi
Eschilo, Sofocle ed Euripide
(i manoscritti di tutte le loro tragedie,
comprese quelle andate perdute)
e dài loro quindici talenti d'argento
che potranno tenere
se non dovessi restituirli intatti.

Ricopi i manoscritti
e restituisci le copie,
ma senza fingere, come se ti mettessi subito a spiegare
su un palco che gli ateniesi
i quindici talenti possono pure tenerli
a compensazione di quello che hai fatto loro.

sabato 2 agosto 2014

Le foto migliori

Le foto migliori dello spicchio nordoccidentale della Polonia in cui sono passata sono, al solito, quelle che ho deciso di non scattare, in questo caso quelle dei posti dove più brutali appaiono i segni dell'evoluzione intrapresa dal paese da quando è libero di comprare uno yogurt Danone in qualsiasi sklep della campagna più interna.

Non le ho fatte, queste foto, nonostante fossero impareggiabili e le avvertissi pure come necessarie, vuoi perché temevo di offendere le persone del posto vuoi perché non disponevo di un grandangolo che potesse (e non ne esiste uno che possa) racchiudere le distese circensi che si sviluppano in alcuni centri abitati della costa del Mar Baltico e che, pure fortunatamente intervallate da boschi e lunghi tratti di costa e di campagna risparmiati dalla violenza immobiliare, restano comunque uno schiaffo ed un insulto alle speranze di tutti coloro che hanno patito l'occupazione tedesca e/o il successivo regime comunista.

Alla prima categoria appartiene una foto di una bancarella di Ustka, che su un suo fianco ha appese, incorniciate tutte allo stesso modo, delle immagini che riportano, in modo alternato e regolare, riproduzioni di cani e di papi, non dissimili - papi e cani - dall'iconografia dei papibuoni e dei padripii. Un papa circondato da una luce diffusa giallastra contenente delle sfumature di rosa e di arancione. Un pastore tedesco aureolato dalla stessa identica luce, e poi altro papa, altro cane, papa-cane-papa-cane e via andare, riga per riga, e a capo alla fine di ogni riga, dall'altezza del banco di vendita fino a terra. Se si ha fortuna, si può apprezzarne la fattura e la disposizione al suono, che fa picchiettare i piedi dei clienti in attesa di ricevere l'ordinazione ad un chiosco, di Laśiatemy kantaare, con la kitarra immano, laśiatemy kantare, pekhé ne sono wiero, e di Mammammà mammammariammà cantate laiv e ridiffuse da casse potenti, tanto da bucare il suono del vento, altrove magnifico (mai come a Ustka ho provato gratitudine per il depistaggio identitario che mi assicurano i miei zigomi slavi, purché abbia l'accortezza di tenere la bocca chiusa, naturalmente).

Alla seconda categoria appartiene una foto d'insieme di Międzywodzie, da me subito, per forza di cose, affettuosamente identificata come terra di bisiacchi in salsa baltica, avendo deciso entrambi i luoghi di portarsi nel nome la comune collocazione in mezzo a delle acque: un reticolo di strade ortogonali percorse da bici a noleggio a forma di bob o di auto da formula 1, ma mai di bici, e contrassegnate da tristi condomini di recente costruzione in stile anni '70, in cui regna non solo l'horror vacui, ma anche quello per le linee curve e per qualsiasi parvenza di simmetria o di vago equilibrio, separati gli uni dagli altri da luminosi e fragorosi giochi da fiera paesana ed autoscontri, rivendite di birre e tabacchi e caramelle, variopinte baracche di pesce fritto, pizza e, soprattutto, dolci (leggasi gofry/lody/rurki e desery in generale, rigorosamente in questo ordine).

Ci sarebbe anche una terza categoria di foto belle non scattate, la più inafferrabile e la più controversa, che vede accomunate Polonia e Italia, oltre che dall'uso di alcune parole come pomidor, arancio, pałac e autostrada, anche dall'aver scelto di sotterrare, in qualche forziere al momento ben nascosto, il loro prezioso entuzjazm.

Restano quindi solo le foto peggiori di cui, per rispetto, mi permetto di lasciare solo due esemplari.

 

venerdì 1 agosto 2014

Sappiate

Voglio vivere e,
se muoio,
sappiate che
non ero
né un partigiano di Hamas
né un combattente.
Non ero nemmeno
uno scudo umano.
Ero a casa.

Gaza, 23 luglio 2014
Tweet di un palestinese riportato dalla ricercatrice Orit Perlov su Le Monde di oggi.


 
Jabalia, 24 luglio 2014. Foto della AFP riportata da Haaretz.
Cfr., volendo.

mercoledì 9 luglio 2014

Dizionario di tutte 'e cose: S come Sconfitta

Ἀσπίδι μὲν Σαΐων τις ἀγάλλεται, ἥν παρὰ θάμνῳ,
ἔντος ἀμώμητον κάλλιπον οὐκ ἐθέλων·
αὐτὸν δ' ἔκ μ' ἐσάωσα· τί μοι μέλει ἀσπὶς ἐκείνη;
ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω.

Archiloco

I me ga batù e 'desso i se la mena perché go dovù molar el mio scudo in graia. No gavessi mai volù (che bel ch'el iera), ma la xe 'ndada cussì.
Son vivo, però! Chi se frega del scudo. Ma ch'el vadi in mona, ch'el vadi: scudi sarà che noi no saremo.

martedì 1 luglio 2014

Dizionario di tutte 'e cose: X come Xe più giorni che luganighe

La garde à vue non la auguro a nessuno. Fosse per me, l'abolirei, questa misura poliziesca medievale comminata a milioni di persone, solo considerando il primo decennio del XXI secolo. Tuttavia, Sarkozy messo in garde à vue - lo stesso Sarkozy che da ministro dell'interno la considerava un indicatore dell'efficacia del proprio lavoro e ne raccomandava alla polizia un certo numero all'anno - permette almeno di spiegare definitivamente ai non triestini, in modo diretto, non mediato, senza l'ausilio di circonlocuzioni o perifrasi, il detto: Xe più giorni che luganighe.

martedì 24 giugno 2014

(spoiler)

Altro compleanno

A fine luglio quando
da sotto le pergole di un bar di San Siro
tra cancellate e fornici si intravede
un qualche spicchio dello stadio assolato
quando trasecola il gran catino vuoto
a specchio del tempo sperperato e pare
che proprio lì venga a morire un anno
e non si sa che altro un altro anno prepari
passiamola questa soglia una volta di più
sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore
e un'ardesia propaghi il colore dell'estate.

Vittorio Sereni


lunedì 16 giugno 2014

Salustri

Parole povere l'ho già riportata. La riporto ancora una volta, con la voce dell'autore. Così arricchiamo il nostro Wortschatz di una parola, povera anche lei, ma precisissima: salustri.

domenica 15 giugno 2014

Da Malaspina


Le donne degli anni Quaranta
sfoggiavano eleganti acconciature,
la riga a lato, il peekaboo bang
o i boccoli si aprivano sul collo
a sfiorare appena le spalle.
Fumavano nel cinema estasiate
a Via col vento o Giubbe rosse,
sognavano di assomigliare
a Veronica Lake o Lauren Bacall,
Gene Tierney o Ida Lupino, attente
nelle sale ai borsaioli e ai bulli
che lavoravano di fino, sotto sotto,
alle borsette e ai piedi.

Maurizio Cucchi, Malaspina, 2013

Trieste, 1943



sabato 14 giugno 2014

-- У! Уу! У! -- кричал он на разные интонации

Dopo moltissimi anni, questo pomeriggio mi sono decisa a cercare il grido originale di Ivan Il'ič, quello che ripete per tre giorni, prima di morire, e ho finalmente scoperto che non è Oh! Oh! Oh!: è Uh! Uuh! Uh!

Dizionario di tutte 'e cose: S come Sfunzionare

A Parigi, c'è un teatro che non è per niente centrale: sta nella parte settentrionale della città, nel X arrondissement, vicino alla Gare du Nord, la stazione più complicata - per numero di passeggeri in transito, numero di persone in difficoltà che vi circolano, stazionano e talora dimorano, condizione degli spazi ed odori - di tutte le stazioni ferroviarie parigine. Si chiama Théâtre des Bouffes du Nord ed è più piccolo di altri teatri più noti. 
È un teatro che, se non fosse un teatro, avrebbe bisogno di almeno tre mani di pittura, e invece ha un'aura che cresce ad ogni mancato intervento. Non ha sipario. Non ha una vera e propria platea, solo balconate. La scena sembra inghiottire le prime file di spettatori, che stanno seduti a terra, su dei cuscini: chi vi si accomoda, deve prevedere la possibilità di essere coinvolto fisicamente nello spettacolo, vuoi per la prossimità con gli attori e la condivisione, con questi ultimi, del medesimo spazio a terra, vuoi perché è naturale che questa prossimità possa indurre il regista a prevedere, a volte, una vera e propria interazione del pubblico con gli attori. Quando le luci sono accese, prima che lo spettacolo inizi, la luce non supera il livello del fioco-poco più che fioco, se si sta al di sotto di una balconata, come è capitato a me.
Volendolo descrivere con un aggettivo solo, il Théâtre des Bouffes du Nord è, prima di tutto, uno spazio immaginario. In realtà, a ripensarci, è, prima di tutto, perché Peter Brook l'ha salvato dall'abbandono e dalla demolizione. 
Brook andrebbe ringraziato solo per questo. Anche per quello che vi rappresenta, naturalmente, e molto. Per esempio, di recente, per The valley of astonishment.
 
Protagonista, la memoria; coprotagonista, il linguaggio. Come fonte di ispirazione, la testimonianza lasciata da un medico, Aleksandr Romanovič Lurija a proposito del giornalista Solomon Šereševskij, che esito a chiamare paziente, perché, da non medico, non mi pare che mescolare i sensi debba essere considerata una malattia. Inoltre, la sua sinestesia lo dotò di una memoria eccezionale. Tuttavia, Šereševskij da paziente fu trattato, non solo dai medici, ma anche da tutti coloro che non riuscirono a considerarlo normale, a cominciare dal suo direttore, stupito e stizzito dalla sua abitudine di non prendere alcuna nota durante le riunioni di redazione.
Nella pièce, esattamente come nelle testimonianze scritte lasciate dal medico, Šereševskij, trasformato in un personaggio femminile interpretato da Kathryn Hunter, dà una prova delle sue capacità mnemoniche in un test in cui deve ripetere le prime terzine della Divina Commedia. Il medico scelse Dante in quanto autore in una lingua completamente ignota a Šereševskij. Solo che noi, naturalmente, non la ignoriamo, mentre la testimonianza di uno degli episodi rivelatori del modo in cui Šereševskij riusciva a memorizzare delle sequenze di parole senza errore dopo averle sentite recitare una sola volta è parlante solo in russo. Anche il testo di Brook, che ha trasposto in inglese il racconto russo, funziona benissimo. In italiano, invece, non può funzionare, a meno che non si cambi tutto, a partire dai versi, che dovrebbero essere in una lingua ignota, per esempio il persiano de La conferenza degli uccelli, a cui Brook si è ispirato ancora una volta per tratteggiare la valle della meraviglia (stupore non mi piace), Hayrat, che potrebbe far pensare ad un milanese che scappa da una porta perché ha i ratti in casa, se optassi davvero per un test basato sul persiano. Nonostante in italiano non funzioni, lascio lo stesso tutto come nell'originale russo, a parte le inevitabili imprecisioni della mia interpretazione: lo lascio impreciso e imperfetto, come il Théâtre des Bouffes du Nord.

В декабре 1937 г. Ш. была прочитана первая строфа из "Божественной комедии".

Nel mеzzо del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura,
Che la diritta via era smarrita,
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

 
Как всегда, Ш. просил произносить слова предлагаемого ряда раздельно, делая между каждым из них небольшие паузы, которые были достаточны, чтобы превратить бессмысленные для него звукосочетания в осмысленные образы.
Естественно, что он воспроизвел несколько данных ему строф "Божественной комедии" без всяких ошибок, с теми же ударениями, с какими они были произнесены. Естественно было и то, что это воспроизведение было дано им при проверке, которая была неожиданно проведена... через 15 лет! Вот те пути, которые использовал Ш. для запоминания:
"Nel – я платил членские взносы, и там в коридоре была балерина Нельская; меццо (mezzo) – я скрипач; я поставил рядом с нею скрипача, который играет на скрипке; рядом – папиросы "Дели" – это del; рядом тут же я ставлю камин (camin), di – это рука показывает дверь; nos – это нос, человек попал носом в дверь и прищемил его; tra – он поднимает ногу через порог, там лежит ребенок – это vita, витализм; mi – я поставил еврея, который говорит "ми – здесь ни при чем"; ritrovai – реторта, трубочка прозрачная, она пропадает, – и еврейка бежит, кричит "вай" – это vai. Она бежит, и вот на углу Лубянки - на извозчике едет per – отец. На углу Сухаревки стоит милиционер, он вытянут, стоит как единица (una). Рядом с ним я ставлю трибуну, и на ней танцует Сельва (selva); но чтобы она не была Сильва – над ней ломаются подмостки – это звук "э"...

Nel dicembre del 1937 a Š. fu letta la prima strofa della Divina Commedia.

Nel mеzzо del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura,
Che la diritta via era smarrita,
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura.

 
Come sempre, Š. chiese di pronunciare le parole di ogni verso proposto separatamente, inserendovi brevi pause, che erano sufficienti a trasformare i suoni per lui privi di senso in immagini con un senso.
Naturalmente, ripetè i pochi versi della Divina Commedia senza commettere alcun errore, con lo stesso accento con cui gli erano stati pronunciati. Era anche naturale che questa riproduzione fosse ripetuta nel corso di un test che gli fu sottoposto all'improvviso... 15 anni dopo! Questi sono i percorsi che Š. usava per ricordare: "Nel - mentre stavo andando a pagare i contributi, ho incontrato nel corridoio la ballerina Nel'skaja; mezzo - sono un violinista; le ho piazzato vicino un violinista; vicino  a loro, delle sigarette "Deli" - questo è del; poi vicino ci ho messo un camino, di - è una mano che indica la porta; nos - è un naso, una persona si diresse verso la porta e la porta le si chiuse sul naso; tra solleva il piede per oltrepassare la porta e c'è un bébé - questo è vita; mi – ho piazzato un ebreo che continua a dire "mi non ho niente a che fare con questo"; ritrovai – una ritorta o, meglio, una storta, un tubo trasparente che sparisce ed una donna ebrea che corre ed urla “vai” – questo è vai. Sta correndo e all'angolo della Lubjanka – ecco che suo padre sta camminando – per. All'angolo del Suharevka un poliziotto sta in piedi dritto come il numero uno  – una. Vicino a lui piazzo un palco e su quel palco Sel'va sta ballando; ma non al punto da diventare Sil'va – sopra la sua impalcatura rotta  – questo è il suono “e”…

English

(Nos è naso in russo. Mi è noi pronunciato male. La mano che indica la porta, mi dispiace, ma non l'ho proprio capita. Magari chi andrà a vedere lo spettacolo di Brook a Perugia il prossimo ottobre e si metterà a studiare il russo per poter apprezzare meglio il testo ispiratore di Brook lo capirà. Per chi non lo farà, resta sempre la possibilità di leggere il poema persiano in traduzione nel bellissimo volume dell'Adelphi: persino quest'ultima non è precisissima nelle etichette che usa nel catalogo online).


giovedì 5 giugno 2014

" Des éléments démontrant l'utilisation de chlore, sous forme de gaz chimique, par l'armée syrienne "

Dice Le Monde che le autorità francesi dispongono da almeno una quindicina di giorni di elementi che dimostrano l'uso di cloro da parte dell'esercito siriano e che i risultati delle analisi dei campioni prelevati in Siria, effettuate in accordo con le regole internazionali, sono pronti, ma non possono essere resi pubblici per volontà dei servizi segreti francesi, americani e britannici, nonostante questi ultimi dispongano anche di intercettazioni che avrebbero rivelato il modo in cui gli attacchi sono stati preparati, nonché i loro mandanti ed esecutori.
La teoria della Rosina è ancora validissima ed internazionalmente riconosciuta.
*
Più che valida: il giorno dopo il pezzo di Le Monde, Romain Nadal, portaparola del ministro degli esteri, dice che l'analisi dei campioni è ancora in corso.
 *
A due giorni dall'annuncio dei risultati, poi smentito,  Samantha Power dice che sarebbe utile essere tenuti al corrente degli ultimi sviluppi dell'inchiesta.
La Rosina non guarda in faccia nessuno, neanche gli ambasciatori.


martedì 27 maggio 2014

Mια πόρτα

To ξυλουργείο,
τo σιδηρουργείο,
το παντοπωλείο,
οι γαλότσες του γεωργού
στο χαγιάτι,
χαμηλή συννεφιά,
σαπουνόνερα,
κι η απροσδόκητη
γαλάζια πόρτα πεσμένη
στα χαλάσματα
με το κλειδί της
στη θέση του.

Γιάννης Ρίτσος
Αθήνα, 3.ΙΙΙ.85


Una porta

La falegnameria,
la ferramenta,
la drogheria,
gli stivali di gomma del contadino
sotto il portico,
nuvole basse,
schiuma di sapone
e, inaspettata,
una porta blu crollata
a terra tra le rovine
con la chiave
al suo posto.

Yiannis Ritsos
Atene, 3.3.85

Cfr., volendo.