giovedì 25 aprile 2013

Retorica su: lo sbandamento, il principio "resistenza"


I

Ma che cosa è questo momento, cielo
di azzurro senza danno mai danno
o di paziente fumo.
E affilare e affiorare:
indenni come cospirò tutto a farli.
Io non vedo nulla e recito senza sforzo
o con sforzo una vita.
Noi non sappiamo: solo un cielo-celeste
e una terra dirotta ma celeste alla fine sugli orli.
Salire, fumo, salire globo a globo nel sommo;
cantare, cicala-ruscello, pendere, fico.
Röslein rot, rosellina tra le spine
spinami eccomi qui.
Alt visita annullata fuoricampo
non è tedesco né italiano, siamo tutti tra i minori
come l'erba è minore, come la rugiada.
L'uomo avviene e viene
tu salti oltre la strada e l'affossamento
oltre il vallo ed il fumo.
Rapido salti
ma t'ho veduto.
«Vedere».

II

Piccolissimo.
E quanti insetti e forse il bru-bruciore
dove ci si divezza per sempre.
E il sangue è sempre tanto, tanto! Il vero eccesso.
E anche l'arma che arma è presto terragna
è ruggine e da tanto
i suoi
i congegni
penso e non realizzo.
E volare «volare»: è ciò che non divaga
che apre all'altissimo
volare è un insetto, issimo, ed è - credo - santo.
Lo credo. Da qui. Ma qui dalla terra
scavalcato arretrato indietro indietro lasciato
sempre ipotesi allures canovacci
reggo, sempre, e «fantasie di colline».
Recito l'asma-vita: la poesia del ruscelletto
la grammatica l'universale
mais le fragole, oltre il fumo della cremazione
la paura il punto disseccato. Il non protetto
il non detto.

III

Orientarsi poco, in tutto. Essere in disordine
essere per forza morti e spesso
dichiaratamente
retorici e sciocchi o miseramente
vicini vicini all'orientamento.
Oh retorico amore
opera-fascino.
Non saltare e saltare al di là di questo cerchio
non promuoversi e promuoversi oltre.
Ardeva il fascino e la realtà
conversando convergendo
horeb ardevi tutto d'arbusti
tutto arbusto horeb il mondo ardeva.
E aveva una sola parola
(non è vero, no,
questa espressione è la punta di diamante
del retorizzamento, lo scolice della
sacramentale contraddizione,
ma vedi come ne sono...)
male ascoltata
bene ascoltata
una sola parola che diceva
e diceva il dire
e diceva il che. E. Congiungere. Con.
Torna, dove sei?
Torna: nel seno della cremazione
dai fieni cremati
torna io-noi, Hölderlin,
dipana il semplice sempre più semplice,
corri corri arrivano;
battaglione lepre, brigata-coniglio,
all'assalto: è il tempo
dell'opus maxime oratorium.
Una riga tremante Hölderlin fammi scrivere.
Sì? Nel fascino tutto conversa converge?

IV

E ho mangiato anche quel giorno
- dopo il sangue -
e mangio tutti i giorni
- dopo l'insegnamento -
una zuppa gustosa, fagioli.
Posso farlo e devo.
Tutti possono e devono.
Bello. Fagiolo. Fiore.

V

Scorci di Lorna, beni profondi.
Bene è la sera dove rintracciai
un color viola. Una cosa-sorte. Nascondi
bene, nuvola, bene, terra che non ti ritrai.

E delicato è il mio gesto nel mostrare
sé alla sera, nel dirimere fronde.
Messo t'ho innanzi, ora snella t'appare
la figura, scatta si confonde.

«Dormo»? Ma che è questo somatico, mentale
attimo. Che coagulo o vetta?
Che va emergendo, oro valore sale;
che sapore mi serra nella sua selva stretta

liofilizzata e sempre-nidi aromi
dendriti morti e risorti e tremendi
nel salvare nel resistere, pomi
larvali larvali incendi

e farsi dell'energia, del campo
tutto frugifero, dell'ingegno in gemma;
versato il tuorlo gettato lo stampo
testo ave ad ave avanzante, lemma a lemma:

e giorgioni al lavoro per entro tempeste
e molti hitler e molti altri inghippi
e zuppi i pennelli di inillustrabile e teste
sceltissime, filosofanti, e frottole e scippi

magnifici di p-poeti. Bosco rumore di fondo
rumore puro sai tutto, mi vinse
per sempre mi vinse invivandomi il tuo girotondo.
Scorci di Lorna, bene in cui si strinse
per l'ultimo sguardo l'ultima virtù.

VI

Quelle sarebbero state le parole finali
ma... Ancora il fascino?
Il fascino e il principio. E voi che veramente
precipitavate rotolavate fuori, giù dall'agosto.
Ma... La staffetta valica le forre e gl'incendi
le rovine che vorrebbero prendere forma di rovine
i mosaici laggiù i piumaggi,
fortemente storicizzato
nel senso della microstoria
è questo suo affannarsi e retorico e fuori tempo massimo.
Va' corri. Spera una zuppa di fagioli
spera arrivare possedere entrare
nel templum-tempus.
Contemplare. Tempo ottimo e massimo.
E tutto questo fu veduto
come strisciando sull'erba, da terra
o da terra a terra o brevissimo
terra-aria aria-terra zoom

L'azione sbanda si riprende
sbanda glissa e


Andrea Zanzotto
La beltà

martedì 23 aprile 2013

Verso il 25 aprile

Ci si sta riavviando verso il 25 aprile. Quest'anno, così.


- E secondo lei, che ci si dovrebbe fare, con la libertà?
- Non se ne può cavare molto. Bisognerebbe semplicemente leggere di più. La libertà serve per andare in biblioteca.
Intervista di Miriam Gross a Iosif Brodskij, The Observer, 25 ottobre 1981

giovedì 18 aprile 2013

Dizionario di tutte 'e cose - P come Presidente

Spero che mi si scuserà per la caduta nell'appiccicosa attualità, ma vorrei lasciare traccia del mio candidato alla Presidenza della Repubblica.



Autosfottò del mite giacobino

Gli antifascisti levano le tende,
ma il mite giacobino non si arrende.
La birba vince e il giusto se le prende,
ma il mite giacobino non si arrende.
Cadono Luther King, Kennedy, Allende,
ma il mite giacobino non si arrende.
La fiaccola del Mis losca si accende,
ma il mite giacobino non si arrende.
La classe dirigente compra e vende,
ma il mite giacobino non si arrende.
Dilaga il male, da Napoli a Torino,
ma non si arrende il mite giacobino.

Alessandro Galante Garrone

Scritta per Corrado Stajano in risposta ad una sua intervista pubblicata su Il giorno nel febbraio del 1974 con il titolo "Il mite giacobino non s'arrende".
Tratta da Alessandro Galante Garrone, Il mite giacobino: conversazione su libertà e democrazia raccolta da Paola Borgna, Donzelli 1994.
So che sembra mancargli un solo, piccolo requisito per essere eletto, ma ho verificato: nella Costituzione non c'è scritto che il Presidente debba avere polso o segni di circolo.

venerdì 12 aprile 2013

Mondo pinoso mondo nevoso ovvero detto a Zanzotto: "Eccoti una pinzetta e una graffetta: ne tengo sempre da parte una coppia per le grandi occasioni"

Tra Geoffrey Hill e Carol Ann Duffy, vale a dire tra dichiarazioni relativamente condivisibili del primo (l'arte genuinamente difficile è veramente democratica, mentre la tirannide richiede semplificazione) e relative poesie che purtroppo non sopravvivono alla camicia di forza delle stesse dichiarazioni:

But hear this: that which is difficult
preserves democracy; you pay respect
to the intelligence of the citizen.
Basics are not condescension. Some
tyrants make great patrons. Let us observe
this and pass on. Certain directives
parody at your own risk. Tread lightly
with personal dignity and public image.
Safeguard the image of the common man.
(Da On reading Crowds and power di Geoffrey Hill)

e dichiarazioni disarmanti (le poesie sono una forma di messaggistica) almeno quanto alcune delle poesie della stessa autrice:

Cold pavement indeed
the night you died,
murdered;
but the airborne drop of blood
from your wound
was a seed
your mother sowed
into hard ground –
your life's length doubled,
unlived, stilled,
till one flower, thorned,
bloomed
in her hand,
love's just blade. 

(Stephen Lawrence di Carol Ann Duffy)


io, se proprio devo scegliere, sto con Zanzotto. È una posizione meno comoda di quel che si potrebbe pensare: tutto un cercare pinzette per raccogliere, ad una ad una, parole ed annotarle e graffette per unire i fogli degli appunti in fascicoletti, alla ricerca di un nesso - se non proprio di un senso in sintonia - col mondo. Pinzette per un lavoro metodico, di precisione, immane. Graffette per unire e disunire pagine, comporle e scomporle, ovvero per dare spazio a tentativi, ripensamenti, correzioni e ripartenze, e questo è un lavoro senza fine. E poi, per quando Zanzotto decide di venire a farmi visita, identificare una pinzetta ed una graffetta speciali, da mettere da parte appositamente per lui.


Sì, ancora la neve

“Ti piace essere venuto a questo mondo?”

Bamb.: Sì, perché c’è la STANDA”.

Che sarà della neve
che sarà di noi?
Una curva sul ghiaccio
e poi e poi… ma i pini, i pini
tutti uscenti alla neve, e fin l’ultima età
circondata da pini. Sic et simpliciter?
E perché si è – il mondo pinoso il mondo nevoso -
perché si è fatto bambucci-ucci, odore di cristianucci,
perché si è fatto noi, roba per noi?
E questo valere in persona ed ex-persona
un solo possibile ed ex-possibile?
Hölderlin: “siamo un segno senza significato”:
ma dove le due serie entrano in contatto?
Ma è vero? E che sarà di noi?
E tu perché, perché tu?
E perché e che fanno i grandi oggetti
e tutte le cose-cause
e il radiante e il radioso?
Il nucleo stellare
là in fondo alla curva di ghiaccio,
versi inventive calligrammi ricchezze, sì,
ma che sarà della neve dei pini
di quello che non sta e sta là, in fondo?
Non c’è noi eppure la neve si affisa a noi
e quello che scotta
e l’immancabilmente evaso o morto
evasa o morta.
Buona neve, buone ombre, glissate glissate.
Ma c’è chi non si stanca di riavviticchiarsi
graffignare sgranocchiare solleticare,
di scoiattolizzare le scene che abbiamo pronte,
non si stanca di riassestarsi
- l’ho, sempre, molto, saputo -
al luogo al bello al bel modulo
a cieli arcaici aciduli come slambròt cimbrici
al seminato d’immagini
all’ingorgo di tenebrelle e stelle edelweiss
al tutto ch’è tutto bianco tutto nobile:
e la volpazza di gran coda e l’autobus
quello rosso sul campo nevato.
Biancaneve biancosole biancume del mio vecchio io.
Ma presto i bambucci-ucci
vanno al grande magazzino
- ai piedi della grande selva -
dove c’è pappa bonissima e a maraviglia
per voi bimbi bambi con diritto
e programma di pappa, per tutti
ferocemente tutti, voi (sniff sniff
gran gnam yum yum slurp slurp:
perché sempre si continui l’”umbra fuimus fumo e fumetto”):
ma qui
ahi colorini più o meno truffaldini
plasmon nipiol auxol lustrine e figurine
più o meno truffaldine:
meglio là, sottomano nevata sottofelce nevata…
O luna, ormai,
e perfino magnolia e perfino
cometa di neve in afflusso, la neve.
Ma che sarà di noi?
Che sarà della neve, del giardino,
che sarà del libero arbitrio e del destino
e di chi ha perso nella neve il cammino
(e la neve saliva saliva – e lei moriva)?
E che si dice là nella vita?
E che messaggi ha la fonte di messaggi?
Ed esiste la fonte, o non sono
che io-tu-questi-quaggiù
questi cloffete clocchete ch ch
più che incomunicante scomunicato tutti scomunicati?
Eppure negli alti livelli
sopra il coma e il semicoma e il limine
si brusisce e si ronza e si cicala-ciàcola
- ancora – per una minima e semiminima
biscroma semibiscroma nanobiscroma
cose e cosine
scienze lingue e profezie
cronaca bianca nera azzurra
di stimoli anime e dèi,
libido e cupìdo e la loro
prestidigitazione finissima;
è così, scoiattoli afrori e fiordineve in frescura
e “acqua che devia
si dispera si scioglie s’allontana”
oltre il grande magazzino ai piedi della selva
dove i bambucci piluccano zizzole…
E le falci e le mezzelune e i martelli
e le croci e i designs-disegni
e la nube filata di zucchero che alla psiche ne vie?
E la tradizione tramanda tramanda fa passamano?
E l’avanguardia ha trovato, ha trovato?
E dove il fru-fruire dei fruitori
nel truogolo nel buio bugliolo nel disincanto,
dove, invece, l’entusiasmo l’empireirsi l’incanto?
Che si dice lassù nella vita,
là da quelle parti là in parte;
che si cova si sbuccia si spampana
in quel poco in quel fioco
dentro la nocciolina dentro la mandorletta?
E i mille dentini che la minano?
E il pino. E i pini-ini-ini per profili
e profili mai scissi mai cuciti
ini-ini a fianco davanti
dietro l’eterno l’esterno l’interno (il paesaggio)
dietro davanti da tutti i lati,
i pini come stanno, stanno bene?

Detto alla neve: “Non mi abbandonerai mai, vero?”

E una pinzetta, ora, una graffetta.

Andrea Zanzotto
La beltà, 1968

mercoledì 3 aprile 2013

Sei mesi fa perderemo

"Haben Sie von dem Brande in Mommsens Hause gelesen?"
"Ha letto dell'incendio in casa di Mommsen?"
Nietzsche a Peter Gast secondo Heiner Müller in Mommsens Block

In seguito all'involontaria, ma per lo meno colposa, distruzione dell'archivio di Daniel Mordzinski da parte di Le Monde, si potrebbe dire, come devono aver già espresso in molti, tutto il peggio possibile del quotidiano francese, che pare conservasse inconsapevolmente più di 50000 fotografie del fotografo argentino in un suo ufficio e che non sembra ora particolarmente brillante nell'offrire spiegazioni e scuse per l'accaduto, anzi, spiegando e scusandosi sembra concorrere a rendere ancora più imbarazzante - se possibile - la propria posizione (senza il minimo avallo da parte della direzione, non è mai esistito nessun accordo contrattuale, ecc.). Al di là del rammarico per la distruzione dell'archivio di una vita e al di là della solidarietà a Mordzinski, che andrebbe abbracciato senza troppe parole, si potrebbe anche dedicare qualche pensiero all'utilità degli archivi digitali. O piuttosto al concetto di responsabilità e ad una sua ripartizione, per quanto differenziata, tra tutti i  soggetti interessati, vale a dire Mordzinski stesso, Le Monde, la sua direzione e la sua amministrazione, i suoi servizi tecnici, gli addetti dell'impresa di traslochi cui il giornale deve aver affidato l'incarico di sgomberare il locale che ospitava l'archivio fino all'ottobre del 2012, El País e il suo corrispondente da Parigi, cui Le Monde aveva dato in prestito il locale. Oppure, ci si potrebbe domandare cosa siano davvero una ricchezza o un patrimonio culturale, per stabilire se e in quale misura abbiamo effettivamente subito una perdita. È principalmente su quest'ultimo aspetto che mi sento di scrivere qualche riga in questo momento in cui traspongo i miei pensieri in una forma pubblica ormai vetusta, destinata a scomparire, vuoi con un preavviso, in stile Google Reader, vuoi di schianto, come potrebbe succedere ad Internet con un virus ben congegnato e ben trasmesso, vuoi lentamente, ma senza eccessivi lamenti, come talvolta fa la democrazia.
Mi sembra di aver capito che tutte le fotografie andate irrimediabilmente perdute, oltre a non essere state conservate con la dovuta diligenza, sono andate perdute proprio in quanto non sono mai state né riprodotte né esposte al pubblico in nessuna forma. Se l'accessibilità e la fruibilità dell'archivio - condizioni prime di una sua vitale ricchezza - erano tali solo ed esclusivamente in potenza, allora abbiamo subito solo una perdita in potenza e, in senso stretto, non è successo ancora niente, almeno non al di fuori della cerchia dei soggetti interessati, almeno non nel momento presente. Siccome però, in un giorno futuro destinato a rimanere per sempre ignoto, l'autore o i suoi aventi causa avrebbero potuto condividere le fotografie con il pubblico in qualche forma, esponendole in spazi espositivi o riproducendole in libri, allora forse, oggi, 3 aprile 2013, possiamo dire, così come potremo continuare a dire nel 2014 e in tutti gli anni successivi fino alla fine del mondo, che nell'ottobre del 2012 avremo perduto un prezioso, ricchissimo archivio fotografico. La (legittima) scelta di costituire e mantenere un archivio in forma pressoché privata ha sottratto all'opera di Mordzinski la sua esistenza in modo così radicale da non lasciarle nemmeno una vera e propria possibilità di scomparire.

 
Mario Benedetti di Daniel Mordzinski
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