domenica 18 marzo 2012

Le dieci e venticinque


Questa potrebbe tranquillamente essere la storia di un orologio. È un orologio che si fermò alle dieci e venticinque di mattina del 2 agosto 1980, poi di nuovo ad un certo punto nel 1995 e poi di nuovo nell'agosto dell'anno scorso. Ritorna sempre a quell'ora: le dieci e venticinque.
È l'orologio nell'angolo in alto a destra di questa fotografia. Da una fotografia non si riesce a capire se l'orologio si sia fermato, e siccome appare non danneggiato, si potrebbe pensare che fissi il momento in cui è stata scattata la foto. Ma non è così. Fissa il momento in cui scoppiò la bomba.

23 chili di nitroglicerina, T4 e composto B in una valigia abbandonata nella sala d'attesa della seconda classe dell'ala occidentale della stazione dei treni di Bologna. Una bomba concepita per provocare il massimo impatto, non solo sull'edificio – l'intera ala fu distrutta dall'esplosione, assieme al treno Ancona-Chiasso che era in attesa della partenza dal binario più vicino – ma anche in termini di numero di vittime. Una mattina di sabato all'inizio del mese delle vacanze in uno dei nodi ferroviari più trafficati del paese, e la sala d'attesa della seconda classe, dove si sarebbe trovata la massima concentrazione di persone. La bomba ne uccise 85 e ne mutilò o ferì più di 200. La forza dell'esplosione fu tale che di una delle vittime, Maria Fresu, non si trovarono resti. Stava viaggiando con degli amici, i cui corpi furono recuperati. E anche con sua figlia, che aveva tre anni, ma tutto quel che rimase di Maria Fresu fu una manciata di frammenti sparsi. Era stata disintegrata.

Chiaramente, questa non è la storia dell'orologio che si fermò alle dieci e venticinque di mattina del 2 agosto 1980, come se anch'esso fosse stato colpito dallo shock. È la storia della gente coinvolta: di quelli all'interno della stazione dei treni dove la bomba scoppiò, di quelli che accorsero per unirsi ai soccorritori, insufficienti ed impreparati, di quelli che confezionarono la bomba e di quelli che la piazzarono (che non sono necessariamente gli stessi) e, più tardi, di quelli che fabbricarono le prove per depistare le indagini e poi degli inquirenti che, lentamente e  faticosamente, setacciarono le prove, sia quelle autentiche sia quelle artefatte, e alla fine trovarono alcuni, ma non tutti i colpevoli. Perché, in fin dei conti, questa è una storia eminentemente italiana: una storia di occultamenti, delusioni e collusioni, una storia di istituzioni parallele allo Stato o nascoste all'interno dello Stato, il cui compito fu quello di assicurare che non si sarebbe mai trovata la verità, tutta la verità. E senza la verità, senza la giustizia – come fu detto nel primo anniversario della bomba – la storia stessa diventa priva di senso.

Ci sono voluti quindici anni per condannare due dei tre esecutori materiali dell'attentato – i terroristi neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro – assieme agli addetti dei servizi segreti militari e al capo della loggia massonica P2 responsabili di una serie di operazioni di occultamento via via più elaborate e, in ultima analisi, coronate da successo. È in non piccola parte grazie a quegli sforzi che conosciamo esecutori e modalità, ma non sappiamo ancora su ordine di chi e perché gli esecutori agirono. La bomba di Bologna è, a questo riguardo, il punto culminante di quello che i cronisti e gli storici chiamano la strategia della tensione, ma anche il suo aspetto più inquietante e terribile. Non era il 1969, l'anno in cui fu inaugurata tale strategia. Nel 1980, lo stato italiano non sembrava più vulnerabile e la necessità di incutere paura tra la popolazione per sedare i movimenti rivoluzionari e le lotte operaie da una parte, e di andare incontro alla richiesta di interventi autoritari dall'altra, avevano quasi perso tutta la loro urgenza. Eppure fu in quel momento che fu commessa la strage più grave. L'attentato alla stazione di Bologna uccise più persone delle stragi di piazza Fontana, della questura di Milano, di Gioia Tauro, dell'Italicus e di piazza della Loggia messe assieme. Fu l'atrocità che incluse tutte le altre atrocità, e tuttavia rimase priva del movente politico, vale a dire del legame – per quanto folle, per quanto criminale e orribile – col presente.

Massacro per il gusto del massacro, questa è forse l'unica forma di terrorismo che ne meriti il nome. E questo io ricordo prima di tutto di quegli anni. Esiste qualcosa di più profondamente sconvolgente, nella vita di un bambino, che leggere la paura sul volto dei propri genitori, degli adulti? Avevo nove anni quando ebbe luogo l'attentato di Bologna. Stavamo passando le vacanze in Jugoslavia con amici. Recuperammo un giornale italiano, forse non era nemmeno l'indomani, ma il giorno dopo ancora, tuttavia la costernazione e la paura provata dai miei genitori e dagli altri, me le ricordo bene.
Questa non è la storia di un orologio. Non potrebbe esserlo. È la storia di Maria Fresu, che alle dieci e venticinque del 2 agosto del 1980 semplicemente smise di esistere, e potremmo anche non conoscerne mai il motivo. È la storia di sua figlia di tre anni e delle altre vittime e dei feriti e dei loro cari, di quelli che per più di tre decenni hanno lottato e continuano a lottare per la verità e la giustizia che sono state loro negate. L'associazione dei parenti delle vittime della strage della stazione di Bologna è un microcosmo della società italiana di quegli anni, costituito dalle persone il cui impegno non scaturì dalla condivisione di un comune substrato politico o ideologico, ma nella più tragica e casuale delle circostanze (quasi letteralmente ognuno di noi avrebbe potuto passare per la stazione, quel giorno). E da quelle circostanze crebbe la determinazione di non farsi scappare anche quelle carogne, di esercitare una maggiore pressione in quei primi anni in cui le indagini stavano per essere abbandonate, e poi, ancora una volta, dopo la grottesca sentenza di assoluzione del 1990, che i giudici della Corte di Cassazione che istituirono la revisione del processo chiamarono in seguito ‘illogica e priva di coerenza’. Eppure è tanta la parte che ignoriamo di quel massacro, così come di quelli che l'avevano preceduto. Quasi l'unico elemento stabilito con certezza giuridica è il coinvolgimento di settori dello Stato negli occultamenti e nei depistaggi. Così, forse, è questa la cosa più vicina al movente di cui disponiamo. Ragion di stato. Per il bene dello Stato.

E così questa potrebbe essere anche la storia di quell'orologio, perché se si deve immaginare che per i membri dell'associazione il tempo si fermò davvero alle dieci e venticinque del 2 agosto 1980, allora forse si può dire lo stesso per le nostre istituzioni democratiche. Non che sia stato sempre così, per quello stesso orologio. Pochi mesi dopo l'attentato era stato riparato, però la maggior parte delle persone pensavano che non lo fosse stato – questo è il punto in cui la storia diventa un po' particolare – e agli amministratori della stazione si continuò a chiedere che fosse puntato alle dieci e venticinque per poter fare delle foto o in occasione delle commemorazioni, il che risultò essere una faccenda piuttosto complicata, per cui, quando il meccanismo si ruppe, nel 1995, si colse l'opportunità di non ripararlo, e le lancette furono riportate alle dieci e venticinque, dove rimasero fino all'agosto dell'anno scorso. Fu allora che l'orologio venne riparato una seconda volta. Qualcuno si era lamentato, anche se in realtà delle lamentele c'erano sempre state: non c'è alcuna targa al di sotto dell'orologio, e così alcune persone, del tutto comprensibilmente, possono credere che sia funzionante, perdendo occasionalmente il loro treno. Ma quella volta l'amministrazione cedette e così l'orologio fu rimesso in servizio, il che suscitò ancora più lamentele da parte dell'associazione dei familiari delle vittime e da parte di tutte le persone che pensavano che non avrebbe dovuto essere ripristinato, e così, circa un mese dopo, le lancette furono riposizionate alle dieci e venticinque ancora una volta, e in quella posizione rimangono. Almeno per ora.

L'orologio è un memoriale per caso e suo malgrado, ovvero una metafora calzante del modo in cui tali crimini della nostra storia sono ricordati, vale a dire ad intermittenza, con esitazione, e fintanto che non sia troppo sconveniente. Fioravanti e Mambro – che anche prima degli eventi del 2 agosto 1980 si erano resi responsabili, tra gli altri, di una dozzina di omicidi e per aver commissionato l'omicidio del giudice inquirente Mario Amato – sono fuori dal carcere e vivono vite rispettabili, scrivendo libri e lavorando con l'organizzazione non governativa Nessuno tocchi Caino, che si oppone alla tortura e alla pena di morte. Non hanno mai riconosciuto il loro ruolo nell'attentato, tanto meno nominato i suoi promotori, e sono rimasti in carcere sedici anni più dieci di libertà vigilata, in seguito ad una sentenza che aveva comminato 8 ergastoli più 134 anni e 8 mesi di reclusione  (Fioravanti) e 9 ergastoli più 84 anni e 8 mesi di reclusione (Mambro). Anche queste sentenze di condanna quasi comicamente iperboliche, nonché il divario rispetto al tempo effettivamente trascorso dietro alle sbarre, suggeriscono una nozione del tempo estremamente elastica da parte del nostro sistema giudiziario. L'orologio collocato sull'ala occidentale della stazione dei treni di Bologna non è l'unico a funzionare ad intermittenza.

Ma quello che mi scolvolge non è il fatto che questi fedeli soldati semplici siano a piede libero, non la cosa in sé. L'affronto di gran lunga più grave è che non si siano tratte le conclusioni storiche e politiche da tutto quello spargimento di sangue, e che tutto quello che conoscevamo, tutto quello di cui avevamo ampie prove non sia stato mai riconosciuto in modo ufficiale: nella fattispecie, che ci fossero alcuni in posizioni di potere che considerarono quelle stragi come necessarie per la conservazione dello Stato, e che quindi le nostre istituzioni pubbliche come esistono oggi non si possano più dire fondate sui principi dell'antifascismo, né su una risposta democratica e civile al terrorismo di sinistra e di destra degli anni '70, quanto piuttosto su una serie di azioni di repressione ed omicide finanziate dallo stato, concepite per proteggere e cementare le strutture del potere esistenti. L'attentato alla stazione di Bologna fu la più spettacolare di queste azioni, fu la lezione finale della brutalità richiesta per mantenere la pace: ottantaquattro corpi dovettero essere straziati, distrutti o ridotti a pezzi. L'ottantacinquesimo fu disintegrato. Un'esplosione. Un fermo immagine. Per tutte quelle vite, e nella nostra storia, sono sempre e saranno sempre le dieci e venticinque.

*
Fin qui Giovanni, che ringrazio. Io ho solo due cose da aggiungere: un link alla poesia di Zanzotto dedicata a Maria Fresu ed un pezzo che Aldo Giannuli, nel suo "Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro", che non solo al caso Moro è dedicato, giustamente si augurerebbe venisse incluso nei libri di testo scolastici italiani. Si tratta di una lettera-capolavoro di Andreotti, scritta il 4 ottobre 1978 in risposta all'interpello del procuratore della Repubblica di Roma Giovanni Di Matteo in merito ai tentativi di colpo di stato, tra i quali il golpe Borghese e il caso Rosa dei venti:
[...] in risposta all'interpello del 22 agosto 1978 (Rgpm 298/76-c) comunico che nessuna organizzazione di militari e civili ha o può avere compiti istituzionali di carattere politico.  
Ad alcuni uffici del disciolto Servizio Informazioni della Difesa era demandato il coordinamento e la pianificazione di attività operative inerenti la sicurezza del paese.
Nessuna delle deviazioni ipotizzate dall'interpello può aver trovato giustificazione nell'esigenza di tutelare il superiore interesse politico-militare dello Stato.
Tutti i fatti conosciuti dall'autorità di governo, inerenti sospette collusioni di singoli militari con gruppi eversivi sono stati tempestivamente riferiti all'Ag nel corso dei procedimenti citati dalla S.v.

2 commenti:

  1. Dovevo essere lì quel giorno a quell'ora. In attesa di coincidenza e quindi, presumibilmente, in sala d'aspetto. Di seconda classe, beninteso. Poi un contrattempo del dentista che mi doveva finire un lavoro, mi ha costretta a rimandare la partenza al giorno dopo.
    Restano sulla pelle, certe cose, quando se ne è stati sfiorati, più che a leggerne sui giornali e vederne le immagini.

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  2. Della mia famiglia quello che passava spesso di lì era un mio zio, allora studente a Bologna. Anche lui per fortuna quel giorno non vi passò. Chiunque avrebbe potuto essere in quel posto a quell'ora: è il chiunque che ha reso attentati come quello così devastanti, non solo negli effetti reali, di morte, di ferite e di danni, ma anche in quelli immaginati, in quelli possibili, potenziali.

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