lunedì 27 febbraio 2012

wien: heldenplatz

der glanze heldenplatz zirka
versaggerte in maschenhaftem männchenmeere
drunter auch frauen die ans maskelknie
zu heften heftig sich versuchten, hoffensdick
und brüllzten wesentlich.

verwogener stirnscheitelunterschwang
nach nöten nördlich, kechelte
mit zu-nummernder aufs bluten feilzer stimme
hinsensend sämmertliche eigenwäscher.

pirsch!
döppelte der gottelbock von Sa-Atz zu Sa-Atz
mit hünig sprenkem stimmstummel.
balzerig würmelte es im männechensee
und den weibern ward so pfingstig ums heil
zumahn: wenn ein knie-ender sie hirschelte.

Ernst Jandl
1962
wien, heldenplatz, 15.3.1938

vienna: piazza degli eroi

la risplentera piazza degli eroi circumcirca
cedeva nel pantano di magliasse oceaniche di omuncoli
tra cui anche donne, che al ginocchio mascolare
si provavano a premere veementi, pregne di speranza
ed essenzialmente abbaiavano a guance pendule.

entusiasta dell'impato della discriminatura sulla fronte
con note penose tendenti al nordico, trantolava
con voce facentesi numero, puntuta di sangue,
falciando miserevoltutti quelli che se ne tiravano fuori.

si apra la caccia!
raddoppiava saltellante il caprone deuccio fra-SS-imbeccando
a voce sincopata enormosamente severosa.
in calore vermicolava l'oceano di omuncoli
e per le femmine divanne così pentecostale sullo heil,
speciammente se le accervava un moto del ginocchio.

trieste, piazza dell'unità d'italia, 18.9.1938

Non sono soddisfatta del risultato, ma erano più o meno 4 anni che aspettava di uscire dalle bozze ed iniziava a soffocare un po'.

domenica 26 febbraio 2012

Schutthaufen

Der Dichter Ossip Mandelstam wurde zuletzt gesehen
in einem Durchgangslager für die Gefangenen
bei Wladiwostok im Dezember Achtunddreißig
wie er nach Resten von Eßbarem suchte in einem
Abfallhaufen. Er starb noch vor Jahresende

Seine Mörder sprachen zu jener Zeit nicht ungern
vom »Schutthaufen der Geschichte
auf den der Feind
geworfen wird«

So also sah der Feind aus: der todkranke Dichter
und so sah der Schutthaufen aus (wie schon Lenin gesagt hat:
»Die Wahrheit ist konkret«) Wenn die Menschheit Glück hat
werden die Archäologen des Schutthaufens der Geschichte
noch etwas vom Heimweh nach Weltkultur ausgraben
Wenn die Menschheit Glück hat werden die Archäologen
auf dem Schutthaufen der Geschichte Menschen sein

Erich Fried

Ossip Mandelstam, herausgefordert, den Akmeismus, eine poetische Richtung, deren Anhänger er war, zu bezeichnen, nannte ihn 1937 "Heimweh nach Weltkultur". Erich Fried, Gedichte, dtv, 2007


Cumulo di macerie

Il poeta Osip Mandel’štam alla fine fu visto
in un campo di transito per prigionieri
vicino a Vladivostok nel dicembre del trentotto
mentre cercava resti commestibili in un
mucchio di rifiuti. Morì ancor prima della fine dell'anno

I suoi assassini a quel tempo parlavano ancora volentieri
di »cumulo di macerie della storia
su cui verrà gettato
il nemico«

Questo era quindi il volto del nemico: il poeta malato mortalmente
e questo l'aspetto dei cumuli di macerie (come ha già detto Lenin:
»La verità è concreta«) Se l'umanità avrà fortuna
gli archeologi del cumulo di macerie della storia
recupereranno ancora vestigia di nostalgia per la cultura universale
Se l'umanità avrà fortuna gli archeologi saranno
uomini sul cumulo di macerie della storia

Osip Mandel’štam, alla richiesta di descrivere l'acmeismo, un movimento poetico di cui era rappresentante, lo chiamò nel 1937 "Nostalgia per la cultura universale".

sabato 25 febbraio 2012

3

Wahrlich

Für Anna Achmatova

Wenn es ein Wort nie verschlagen hat,
und ich sage es euch,
wer bloß sich zu helfen weiß
und mit den Worten -

dem ist nicht zu helfen.
Über den kurzen Weg nicht
und nicht über den langen.

Einen einzigen Satz haltbar zu machen,
auszuhalten in dem Bimbam von Worten.

Es schreibt diesen Satz keiner,
der nicht unterschreibt.

Ingeborg Bachmann
1965


Veramente

Per Anna Achmatova

Se non è mai rimasto interdetto da una parola,
vi dico,
chi non sa che aiutarsi da sé
e con le parole -

non può essere aiutato.
Non sbrigativamente
né con l'aiuto del tempo.

Far durare una sola frase,
resistere alla fantasmagoria delle parole.

Questa frase non la scrive nessuno
se prima non la sottoscrive.

Ich erwähne das alles nicht, um ein Urteil über die einzelnen Dichter und ihre Irrtümer, ihre Einseitigkeiten zu verunmöglichen. Sondern um zu erinnern, wenn man sich heute desorientiert fragt, wie wohl das Neue, wie wohl das Austreten eines wirklichen Dichters und einer Dichtung zu erkennen sei. Es wird zu erkennen sein an einer neuen gesamten Definition, an Gesetzgebung, an dem geheimen oder ausgesprochenen Vortrag eines unausweichlichen Denkens.
Zeitlos freilich sind nur die Bilder. Das Denken, der Zeit verhaftet, verfällt auch wieder der Zeit. Aber weil es verfällt, eben deshalb muß unser Denken neu sein, wenn es echt sein und etwas bewirken will.
Ingeborg Bachmann, Fragen und Scheinfragen, Frankfurter Vorlesung, 1959

Menziono tutto questo non per rendere impossibile un giudizio sui singoli poeti e sui loro errori, sulle loro parzialità, bensì per ricordare, quando oggi ci si chiede, disorientati, come si possa riconoscere il nuovo, l'arrivo di un vero poeta e di una vera poesia, che li si riconosce da una nuova definizione globale, da una legge, riportando, implicitamente o esplicitamente, un pensiero ineludibile.
Senza tempo restano certamente solo le immagini. Il pensiero, ancorato al tempo, è reclamato dal tempo, ma siccome ne diviene succube, proprio per questo il nostro pensiero deve rinnovarsi, se vuole essere autentico e ottenere qualche effetto.

*
Смерть поэта

I

Как птица мне ответит эхо.
Б. П.

Умолк вчера неповторимый голос,
И нас покинул собеседник рощ.
Он превратился в жизнь дающий колос
Или в тончайший, им воспетый дождь.
И все цветы, что только есть на свете,
Навстречу этой смерти расцвели.
Но сразу стало тихо на планете,
Носящей имя скромное... Земли.

Анна Ахматова
1960


La morte del poeta

I

Как птица мне ответит эхо.
B. P.

Ieri una voce unica si tacque,
ci ha lasciati l'interlocutore delle selve.
Si è mutato nella spiga che dà vita
o nella pioggerella da lui cantata.
E tutti i fiori che ci sono al mondo
incontro a questa morte sono sbocciati.
Ma di colpo ci fu silenzio sul pianeta
che ha un modesto nome... Terra.

Anna Achmatova
traduzione di Carlo Riccio

*
Всё сбылось

Дороги превратились в кашу.
Я пробираюсь в стороне.
Я с глиной лед, как тесто квашу,
Плетусь по жидкой размазне.

Крикливо пролетает сойка
Пустующим березняком.
Как неготовая постройка,
Он высится порожняком.

Я вижу сквозь его пролеты
Bсю будущую жизнь насквозь.
Bсе до мельчайшей доли сотой
В ней оправдалось и сбылось.

Я в лес вхожу, и мне не к спеху.
Пластами оседает наст.
Как птице, мне ответит эхо,
Мне целый мир дорогу даст.

Среди размокшего суглинка,
Где обнажился голый грунт,
Щебечет птичка под сурдинку
С пробелом в несколько секунд.

Как музыкальную шкатулку,
Ее подслушивает лес,
Подхватывает голос гулко
И долго ждет, чтоб звук исчез.

Тогда я слышу, как верст за пять,
У дальних землемерных вех
Хрустят шаги, с деревьев капит
И шлепается снег со стрех.

Борис Пастернак
1958


Everything came true

The roads have weathered into gruel
And I must turn aside and go
And plash along a different path
And through the paste-ice, soft as dough.

A jay flies screeching overhead
Into a birch grove's emptiness
That, like an uncompleted building,
Uprears itself in nakedness;

And through its archways I can see
My whole life's future course lie bare
For all its small particulars
Are outlined and perfected there.

The snow-crust lies in layers where
I walk the wood unhurriedly.
And echoes give me their reply:
The way ahead grows clear for me.

In patches on the soaking loam
The bare earth is uncovering
While now and then, as seconds pass,
A bird keeps softly twittering

Her music, like a music box,
Until the forest overhears.
Relays it through its hollow throat.
And waits, waits, till it disappears;

Then long I hear how mile on mile
To distant signposts sounds still flow
Of crackling footsteps, dripping trees.
And from the eaves the splash of snow.

Boris Pasternak
Translated by Henry Kamen

giovedì 23 febbraio 2012

Un'altra vita

Sono nato a Czernowitz. La mia lingua materna è il tedesco. Con i nonni, parlavo yiddish. Con i domestici, parlavo ruteno. Quando sono nato, Czernowitz era in Romania e si parlava rumeno. Così è stato fino a quando ho compiuto 8 anni. Quando è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, questo idillio con il tedesco di colpo si è infranto. Ci hanno messi nel ghetto e poi ci hanno trasferiti in un campo. Mi hanno separato da mio padre, mentre mia madre era già stata uccisa. E io, io sono rimasto solo. Ho deciso di fuggire dal campo. Ero biondo, sembravo un bambino ucraino. Mi ha adottato il mondo dei ladri e la guerra l'ho passata con loro.


Nel 1946 sono immigrato in Israele, avevo 13 anni e mezzo, senza educazione, senza genitori, senza lingua. Avevo tante lingue, ma tutte assieme non bastavano a comunicare. Eravamo come dei balbuzienti che parlavano la lingua del corpo, ma non quella della bocca. Ognuno cercava di esprimersi con quello che aveva. A poco a poco, abbiamo appreso l'ebraico. È stato un grande sforzo, far entrare una lingua articolata in modo diverso rispetto alle altre lingue che conoscevo. Il suo suono era quello di una lingua che impartisse degli ordini: "Avanti! Dormite! Mettete in ordine!" Suonava come se fosse nata dal mare, dalle sabbie che ci circondavano ad Atlit. Non è una lingua che scaturisca da sola, ma è come un riempirsi di ghiaia. Ho lavorato molto per imparare l'ebraico, come se avessi dovuto scavare una montagna. Ho cominciato a scrivere sulla mia vita, sul mio destino, sulla mia infanzia da orfano, sui miei genitori morti, sulla mia città perduta, sulle piccole cose che mi avevano circondato. E, così facendo, quando scrivevo in ebraico e mi sforzavo di adottare la lingua e tutte le sue espressioni idiomatiche, emergevano, di tanto in tanto, altre lingue. Queste interferivano con la mia scrittura. Ero obbligato a reprimerle perché non oscurassero le parole di altre lingue, alle volte dei mozziconi di parole, talvolta una frase, perché queste non emergessero. Era complicato, perché la maggior parte dei miei eroi sono degli immigrati. E, in effetti, parlano tedesco. Nella loro vita quotidiana, parlano tedesco, ma a casa mia parlano ebraico. Ogni immigrato porta con sé due lingue, due paesaggi, un mondo duale. L'immigrato non era accettato. Nel 1946, negli anni '40 e '50, il paese era ideologizzato, e l'ideologia richiedeva che si parlasse ebraico: "Dimentica, dimentica il tuo passato, dimentica la tua lingua materna, dimentica la tua personalità". Io e la mia generazione abbiamo represso tutto quello che era in noi e, su questa crosta, in superficie alla coscienza, abbiamo costruito un'altra vita, non legata al passato. A poco a poco, entrando nella creazione, ho saputo che niente di ebraico doveva essermi estraneo. Così, ho imparato l'yiddish. L'ho imparato anche per scacciare il tedesco. Vi sono dei motivi psicologici complessi. Provengo da una famiglia assimilata, e ogni famiglia assimilata aveva un'avversione per il proprio ebraismo. E l'yiddish era il simbolo dell'ebraismo. Per conoscere tutto ciò che è ebraico, ho imparato l'yiddish. Lo conosco bene, non alla perfezione. Lo leggo e posso scriverlo. Leggo la letteratura e la saggistisca in yiddish. Questa lingua mi è cara perché era la lingua dei miei nonni e perché ho visto la morte attraverso questa lingua. Ho visto vecchi ebrei, donne deboli, bambini alla soglia della morte, e tutti parlavano yiddish. Con il tedesco ho sempre avuto un rapporto ambivalente. Era la mia lingua materna, ma era anche la lingua degli assassini. Un uomo che perde la propria lingua materna resta infermo a vita. La lingua materna non si parla, essa scorre. Bisogna vegliare senza sosta che niente di straniero penetri nella lingua acquisita. Oggi non ho un'altra lingua. L'ebraico è la mia lingua materna. Sogno, scrivo in questa lingua. Ancora oggi ho timore di perderla. Alle volte, mi sveglio e questo ebraico, acquisito con così tanta pena, svanisce, sparisce. Cerco di recuperarlo e non ce la faccio.

Aharon Appelfeld
in Misafa Lesava (משפה לשפה - D'une langue à l'autre), un film di Nurith Aviv, 2004

mercoledì 22 febbraio 2012

Hiob

Der Tod
für Yvan Goll
Der Tod ist eine Blume, die blüht ein einzig Mal.
Doch so er blüht, blüht nichts als er.
Er blüht, sobald er will, er blüht nicht in der Zeit.
Er kommt, ein großer Falter, der schwanke Stengel schmückt.
Du laß mich sein ein Stengel, so stark, daß er ihn freut.
Paul Celan

La morte
per Yvan Goll
La morte è un fiore che fiorisce una volta sola.
Eppure fiorisce così, come lei niente fiorisce.
Fiorisce, appena vuole, fiorisce, ma non nel tempo.
Una grande falena che viene ad adornare esili steli oscillanti.
Mi lasci essere uno stelo, così forte da gioirne.
Paul Celan

A partire dagli anni '20, Yvan Goll aveva sempre di più privilegiato il francese. Negli anni dell'esilio americano, aveva provato a scrivere in inglese. Alla fine degli anni '40, gravemente malato di leucemia in un letto di una stanza d'ospedale a Strasburgo, deve aver sentito parlare alsaziano. È probabilmente così che, dal suo molteplice passato linguistico e dal suo molteplice passato identitario, in quel letto alsaziano, riemersero questo tedesco e questo Giobbe. A costo di ribadire una cosa di per sé evidente, un tedesco, si badi, che in quegli anni era in grado di trasformare un "Höre Israel" uguale a milioni di altri in un "Ascolta Israele" diverso da milioni di altri.


Hiob

I

Mondaxt
Sink in mein Mark

Daß meine Zeder
Morgen den Weg versperre
Den feurigen Pferden

Alte Löwen meines Bluts
Rufen umsonst nach Gazellen
Es morschen in meinem Kopf
Wurmstichige Knochen

Phosphoreszent
Hängt mir im Brustkorb
Das fremde Herz

II

Verzehre mich, greiser Kalk
Zerlauge mich, junges Salz
Tod ist Freude

Und nährt mich noch der Fisch
Des Toten Meeres
Leuchtend von Jod

In meinen Geschwüren
Pfleg ich die Rosen
Des Todesfrühlings

Siebzig Scheunen verbrannt!
Sieben Söhne verwest!
Größe der Armut!

Letzter Ölbaum
Aus Asiens Wüste
Steht mein Gerippe

Wieso ich noch lebe?
Unsicherer Gott
Dich dir zu beweisen

III

Letzter Ölbaum, sagst du?
Doch goldenes Öl
Enttrieft meinen Zweigen
Die segnen lernten

Im Glashaus meiner Augen
Reift die tropische Sonne

Mein Wurzelfuß ist in Marmor gerammt

Höre Israel
Ich bin der Zehnbrotebaum
Ich bin das Feuerbuch
Mit den brennenden Buchstaben

Ich bin der dreiarmige Leuchter
Von wissenden Vögeln bewohnt
Mit dem siebenfarbenen Blick

Yvan Goll


Giobbe

I

Ascia luna
Affonda nel mio midollo

Che il mio cedro
Domani sbarri la strada
Ai cavalli focosi

I vecchi leoni del mio sangue
Chiamano invano gazzelle
Mi marciscono in testa
Ossa tarlate

Fosforescente
Mi pende nel torace
L'estraneo cuore

II

Consumami, calcare senile
Rodimi, giovane sale
La morte è gioia

E mi nutre ancora il pesce
Del Mar Morto
Scintillante di iodio

Nelle mie ulcere
Curo le rose
Della primavera mortale

Settanta fienili bruciati!
Sette figli putrefatti!
Grandezza della povertà!

Ultimo ulivo
Del deserto asiatico
Si staglia il mio scheletro

Come mai vivo ancora?
Dio incerto
Per provare te a te stesso

III

Ultimo ulivo, dici?
Eppure olio dorato
Stilla dai miei rami
Che impararono a benedire

Nella serra dei miei occhi
Matura il sole tropicale

Il mio piede radice è abbarbicato al marmo

Ascolta Israele
Io sono l'albero dei dieci pani
Io sono il libro di fuoco
Dalle lettere in fiamme

Io sono il candelabro a tre bracci
Abitato da uccelli sapienti
Dallo sguardo iridato

giovedì 16 febbraio 2012

Cielo triestino, altrove

che giornata spettacolare
c'è persino vento!
cielo triestino - lo chiamo io
quando l'aria fa dìnng
e sembra smaltata
da Luca della Robbia.

Rubata da un'email del 15 febbraio 2012, ore 13:19.
Nessuna cartolina, nessuna foto, nessun video avrebbe potuto restituirmi meglio e più interiormente il cielo triestino. Da Milano, poi.
Grazie e scusami per il furto, se puoi.

mercoledì 15 febbraio 2012

Nightpiece

- Perché questo poco interesse per l'inglese?
- Perché, a parte le parole dei grandi, che non oso tradurre, quelle degli artigiani, tradotte in italiano, rischiano sempre di fare la fine dei testi di Lennon/McCartney:
"io sono lui come tu sei lui come tu sei me e noi siam tutti insieme".

Always the same voice
(And what voice pray tell?)
Sings me from sleep.

And when I tender the insomniac's complaints,
It points out the universe
Isn't sleeping, why should I
Expect more than this obscure interval
In which to read by this tensor light,
Stick-figured, jointed at the waist,
Its luminous, bowed head in an old-fashioned bonnet.

Strengthen the weak, cheer the downhearted,
Remember kindnesses received
Rather than injuries endured
(Always the same voice),
Forget not benefits,
Among which are numbered
Even these terrors of the dark.

How gigantic the dark,
How hopeful the litany.

Timothy Steele


Pezzo notturno

Sempre la stessa voce
(e dimmi, quale sarebbe mai?)
mi canta dal sonno.

E quando mi lamento dell'insonnia
risponde che se l'universo
non dorme, perché dovrei io
aspettarmi più di questo intervallo oscuro
in cui leggere alla luce di questa lampada da tavolo
come un omino stilizzato, articolato all'altezza della vita,
la testa luminosa reclinata in un berretto fuori moda.

Incoraggia i deboli, conforta i depressi,
ricordati delle gentilezze ricevute
piuttosto che dei torti subiti
(sempre la stessa voce)
non dimenticare i doni,
tra i quali devi annoverare
anche questa paura del buio.

Se immenso è il buio,
la litania è colma di speranza.

Esaudendo Pasternak

Prima della lettera della Cvetaeva a Rilke del 9 maggio del 1926, era stato Rilke - il 3 - a prendere l'iniziativa di scriverle per la prima volta. L'aveva fatto su richiesta di Pasternak. La lettera di Rilke si chiudeva così.
Mein Aufenthalt in Paris im vorigen Jahr, durch fast acht Monate, hat mich mit russischen Freunden, die ich fünfundzwanzig Jahre nicht gesehen hatte, wieder im Umgang gebracht. Aber warum, so muß ich mich jetzt fragen, - warum ist es mir nicht vergönnt gewesen, Ihnen zu begegnen, Marina Iwanowna Zwetajewa? Nach Boris Pasternaks Brief muß ich glauben, daß uns beiden eine solche Begegnung zur tiefsten innersten Freude ausgefallen wäre. Wird sich das jemals nachholen lassen? 
Rainer Maria Rilke 
P.S. Französisch ist mir ebenso vertraut wie deutsch; ich merke das an für den Fall, daß Ihnen diese Sprache, neben der Ihrigen, geläufiger sein sollte. 
Il mio soggiorno parigino, l'anno scorso, durato quasi otto mesi, mi ha rimesso in contatto con amici russi che non vedevo da venticinque anni. Ma perché - così mi devo ora chiedere - perché non mi è riuscito allora di incontrarVi, Marina Ivanovna Cvetaeva? Dopo la lettera di Boris Pasternak, mi viene da credere che quell'incontro avrebbe potuto dare ad entrambi la più profonda, intima gioia. Potremo mai rimediare? 
Rainer Maria Rilke 
P.S. Il francese mi è altrettanto familiare del tedesco; Ve lo ricordo nel caso in cui questa lingua, assieme alla Vostra lingua, Vi sia più facile.
La lettera di Rilke accompagnava una copia delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo. Con queste rispettive dediche:
Für Marina Zwetajewa
Wir rühren uns. Womit? Mit Flügelschlägen,
mit Fernen selber rühren wir uns an.
Ein Dichter einzig lebt, und dann und wann
kommt, der ihn trägt, dem der ihn trug, entgegen. 
Der Dichterin Marina Iwanowna Zwetajewa. 
A Marina Cvetaeva
Ci tocchiamo. Come? A colpi d'ala,
è un tocco, il nostro, che viene da lontano.
Un poeta vive solo, e talvolta 
chi lo porta va incontro a colui che l'ha portato. 
Alla poetessa Marina Ivanovna Cvetaeva.

martedì 14 febbraio 2012

Teste - e siamo a 4

Nei periodi di lettura più intensi, specie da adolescente, leggevo a letto a pancia in giù, non necessariamente di notte, col libro a terra, la testa fuori dal letto, lasciando su questo solo il mento appoggiato, il braccio destro penzoloni, a mantenere il libro aperto e le dita come una benna a polipo a riposo, pronte a sollevarsi per voltare pagina. La posizione faceva un po' male al collo, dopo un certo tempo, il sangue andava alla testa, se la sporgevo troppo, e il formicolio non attendeva troppo a salire lungo il braccio, ma riuscivo lo stesso a mantenerla a lungo perché era la posizione del tuffatore di testa nel momento in cui è in volo: il tuffatore di testa, pur sapendo di rischiarla se l'acqua non è profonda, non saprebbe prendere contatto con l'acqua diversamente.
Tra tutti gli scrittori che ho conosciuto in quella posizione scomoda ma così confacente a me, mi chiedo chi sia quello cui devo più di tutti, quello che ha contribuito più di altri ad indirizzare il mio sguardo verso la direzione che ha oggi, che con tutta probabilità non è la direzione ideale, ma è quella che sento mia, con cui so guardare gli altri, avvicinarli o prenderne le distanze, prendere la mira o svirgolare, assumere rischi, assorbire le testate. Mi piacerebbe, e molto, dire che si tratta di un autore dell'Ottocento russo o del Novecento tedesco o di qualche grande narratore statunitense, ma non è così: le traduzioni filtrano, lasciano passare le storie, ma non possono, per loro stessa natura, lasciare sviluppare un rapporto intimo con lo scritto, in ogni sua fibra, col profumo delle parole e con il ritmo ed il respiro della prosa originale. Nonostante tenda ad evitare con una certa attenzione gli scrittori baciati dal successo commerciale del momento, con qualche notevole eccezione, di cui sono piuttosto pentita ma che al tempo stesso non ho alcuna remora a riconoscere (uno su tutti, negli ultimi anni: Bolaño, da cui mi ha provvidenzialmente salvata, con una tempistica perfetta, Arlt), in realtà, se ne dovessi scegliere solo uno, con tutti i limiti del caso, io credo dovrei per forza di cose nominare Piero Chiara, che un certo successo commerciale in vita ha pur conosciuto, e dovrei farlo per il suo stile misurato, la sua ironia elegante, la sua leggerezza, il suo voluto, costante defilarsi dalla visibilità del proscenio dei letterati o delle grandi città e il suo scandagliare la vita della provincia italiana senza alcun tabù, lontano da ogni perbenismo o dalle convenienze, palesi o più nascoste, cui la maggior parte degli scrittori italiani volentieri si sottopone.
Mi piace ricordarlo oggi, semplicemente così, senza che ricorra - a mia conoscenza - alcun anniversario e senza alcun motivo particolare.

domenica 12 febbraio 2012

Rainer Maria Rilke!

Rainer Maria Rilke!

Darf ich Sie so anrufen? Sie, die verkörperte Dichtung, müssten doch wissen, daß Ihr Name allein - ein Gedicht ist. Rainer Maria, das klingt kirchlich - und kindlich - und ritterlich. Ihr Name reimt nicht mit der Zeit - kommt von früher oder von später — von jeher. Ihr Name hat es gewollt, und Sie haben den Namen gewählt. (Unsere Namen wählen wir selbst, was kommt - das folgt). Ihre Taufe war der Prolog zum ganzen Ihnen, und der Priester, der sich Sie taufte, wusste wahrlich nicht, was er tat.

Sie sind nicht mein liebster Dichter (»liebster« - Stufe), Sie sind eine Naturerscheinung, die nicht mein sein kann und die man nicht liebt, sondern besteht, oder (noch zu wenig!) das verkörperte fünfte Element: die Dichtung selbst, oder (noch zu wenig) das, woraus die Dichtung entsteht, und das größer ist als sie (Sie).
Es handelt sich nicht um den Mensch-Rilke (Mensch: das, wozu wir gezwungen sind!), — um den Geist-Rilke, der noch größer ist als der Dichter und der eigentlich für mich Rilke heißt - Rilke von übermorgen.
Sie müssen sich aus meinen Augen sehen: Ihre Größe durch ihre Größe, wenn ich Sie ansehe: Ihre Größe — durch die ganze Ferne.
Was nach Ihnen ein Dichter noch tun kann? Einen Meister (wie Goethe z. B.) überwindet man, aber Sie überwinden - heißt (würde heißen) die Dichtung überwinden. Ein Dichter ist der, der das Leben überwindet (überwinden soll).
Sie sind eine unmögliche Aufgabe für künftige Dichter. Der Dichter, der nach Ihnen kommt, muss Sie sein, dh Sie müssen noch einmal geboren werden.
Sie geben den Worten ihren ersten Sinn, und den Dingen - ihre ersten Worte (Werte). ZB wenn Sie großartig sagen, sagen Sie von großer Art, so wie es gemeint war bei der Entstehung. (Jetzt ist »großartig« nur so ein hohles Ausrufungszeichen).
Russisch hätte ich Ihnen das alles klarer gesagt, aber ich will Ihnen nicht die Mühe geben sich hineinzulesen, ich will lieber die Mühe nehmen mich hineinzuschreiben.

Das erste was mich in Ihrem Brief auf den höchsten Turm der Freude warf (nicht - hob, nicht - stellte), war das Wort May, dem Sie mit dem y den alten Adel wiedergaben. Mai mit i - so was vom ersten Mai, nicht dem Arbeiterfest, das noch einst schön wird (werden kann) - dem zahmen Bourgeoisie-Mai von Verlobten und (nicht zu arg) Verliebten.

Einige kurze biographischen (nur notwendige) Notizen: aus der russischen Revolution (nicht dem revolutionären Rußland, die Revolution ist ein Land mit seinen eigenen — und ewigen — Gesetzen!) ging ich - durch Berlin - nach Prag, Ihre Bücher mit. In Prag las ich zum erstenmal die »Frühen Gedichte«. So gewann ich Prag lieb - am ersten Tag - wegen Ihres Studententums.
In Prag blieb ich von 1922-1925, drei Jahre, in November 1925 ging ich nach Paris. Waren Sie noch da
Im Fall Sie da waren:
Warum ich nicht zu Ihnen kam? Weil Sie mein liebstes sind - in der ganzen Welt. Ganz einfach. Und — weil Sie mich nicht kennen. Aus leidendem Stolz, aus Ehrfurcht vor dem Zufall (Schicksal, eins). Aus — Feigheit, vielleicht, um nicht Ihren fremden Blick bestehen zu müssen — auf der Thürschwelle Ihres Zimmers. (Nicht fremd konnten Sie mich doch nicht ansehn! Und wenn auch — der Blick wäre ja für Jedermann, da Sie mich nicht kannten! - das heißt: doch fremd!)
Noch eins: Sie werden mich immer als Russin fühlen, ich - Sie - als rein-menschliche (göttliche) Erscheinung. Das ist die Schwierigkeit von unserer zu sehr individuellen Nationalität - daß alles was in uns ich ist bei den Europäern - Russe heißt.
(Derselbe Fall, bei uns, mit Chinesen, Japanern, Negern — sehr weiten oder sehr wilden.)

Rainer Maria, es ist nichts verloren, im nächsten (1927) Jahre kommt Boris, und wir besuchen Sie — wo Sie auch nur sein mögen. Den Boris kenn ich sehr wenig und liebe ihn wie man nur Nie-gesehene (schon gewesene oder noch kommende: nachkommende), Nie-gesehene oder Nie-gewesene liebt. Er ist nicht so jung - 33, glaub ich, doch knabenhaft. Seinem Vater gleicht er nicht mit der mindesten Augenwimper (das beste, was ein Sohn tun kann). Ich glaub nur an Muttersohne. Sie sind auch ein Muttersohn. Ein Mann nach der weiblichen Linie — darum so reich (Zweifaltigkeit).
Der erste Dichter Russlands ist er. Das weiß ich - und noch einige, die anderen warten bis er tod ist.
Ihre Bücher erwarte ich wie ein Gewitter, das - ob ich will oder nicht - kommen wird. Fast wie eine Operation des Herzens (keine Metaphore! Jedes Gedicht (Deines) schneidet ins Herz und schnitzt es nach seinem Wissen - ob ich will oder nicht). Nichts wollen!
Weißt Du, warum ich Dir Du sage und Dich liebe und - und - und Weil Du eine Kraft bist. Das seltenste.

Antworten brauchst Du mir nicht. Ich weiß was Zeit ist und weiß was ein Gedicht ist. Ich weiß auch was ein Brief ist. Also.

Im Vaud war ich als 10-jähriges Mädchen (1903) in Lausanne und weiß noch viel von dieser Zeit. Im Pensionat war eine erwachsene Negerin, die französisch lernen sollte. Sie lernte nichts und fraß Veilchen. Das ist meine grellste Erinnerung. Die blauen Lippen - Negerlippen sind nicht rot - und die blauen Veilchen. Der blaue Genfersee kommt nur nachher.

Was ich von Dir will, Rainer? Nichts. Alles. Daß Du mir es gönnst jeden Augenblick meines Lebens zu Dir aufblicken — wie auf einen Berg der mich schützt (so ein steinerner Schutzengel!)
Bis ich Dich nicht kannte, ging's, jetzt, da ich Dich kenne — bedarf es einer Erlaubnis.
Denn meine Seele ist gut erzogen.

Aber schreiben will ich Dir - ob Du willst oder nicht. Über Dein Rußland (Zarenkreis und anderes). Über vieles.
Deine russische Buchstaben. Die Rührung. Ich, die wie ein Indianer (oder Indier?) nie weine, ich hätte fast.

Ich las Deinen Brief am Ozean, der Ozean las mit, wir lasen beide. Ob Dich so ein Mitleser nicht stört? Andere wird es nicht geben - ich bin viel zu eifersüchtig (in Dir - eifrig).

Da meine Bücher - lesen brauchst Du sie nicht -, leg sie auf Deinen Arbeitstisch und glaub mir aufs Wort, daß sie vor mir nicht da waren (damit ist die Welt gemeint, nicht der Tisch!)

Marina Zwetajewa an Rainer Maria Rilke, 9. Mai 1926


Rainer Maria Rilke!

Posso chiamarVi così? Voi, l'incarnazione della poesia, dovreste pur sapere che il Vostro stesso nome è poesia. Rainer Maria: un nome che sa di chiesa, di infanzia e di cavalleria. Il Vostro nome non fa rima col presente: viene dal passato o dal futuro, in ogni caso da un tempo lontano, immemorabile. Il Vostro nome ha voluto essere scelto e Voi l'avete scelto. (I nostri nomi li scegliamo noi stessi e quello che viene dipende dalla nostra scelta). Il Vostro battesimo è stato il prologo a Voi nella Vostra interezza e il prete che Vi ha battezzato, in realtà, non sapeva quello che stava facendo.

Voi non siete il poeta a me più caro ("più", vale a dire un grado sopra agli altri), Voi siete un fenomeno della natura, che non mi può appartenere e che non si ama, ma sussiste, oppure (è ancora troppo poco, quello che sto dicendo!) l'incarnazione del quinto elemento: la poesia stessa, o (ancora lungi dal dire tutto) ciò da cui nasce la poesia, che è più grande ancora della poesia stessa (Voi).
Non si tratta dell'uomo-Rilke (l'uomo, ovvero ciò cui siamo costretti!), ma dello spirito-Rilke, che è ancora più grande del poeta e che in realtà per me si chiama Rilke, il Rilke di dopodomani.
Dovete guardare la cosa attraverso i miei occhi: la Vostra grandezza attraverso la loro grandezza, quando Vi guardo: la Vostra grandezza in prospettiva.
Cosa potrà mai fare un poeta dopo di Voi? Un maestro (come ad es. Goethe) si supera, ma superare Voi significa (significherebbe) superare la poesia. Un poeta è colui che supera (dovrebbe superare) la vita.
Voi siete un compito impossibile per i poeti del futuro. Il poeta che Vi seguirà dovrà essere Voi, cioè Voi dovrete nascere ancora una volta.
Voi assegnate alle parole il loro vero senso e alle cose il loro vero nome (valore). Per es., quando Voi dite magnifico, parlate di natura magnifica, esattamente come era inteso al momento della creazione della parola. (Ora "magnifico" è solo un vuoto punto esclamativo).
In russo Ve lo avrei spiegato meglio, ma non voglio che Vi sforziate a leggere il russo, preferisco sforzarmi io a scrivere in tedesco.

La prima cosa che nella Vostra lettera mi ha gettato (non innalzato, non posto, gettato) al sommo della gioia è stata la parola "maggio", che Voi scrivete "maio", alla vecchia, nobile maniera. Maggio: ricorda un po' il primo maggio, non la festa dei lavoratori, che un giorno sarà (potrà essere) bellissima, ma il pacifico maggio borghese dei fidanzati e dei (non troppo profondamente) innamorati.

Alcune brevi notizie biografiche (solo l'indispensabile), ora: dalla Rivoluzione russa (non dalla Russia rivoluzionaria, la Rivoluzione è un paese con le sue proprie - ed eterne - leggi!) sono andata - via Berlino - a Praga, con i Vostri libri. A Praga ho letto per la prima volta le "Prime poesie". Così ho iniziato ad amare Praga - dal primo giorno - perché lì avete studiato Voi.
A Praga sono rimasta dal 1922 al 1925, tre anni, e nel novembre del 1925 sono andata a Parigi. Voi eravate ancora là?
Nel caso ci foste ancora:
Perché non sono venuta da Voi? Perché Voi siete il mio amore, il solo amore del mondo intero. Tutto qua. E perché Voi non mi conoscete. Per un orgoglio sofferente, per timore del caso (o del destino, se credete). Forse per viltà, per paura di dover incontrare il Vostro sguardo estraneo sulla soglia della Vostra stanza. (Non avreste potuto guardarmi se non con uno sguardo estraneo! E se aveste potuto, lo sguardo sarebbe stato lo sguardo che si rivolge al primo che passa, visto che non mi conoscevate! - vale a dire comunque estraneo!)
Ancora una cosa: Voi mi percepirete sempre come una russa - io Voi, invece, come un fenomeno puramente umano (divino). Questa è la difficoltà della nostra troppo peculiare nazionalità, tutto ciò che in noi gli europei chiamano russo.
(Succede lo stesso da noi con i cinesi, i giapponesi, i neri - con i molto lontani o i molto selvaggi.)

Rainer Maria, nulla è perduto, l'anno prossimo (1927) arriverà Boris e Vi faremo visita, ovunque Voi siate. Boris lo conosco poco, ma lo amo come si possono amare soltanto i mai visti (già esistiti o ancora da venire: quelli che ci seguiranno), i mai visti o i mai esistiti. Non è più tanto giovane: ha 33 anni, credo, ma sembra ancora un ragazzo. A suo padre non somiglia per niente (la cosa migliore che possa fare un figlio). Credo solo ai figli di madre. Anche Voi siete un figlio di madre. Un maschio per linea femminile, quindi così ricco (binomio).
Il primo poeta russo è lui. Questo lo so io e lo sanno pochi altri, il resto delle persone aspetta che sia morto.
I Vostri libri li aspetto come un temporale che, volente o nolente, arriverà. Quasi come un'operazione al cuore (non è una metafora! Ogni poesia (tua) si insinua nel mio cuore e lo taglia a modo suo, che io lo voglia o meno). Non volerlo!
Sai perché ti dico tu e ti amo e - e - e Perché tu sei una forza. La più rara.

Non serve che mi rispondi. So cos'è il tempo e so cos'è una poesia. So anche cos'è una lettera. Dunque.

Nel Vaud, a Losanna, sono stata da bambina, a dieci anni (1903), e mi ricordo ancora molto di quel periodo. Nel pensionato c'era una nera adulta, che avrebbe dovuto studiare il francese. Non studiava per niente e mangiava violette. Questo è il mio ricordo più nitido. Le labbra azzurre - i neri non hanno labbra rosse - e le violette azzurre. L'azzurro del lago di Ginevra viene solo dopo.

Cosa voglio da te, Rainer? Niente. Tutto. Che tu mi permetta di alzare lo sguardo su di te in ogni istante della mia vita, come su una montagna che mi protegga (come un angelo custode di pietra!)
Prima di conoscerti, potevo farlo, ora che ti conosco ho bisogno del tuo permesso.
La mia anima è in effetti educata bene.

Ma ho voglia di scriverti, che tu lo voglia o no. Sulla tua Russia (il ciclo "Gli zar" e altro). Su molte cose.
La tua scrittura in russo. La commozione. Io, che non piango mai, come un indiano (o come un indù?), starei quasi per farlo.

Ho letto la tua lettera in riva all'oceano, l'oceano leggeva con me, l'abbiamo letta assieme. Non ti dà fastidio che l'abbia letta anche lui? Non ci saranno altri: sono fin troppo gelosa (gelosia di te).

Eccoti i miei libri - non serve che tu li legga -, mettili sulla tua scrivania e credimi sulla parola, se ti dico che prima di me questi libri non c'erano (intendo al mondo, non sul tavolo!)

Marina Cvetaeva a Rainer Maria Rilke, 9 maggio 1926

giovedì 9 febbraio 2012

Teste - 3, credo

La trasmissione della lingua slovena a mio padre e poi a me si è interrotta a causa della morte precoce di sua madre, la mia nonna mai conosciuta: morì a 24 anni, credo, quando mio padre aveva due anni (di questo sono sicura), di tubercolosi. Sua sorella la seguì a ruota per lo stesso motivo. Di lei ho solo due foto a casa dei miei. Provare a cercarla in chi l'ha conosciuta è stato un esercizio sterile: mio nonno era in grado di raccontarmene poco, in una monotona ripetizione di frasi scarne, cristallizzate in forme laconiche, sempre uguali a se stesse (e dopo pegola, la se ga malà), che non aggiungevano mai nuovi particolari al noto come avrei invece desiderato. Me la ritrovo negli zigomi, che vengono da lei, probabilmente conformati dal suo modo di parlare e da quello dei suoi antenati(*), e negli occhi, che vengono, in modo ancor più marcato, anche da sua sorella. Me la ritrovo anche in alcune parole che ho acquisito fin dall'infanzia perché insinuatesi nel dialetto triestino: trda glava, per esempio - testa dura, dura come la pietra -, parole che hanno sempre mantenuto aperta una finestra in mezzo alla frontiera, almeno così come l'ho percepita io, anche negli anni più complicati nelle relazioni italo-jugoslave, una finestra per me spalancata verso un est lontanissimo, mai visto e solo sognato.
Glava голова (golova) = capo : caput

*

Что еще, Борис? Листок кончается, день начался. Я только что с рынка. Сегодня в поселке праздник — первые сардины! Не сардинки, потому что не в коробках, а в сетях.
А знаешь, Борис, к морю меня уже начинает тянуть, из какого-то дурного любопытства — убедиться в собственной несостоятельности.

Обнимаю твою голову — мне кажется, что она такая большая — по тому, что в ней — что я обнимаю целую гору, — Урал! «Уральские камни» — опять звук из детства! (Мать с отцом уехали на Урал за мрамором для Музея. Гувернантка говорит, что ночью крысы ей отъели ноги. Таруса. Хлысты. Пять лет.) Уральские камни, (дебри) и хрусталь графа Гарраха (Кузнецкий) — вот все мое детство.
На его — в тяжеловесах и хрусталях.

Где будешь летом? Поправился ли Асеев. Не болей.
Ну, что еще?
—Всё!—

М.

Замечаешь, что я тебе дарю себя враздробь?

Марина Цветаева, Переписка с Б. Пастернаком, 26-го мая 1926 г. среда


Che cosa ancora, Boris? Il foglio finisce, è cominciata la giornata. Sono appena tornata dal mercato. Oggi in paese è festa - le prime sardine! Non proprio sardine, perché non stanno nelle scatolette, ma nelle reti.
E sai, Boris, verso il mare stavo già iniziando a sentirmi spinta da una certa stupida curiosità — dal convincermi della mia inconsistenza.

Abbraccio la tua testa — mi sembra sia così grande — perché in lei abbraccio tutte le montagne - gli Urali! «Le pietre degli Urali» — di nuovo un suono che viene dall'infanzia! (Mia madre e mio padre erano andati sugli Urali a procurarsi il marmo per il museo. La governante dice che una notte i topi le hanno portato via un piede. Tarusa. I chlysty. Ho cinque anni.) Le pietre degli Urali (boscaglie), e i cristalli del conte Garrach  (sul Kuzneckij) — ecco tutta la mia infanzia.
Nella sua — pesantezza e cristalli.

Dove sarai quest'estate? È guarito Aseev? Non essere ammalato.
E cosa, ancora?
—Tutto!—

М.

Stai notando che ti regalo me stessa a pezzi?

Marina Cvetaeva,  corrispondenza con Boris Pasternak, 26 maggio 1926, mercoledì.

(*) раздвигая скулы/фразами на родном (pronuncio frasi che allargano gli zigomi/nella lingua che è mia - Brodskij, Strofe veneziane, traduzione di G. Buttafava)

mercoledì 8 febbraio 2012

Ancora sulla mia testa

Se, in via ipotetica, scrivessi qualcosa di mio, sarebbe naturale seguire il percorso della mia testa, testa che, dopo un lavoro certosino, durato settimane, di allargamento di un piccolo foro in un muro esterno irresistibilmente friabile dell'asilo, infilai senza alcuna esitazione dentro l'oblò appena ultimato per vedere cosa c'era oltre. Come Alice oltre lo specchio, con la differenza che le mie due codine laterali, tenute su da due elastici provvisti di figurine in legno di un certo ingombro, si incastrarono così bene tra le pareti dell'oblò da impedire l'estrazione della mia testa dal muro. Verità.
Non ricordo di aver provato paura, solo delusione per non essere sbucata altrove e un po' di impazienza nell'attesa di ritornare indietro, con gli altri bambini che mi aspettavano fuori, vociavano, chiedevano come e perché.
Alle maestre, circondate da tutti i bambini dell'asilo, bastò solo un po' di calma e pazienza per allargare ancora il mio manufatto e farmi uscire a rivedere la luce del sole, che può essere molto bella, nell'aria tersa del nord-est italiano.
Per anni, non mi resi conto che quell'episodio potesse divenire, agli occhi dei bambini che avevano assistito allo spettacolo, la mia carta d'identità. Reincontrai uno di quei bambini, molti anni dopo, al ginnasio. Una volta scoperto, per caso, che avevamo frequentato lo stesso asilo, mi riconobbe come la bambina che metteva la testa nei muri.

martedì 7 febbraio 2012

wie von ungefähr

Ich lasse meinen christlichen Baudelaire von lauter jüdischen Engeln in den Himmel heben. Es sind aber die Anstalten schon getroffen, daß sie ihn im letzten Drittel der Himmelfahrt, kurz vor dem Eingang in die Glorie, wie von ungefähr fallen lassen.

Walter Benjamin an Theodor W. Adorno und Gretel Adorno, Paris, 6. August 1939

Faccio innalzare in cielo il mio Baudelaire cristiano sorretto da angeli puramente ebrei, ma è già stato previsto che nell'ultimo terzo dell'ascensione, poco prima dell'ingresso nella gloria, lo lasceranno cadere, come accidentalmente.

domenica 5 febbraio 2012

Car il était poète

Ma è la poesia che ci offrì il miglior terreno comune, perché lui era poeta e, cosa rarissima, amava la poesia per se stessa, con un disinteresse che andava fino all'oblio di sé.

Testimonianza di Adrienne Monnier a proposito di Walter Benjamin

Schmöker

von Detlef Holz

Aus der Schülerbibliothek bekam ich die liebsten. In den unteren Klassen wurden sie zugeteilt. Der Klassenlehrer sagte meinen Namen, und dann machte das Buch über die Bänke seinen Weg; der eine schob es dem anderen zu, oder es schwankte über die Köpfe hin, bis es bei mir, der sich gemeldet hatte, angekommen war. An seinen Blättern haftete die Spur von Fingern, die sie umgeschlagen hatten. Die Kordel, die den Bund abschloß und oben und unten vorstieß, war verschmutzt. Vor allem aber hatte sich der Rücken viel bieten lassen müssen; daher kam es, daß beide Deckelhälften sich von selbst verschoben und der Schnitt des Bandes Treppchen und Terrassen bildete. An seinen Blättern aber hingen, wie Altweibersommer am Geäst der Bäume, bisweilen schwache Fäden eines Netzes, in das ich einst beim Lesenlernen mich verstrickt hatte.
Das Buch lag auf dem viel zu hohen Tisch. Beim Lesen hielt ich mir die Ohren zu. So lautlos hatte ich doch schon einmal erzählen hören. Den Vater freilich nicht. Manchmal jedoch, im Winter, wenn ich in der warmen Stube am Fenster stand, erzählte das Schneegestöber draußen mir so lautlos. Was es erzählte, hatte ich zwar nie genau erfassen können, denn zu dicht und unablässig drängte zwischen dem Altbekannten Neues sich heran. Kaum hatte ich mich einer Flockenschar inniger angeschlossen, erkannte ich, daß sie mich einer anderen hatte überlassen müssen, die plötzlich in sie eingedrungen war. Nun aber war der Augenblick gekommen, im Gestöber der Lettern den Geschichten nachzugehen, die sich am Fenster mir entzogen hatten. Die fernen Länder, welche mir in ihnen begegneten, spielten vertraulich wie die Flocken umeinander. Und weil die Ferne, wenn es schneit, nicht mehr ins Weite, sondern ins Innere führt, so lagen Babylon und Bagdad, Akko und Alaska, Tromsö und Transvaal in meinem Innern. Die linde Schmökerluft, die sie durchdrang, schmeichelte sie mit Blut und Fährnis so unwiderstehlich meinem Herzen ein, daß es den abgegriffenen Bänden die Treue hielt.
Oder hielt es die Treue älteren, unauffindbaren? Den wundervollen nämlich, die mir nur einmal im Traume wiederzusehen gegeben war? Wie hatten sie geheißen? Ich wußte nichts, als daß es diese längst verschwundenen waren, die ich nie wieder hatte finden können. Nun aber lagen sie in einem Schrank, von dem ich im Erwachen einsehen mußte, daß er mir nie vorher begegnet war. Im Traum schien er mir alt und gut bekannt. Die Bücher standen nicht, sie lagen; und zwar in seiner Wetterecke. In ihnen ging es gewittrig zu. Eins aufzuschlagen, hätte mich mitten in den Schoß geführt, in dem ein wechselnder und trüber Text sich wölkte, der von Farben schwanger war. Es waren brodelnde und flüchtige, immer aber gerieten sie zu einem Violett, das aus dem Innern eines Schlachttiers zu stammen schien. Unnennbar und bedeutungsschwer wie dies verfehmte Violett waren die Titel, deren jeder mir sonderbarer und vertrauter vorkam als der vorige. Doch ehe ich des ersten besten mich versichern konnte, war ich erwacht, ohne auch nur im Traum die alten Knabenbücher noch einmal berührt zu haben.

Walter Benjamin unter dem Pseudonym Detlef Holz
Vossische Zeitung, 17. September 1933, Beilage: Das Unterhaltungsblatt, Nr. 257, S. 2


Feuilletons

di Detlef Holz

Dalla biblioteca scolastica prendevo i più belli. Venivano assegnati nelle classi inferiori. L'insegnante diceva il mio nome ed ecco che il libro si apriva la sua strada sopra i banchi; l'uno lo passava all'altro, o lo faceva ondeggiare sopra le nostre teste, fino a farlo arrivare da me, dopo un mio cenno. Sulle loro pagine restavano impresse le impronte delle dita che le avevano girate. La cordicella che terminava la rilegatura e che avanzava sopra e sotto era lurida. Più di tutto, però, era il dorso a lasciar molto a desiderare, al punto che entrambe le metà della copertina slittavano via da sole e il taglio del volume formava scalette e terrazze. Alle loro pagine, però, talvolta pendevano, come capelli d'angelo ai rami degli alberi, tenui fili di una rete da cui un tempo, quando avevo imparato a leggere, mi ero lasciato avvolgere. Il libro stava sul tavolo, un tavolo troppo alto. Leggendo mi tappavo le orecchie. Avvolto in quel silenzio avevo già sentito una volta raccontare. Sicuramente non mio padre. Tuttavia, qualche volta, d'inverno, quando stavo alla finestra nel calore del soggiorno, la bufera di neve fuori mi raccontava delle storie in quello stesso silenzio. Quello che mi raccontava non riuscivo esattamente a coglierlo, perché il nuovo si frapponeva continuamente al ben noto con troppa intensità. Mi ero appena accostato ad un turbinio di fiocchi, che subito riconoscevo che dovevano affidarmi ad uno nuovo, che vi era all'improvviso penetrato. Ora però era arrivato l'istante di seguire nella tormenta delle lettere le storie che mi si erano defilate alla finestra. I paesi lontani che vi incontravo si succedevano placidamente l'uno dopo l'altro come dei fiocchi. E siccome il lontano, quando nevica, conduce non in estensione, ma in profondità, Babilonia e Baghdad, Acri e l'Alaska, Tromsø e il Transvaal si trovavano dentro di me. L'aria pura dei romanzi che vi penetrava dentro si insinuava con sangue e catastrofi così irrimediabilmente dentro il mio cuore, che questi finì per restare fedele ai volumi logori.
O non era piuttosto una fedeltà ai libri più vecchi ed introvabili? Intendo ai libri meravigliosi che una volta in sogno mi fu dato di rivedere? Quali erano stati? Sapevo solo che erano scomparsi da tempo, che non avrei più potuto trovarli. Ora però stavano lì, in un armadio, che mi ero reso conto di non avere mai visto prima, da sveglio. In sogno mi sembrava vecchio e ben noto. I libri non vi erano riposti in piedi, ma distesi, nel suo angolo meteorologico. In essi il tempo volgeva al temporale. Aprirne uno mi avrebbe portato direttamente nelle viscere in cui un testo, gravido di colori, si trasformava in variabile e caliginoso. Erano colori effervescenti e sfuggenti, ma finivano sempre in un violetto che sembrava provenire dal corpo di una bestia macellata. Inesprimibili e grevi di significati, come questo violetto condannato, erano i titoli: ciascuno mi sembrava più bizzarro e familiare del precedente. Eppure, prima che mi potessi assicurare il primo migliore, mi svegliavo, senza aver toccato nemmeno in sogno una volta ancora i vecchi libri da ragazzi.

(cfr., volendo)

sabato 4 febbraio 2012

Il primo test

Mi hanno chiesto perché non scrivo qualcosa di mio. Mi hanno posto anche altre domande, ma mi pare di aver trovato risposta a quasi tutte, tranne - appunto - a questa. Non che le risposte alle altre domande siano state poi così esaurienti e precise, ma in qualche modo, non trattandosi mai di domande di fisica teorica o di teologia, vi ho saputo rispondere, magari solo per approssimazioni o con un accenno di battuta. A quella sulla scrittura proprio no. 
Se io, in via ipotetica, scrivessi qualcosa di mio, comincerei da uno dei miei primi ricordi, da un ricordo talmente precoce che mi sa che me lo ha trasmesso integralmente mia madre, anche se devo pur averlo assorbito anch'io, senza interposta persona, almeno per via transcutanea.
Uno dei miei primi ricordi è la mia testa, e precisamente la conformazione anatomica della mia scatola cranica: tra il 1971 ed il 1972, nel giro di qualche mese, due vecchie signore, entrambe triestine, tastarono in effetti con gesto sicuro e rodato la mia testa.
La prima era la nonna materna di mio padre. Slobec, faceva di cognome. Ho una vaga eco di ricordo di lei, tutto concentrato nel suo impreciso colore di capelli grigio-marròn sparsi in onde regolari, di lunghezza costante, estese parallelamente dalla fronte al collo, e nei fori sovradimensionati dei lobi delle orecchie, in cui degli orecchini di corallo, pur minuti, davano l'impressione di soffrire eccessivamente dell'effetto della gravità. La nonna materna di mio padre, la prima volta che mi vide, col ritardo dovuto ad una matriarca cui si va in visita perché lei non si sposta dal proprio regno (un'osteria, sia chiaro) se non per le visite ufficiali alle personalità di pari grado, alzò la mano e me la portò all'incavo della nuca, senza prendermi in braccio, me la tastò facendovi scorrere in su e in giù più volte le tre dita centrali della mano, a palmo aperto, fino a saggiare tutto l'occipite e, dopo breve riflessione, con amara, per quanto temuta, delusione, sentenziò: la xe tagliana.
La seconda era la nostra vicina di casa. Chittaro, faceva di cognome. Ho una vaga eco di ricordo di lei, tutto concentrato nei lineamenti sottili, nei suoi panni scuri, di lana grossa, ricoperti da uno scialle nero, e nel suo pappagallino che riusciva a distinguere con discreta sicurezza mio padre (Ocio l'omo nero! Ocio l'omo nero!) da me (Che bela picia! Che bela picia!). La signora Chittaro, appena raggiunta la soglia minima di familiarità creata dalla consuetudine di passare qualche ora da noi, sollecitata da mia madre perché potesse godere, assieme al pappagallino, di un tepore che a casa sua non aveva, un giorno alzò la mano e me la portò all'incavo della nuca, senza prendermi in braccio, me la tastò facendovi scorrere in su e in giù più volte le tre dita centrali della mano, a palmo aperto, fino a saggiare tutto l'occipite e, dopo breve riflessione, con deciso, per quanto insperato, sollievo, sentenziò:  no' la xe s'ciava.
Con un gesto della mano, la mia bisnonna, di fatto, mi disconosceva e mi ripudiava dalla sua comunità, la vicina di casa mi riconosceva e mi accoglieva nella sua comunità. Io, col senno di poi, posso dire che il mio cranio, tutto sommato, nonostante non abbia superato tutti i test di qualità, si è dimostrato abbastanza funzionale.