domenica 29 gennaio 2012

Ehrgeiz

Ich habe meinen Soldaten aus Blei
Als Kind Verdienstkreuzchen eingeritzt.
Mir selber ging alle Ehre vorbei,
Bis auf zwei Orden, die jeder besitzt.

Und ich pfeife durchaus nicht auf Ehre.
Im Gegenteil. Mein Ideal wäre,
Daß man nach meinem Tod (grano salis)
Ein Gäßchen nach mir benennt, ein ganz schmales
Und krummes Gäßchen, mit niedrigen Türchen,
Mit steilen Treppchen und feilen Hürchen,
Mit Schatten und schiefen Fensterluken.

Dort würde ich spuken.

Joachim Ringelnatz


Ambizione

Da bambino sui miei soldatini di piombo
ho inciso delle crocette al merito.
Quanto a me, ogni onore mi è sfuggito,
a parte due medaglie, che non si negano a nessuno.

E non è che non ci tenga, all'onore.
Anzi. Idealmente vorrei
che dopo la mia morte (cum grano salis)
mi si intitolasse un vicoletto, losco
e stretto, con porticine basse,
con scalette ripide e puttanelle in vendita,
con ombre e finestrelle sbilenche.

È là che salterei fuori, da fantasma.

La finèstra/A janela/La fenêtre (sogni/sonhos/rêves)

Loos m’affirmait un jour : « Un homme cultivé ne regarde pas par la fenêtre ; sa fenêtre est en verre dépoli ; elle n’est là que pour donner de la lumière, non pour laisser passer le regard »
Le Corbusier, L’Urbanisme, 1925

La finèstra

Dalvólti la véita
la dventa una finèstra
sal ròbi ch’al sta dlà
cumè ti sógn:
un pan che zócla te vent,
un fiòur, una ragaza
e cla luce biènca de mònd
dòu t’a n’i sii.

Nino Pedretti

A volte la vita
diventa una finestra
con le cose che stanno al di là
come nei sogni:
un panno che ciondola al vento
un fiore, una ragazza
e quella luce bianca del mondo
dove tu non ci sei.

*

Não basta abrir a janela

Não basta abrir a janela
Para ver os campos e o rio.
Não é bastante não ser cego
Para ver as árvores e as flores.
É preciso também não ter filosofia nenhuma.
Com filosofia não há árvores: há ideias apenas.
Há só cada um de nós, como uma cave.
Há só uma janela fechada, e todo o mundo lá fora;
E um sonho do que se poderia ver se a janela se abrisse,
Que nunca é o que se vê quando se abre a janela.

Alberto Caeiro

Non basta aprire la finestra

Non basta aprire la finestra
per vedere i campi e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non avere alcuna filosofia.
Con la filosofia non ci sono alberi: ci sono a malapena idee.
C'è solo ciascuno di noi, come una caverna.
C'è solo una finestra chiusa, e tutto il mondo là fuori;
e un sogno di quello che si potrebbe vedere se la finestra si aprisse,
che mai è quello che si vede quando si apre la finestra.

*

Tu me proposes, fenêtre étrange, d'attendre ;
déjà presque bouge ton rideau beige.
Devrais-je, ô fenêtre, à ton invite me rendre ?
Ou me défendre, fenêtre ? Qui attendrais-je ?

Ne suis-je intact, avec cette vie qui écoute,
avec ce coeur tout plein de la perte complète ?
Avec cette route qui passe devant, et le doute
que tu puisses donner ce trop dont le rêve m'arrête ?

Rainer Maria Rilke

Mi proponi, finestra misteriosa, di aspettare;
già quasi si scosta la tua tenda beige.
Dovrei, finestra, arrendermi al tuo invito?
O difendermi, finestra? E aspettare chi?

Non sono intatto, con questa vita in ascolto,
con questo cuore colmo della perdita completa?
Con questa strada che passa davanti, e il dubbio
che tu mi prenda in troppo grande sogno?

sabato 28 gennaio 2012

Sfondi

Quel beau discours que celui de M. Mussolini, adressé au Gouverneur de Rome !

Rainer Maria Rilke, lettera ad Aurelia Gallarati Scotti, 5 gennaio 1926

Rilke potrebbe avere letto solo un riassunto del discorso di Mussolini. Potrebbe averlo letto solo in una cattiva traduzione francese, verosimilmente su Le Figaro. Potrebbe. Il risultato non cambierebbe di molto, perché l'anno in cui la scrisse è successivo al delitto Matteotti, la cui cronaca deve pur essere esistita in qualche onesto giornale straniero e il cui significato e la cui portata non ammettono sfumature di giudizio. Potrebbe anche essere l'angolo buio, il tassello che non trova posto nel puzzle, l'anello mancante della catena, il limite invalicabile dell'umana comprensione. O potrebbe essere l'inevitabile conseguenza di chi si mette ad odiare se stesso: nel tentativo di aprirsi al mondo e di liberarsi delle parti indigeste della propria cultura, al posto di prenderla in toto, così com'è, finire dritto dritto nelle braccia del primo cretino di turno di una cultura diversa.
(Vive acclamazioni.)
Governatore!
Il discorso che ho l'onore e il piacere di rivolgervi sarà di stile romano, intonato nella sua concisione alla solenne romanità di questa cerimonia.
Rigorosamente esclusa ogni divagazione retorica, il mio discorso consisterà in un elogio per quanto avete fatto e in una precisa consegna per quanto ancora vi resta da fare.
Ricordo che quando nell'aprile 1924 mi faceste l'onore di accogliermi fra i cittadini di Roma, vi dissi che i problemi della capitale si dividevano in due grandi serie: i problemi della necessità e quelli della grandezza. Dopo tre anni di regio commissariato, nessun osservatore obiettivo può contestare che i problemi della necessità sono stati energicamente affrontati e in buona parte risolti. Roma ha già un aspetto diverso. Diecine di quartieri sono sorti alla periferia della città che ha lanciato le sue avanguardie di case verso il monte salubre, verso il mare riconsacrato.
I dati sintetici del vostro bilancio triennale eccoli: strade nuove, aumentati mezzi di comunicazione, miglioramento di tutti i servizi pubblici, scuole, parchi, giardini, assistenza sanitaria, organizzazione igienica in difesa della salute del popolo. Nel tempo stesso, sono riscattati dal silenzio oblioso i Fori, come quello di Augusto, i templi, come quello della Fortuna virile.
Tutto ciò è innegabilmente merito vostro. Tutto ciò si deve alla vostra instancabile fatica e al vostro ardente spirito di romanità antica e moderna.
Non ci poteva essere soluzione di continuità in questa opera. Ecco perché il Governo ha deciso che voi, dopo essere stato per tre anni regio commissario, siate, vorrei dire per diritto naturale di successione, il primo Governatore di Roma. Governatore! Avete dinanzi a voi un periodo di almeno tre anni per completare ciò che fu iniziato, e incominciare l'opera maggiore del tempo secondo.
Le mie idee sono chiare, i miei ordini sono precisi e sono certo che diventeranno una realtà concreta. Tra tre anni Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo; vasta, ordinata, potente, come fu ai tempi del primo impero di Augusto.
Voi continuerete a liberare il tronco della grande quercia da tutto ciò che ancora lo intralcia. Farete dei varchi intorno al teatro Marcello, al Campidoglio, al Pantheon; tutto ciò che vi crebbe attorno nei secoli della decadenza deve scomparire. Entro 3 anni da piazza Colonna, per un grande varco, deve vedersi la mole del Pantheon. 
Voi libererete anche dalle costruzioni parassitarie e profane i templi maestosi della Roma cristiana. I monumenti millenari della nostra storia debbono giganteggiare nella necessaria solitudine.
Quindi la terza Roma si dilaterà sopra altri colli, lungo le rive del fiume sacro, sino alle spiaggie del Tirreno.
Voi toglierete la stolta contaminazione tranviaria che ingombra le strade di Roma, ma darete nuovi mezzi di comunicazione alle nuove città che sorgeranno in anello intorno alle città antiche. Un rettilineo che dovrà essere il più lungo e il più largo del mondo porterà l'ansito del mare nostrum da Ostia risorta fino nel cuore della città dove veglia l'Ignoto.
(Ovazioni.)
Darete case, scuole, bagni, giardini, campi sportivi al popolo fascista che lavora. Voi, ricco di saggezza e di esperienza, governerete la città nello spirito e nella materia, nel passato e nell'avvenire.
Volgono per questa vostra opera i fati specialmente propizi.
Da tre anni Roma è veramente la capitale d'Italia, i municipalismi sono scomparsi. Il Fascismo ha, fra gli altri, questo non ultimo merito, di aver dato moralmente e politicamente la capitale alla nazione: Roma, oggi altissima nella nuova coscienza della Patria vittoriosa.
Aggiungo che il popolo romano ha dato in questi ultimi anni, specialmente in questo che si conclude oggi, prove ammirabili di ordine e di disciplina. Esso è degno di vivere nella più grande Roma che sorgerà dalla nostra volontà tenace, dall'amore e dal sacrificio concorde e consapevole di tutte le genti d'Italia.
(Vivissimi applausi, unanimi.)
Governatore! Al lavoro senz'altro indugio.
La Patria e il mondo attendono l'avverarsi dell'auspicio, il compiersi della promessa.
(Grande manifestazione di entusiasmo, grida di: Viva Mussolini! Viva Roma! Tutti i punti del discorso sono stati applauditi, ma specialmente vivi sono stati gli applausi quando l'on. Mussolini ha detto che Roma apparisce meravigliosa a tutti i cittadini del mondo. Alla fine del suo discorso, il duce è stato fatto segno ad una calorosa ovazione.) 
Discorso di Benito Mussolini nella sala degli Orazi e Curiazi in Camipdoglio in occasione dell'insediamento del governatore di Roma Filippo Cremonesi, 31 dicembre 1925. Il discorso, gli applausi e le ovazioni sono come riportati da La Stampa del 1 gennaio 1926.
Considerato il numero relativamente limitato di antifascisti della prima ora rispetto al complesso della popolazione italiana, è probabilmente troppo facile ed eccessivo stigmatizzare ex post la trista fascinazione di Rilke per Mussolini. Resta però il fatto che Rilke avrebbe avuto tutti i modi per riflettere sulle mire di grandeur fasciste, per realizzare che oltre che incompatibili con i principi di libertà erano anche, fin dai primi anni, fatte di cartapesta, della stessa materia dei fondali con cui Mussolini avrebbe ricoperto Roma per accogliere Hitler nel maggio del 1938, e per arrivare quindi a conclusioni diverse, anche senza leggere i giornali. Leggendo la risposta che ricevette dalla stessa Gallarati Scotti, per esempio:
Ce n'est pas parce qu'un homme politique défend les intérêts de ma propre classe que je suis obligée de le trouver intelligent et providentiel.
A differenza della delusione provata quando ho letto per la prima volta la lettera di Leopardi al cardinal Consalvi*, nel caso della lettera di Rilke non ho mosso un muscolo, neanche metaforicamente parlando. Sul suo conto non mi ero mai illusa, forse per colpa delle sue discutibili frequentazioni, a partire da quella con i Thurn und Taxis, il cui castello di Duino, con la sua posizione di dominio sulle povere falesie (lo sfondo roccioso, il contrario della cartapesta, di molte mie estati), mi è sempre servito da memento.

* È riportata al termine di un post illeggibile, ma che non disconosco.

Il verso dell'ananas


Le poesie o i pezzi di Kafka o qualche sprazzo di un po' di tutte 'e cose muffe possono stancare, così come ci si può stancare a cercare le sfumature di significato tra "l'immigrazione scelta" del Presidente francese uscente e "l'immigrazione intelligente" del Candidato favorito o, più in generale, della campagna elettorale in corso ancora prima che entri nel vivo, posto che mai lo faccia. Oggi, quindi, si cambia: un accenno di poesia finlandese e Kafka. 

Kaurismäki, nonostante tutti i segnali ostili dell'Europa presente, non si stanca, se non di sperare, almeno di provare a dare un possibile volto alla speranza. Nel suo Le Havre, due amiche in visita da Arletty, gravemente ammalata in un letto d'ospedale, le leggono i racconti di Kafka. Nel film, vengono seguite in particolare nel momento in cui la lettura arriva alla fine di Kinder auf der Landstraße, purtroppo - lo dico a margine - sacrificando l'effetto bonus che avrebbe suscitato una storia di bambini ipercinetici di fronte all'immobilità forzata di Arletty. La precisione con cui il racconto cinematografico è reso in alcuni suoi dettagli è però rivelatrice della dimensione del sogno, proprio come in Kafka. La realtà non è mai precisa e netta, come insegnano le sfumature delle politiche dell'immigrazione e molte altre sfocature.


»Dort sind Leute! Denkt euch, die schlafen nicht!«
»Und warum denn nicht?«
»Weil sie nicht müde werden.«
»Und warum denn nicht?«
»Weil sie Narren sind.«
»Werden denn Narren nicht müde?«
»Wie könnten Narren müde werden!«

»C'è della gente laggiù, pensate, che non dorme!«
»E perché mai?«
»Perché non si stanca.«
»E perché mai?«
»Perché è pazza.«
»E i pazzi non si stancano?«
»Come potrebbero mai stancarsi?«

domenica 22 gennaio 2012

Russische Spielsachen

Denn wer weiß, wie bald auch dieses Stück Volkskunst dem Siegeszug der Technik, welcher Rußland heute durchquert, noch standhalten kann. - Walter Benjamin, Russische Spielsachen, Südwestdeutsche Rundfunk-Zeitung, 10. Januar 1930 
Perché chissà quanto anche questa parte di arte popolare potrà ancora resistere al corso trionfale della tecnica che oggi attraversa la Russia.


Ci era stato detto che c'è un gioco chiamato golf in cui si colpisce la palla col bastone: pensammo di combinarlo col calcio, perché pareva un po' cretino, sostituendo alla palla un barattolo di latta pestato col martello. Questo è il golcio. -  Luigi Meneghello, Libera nos a Malo


Pìcola che la iera, /la se meteva soto/  la finestra, par tera,/ co' le su' robe:/  la pupa, el letin/ le pignadele stivade vizin.  - Virgilio Giotti,  I zogàtoli
Da piccola,/ si metteva sotto/ la finestra, per terra,/ con le sue cose:/ la  bambola, il lettino,/ le pentoline allineate vicino.


Hölzernes Modell einer Nähmaschine. Dreht man die Kurbel, so geht der Nagel auf und nieder und erzeugt im Auffallen ein klapperndes Geräusch, das dem Kinde den Rhythmus der Nähmaschine vorstellt. Bauernarbeit. 

Modello in legno di una macchina da cucire. Quando si gira la manovella, il chiodo va in su e in giù e colpendo la base produce un rumore battente, che per il bambino rappresenta il ritmo della macchina da cucire. Lavoro contadino.


Interessant ist der Vergleich dieser beiden Wjatka-Puppen. Das Pferd, das auf dem einen Modell noch sichtbar ist, ist auf dem nebenstehenden schon mit dem Manne verschmolzen. Volkstümliches Spielzeug strebt nach vereinfachten Formen. 

Interessante, il confronto tra questi due pupazzi di Vjatka. Il cavallo, ancora visibile in uno dei modelli, in quello a fianco è già fuso con l'uomo. Il giocattolo popolare tende verso forme semplificate.


a) Samowar (gelb, rot und grün) als Behang für den Weihnachtsbaum. b) Trommler - gibt ein knatterndes Geräusch von sich und bewegt die Arme, wenn man die Kurbel rechts unten dreht.

a) Samovar (giallo, rosso e verde) da sospendere all'albero di Natale. b) Tamburino - emette un picchiettio e muove le braccia quando si gira la manovella in basso a destra.


Möbelgarnitur für die Puppenstube. Arbeit sibirischer Sträflinge aus dem 19. Jahrhundert. Das Zusammenflügen der winzigen Holzteilchen erfordert unsägliche Geduld.

Mobili per arredare la stanza delle bambole. Lavoro di detenuti siberiani del XIX secolo. L'assemblaggio delle minuscole particelle di legno richiede una pazienza infinita.


Puppe aus Stroh. Höhe: 6 Zoll. Tambosk. Wird sommers im Feld hei der Erntearbeit verfertigt und später, getrocknet, als Puppe bewahrt. Erinnerung an einen uralten Erntefetisch.

Bambola di paglia. Altezza: 6 pollici. Tambosk. Viene realizzata nei campi d'estate, durante la raccolta, e  poi, una volta seccata, conservata come bambola. Reminiscenza di un feticcio arcaico della raccolta. 


Die Erde auf drei Walfischen. Von einem Künstler aus Holz verfertigt. Das Motiv entstammt einer russischen Sage.

La terra su tre balene. Realizzata in legno da un artista. Il motivo proviene da una leggenda russa.


Bacchus auf einem Ziegenbock. Im Kasten eine Musik.

Bacco su un caprone. Nella scatola, una musica.


Altes Holzpferdchen aus dem Gouvernement Wladimir.

Antico cavalluccio in legno dell'Oblast' di Vladimir.
 

Nußknacker. Nachahmung einer Majolikafigur in Holz. Entstanden zwischen 1860 und 1880 im Gouvernement Moskau.

Schiaccianoci. Imitazione in legno di una figura di maiolica. Creato tra il 1860 e il 1880 nell'Oblast' di Mosca.
 

Droschke mit zwei Pferden bespannt. Holzschnitzerei aus dem Gouvernement Wladimir.

Carro attaccato a due cavalli. Scultura in legno dell'Oblast' di Vladimir.


Bonne mit zwei Kindern. Sehr alter Spielzeugtyp.

Domestica con due bambini. Tipo di giocattolo molto antico.
 
(Tutte le didascalie sono di Walter Benjamin.)

Przesłanie Pana Cogito/Al mondo

- Ciao, Andrea.
- Ciao, Zbigniew.
- Ti volevo dire una cosa.
- ? 
- Anche se siamo diversi, Bądź wierny Idź...
- Ah, lo so, è la traduzione di Su bello, su. Su, münchausen.
- Indovinato. Be', grazie.
- Non devi ringraziarmi: così siamo.
- Grazie lo stesso.
- Ma dai. Piuttosto: lascia che ti presenti Vincenzo.

*

Idź dokąd poszli tamci do ciemnego kresu
po złote runo nicości twoją ostatnią nagrodę

idź wyprostowany wśród tych co na kolanach
wśród odwróconych plecami i obalonych w proch

ocalałeś nie po to aby żyć
masz mało czasu trzeba dać świadectwo

bądź odważny gdy rozum zawodzi bądź odważny
w ostatecznym rachunku jedynie to się liczy

a Gniew twój bezsilny niech będzie jak morze
ilekroć usłyszysz głos poniżonych i bitych

niech nie opuszcza ciebie twoja siostra Pogarda
dla szpiclów katów tchórzy - oni wygrają

pójdą na twój pogrzeb i z ulgą rzucą grudę
a kornik napisze twój uładzony życiorys

i nie przebaczaj zaiste nie w twojej mocy
przebaczać w imieniu tych których zdradzono o świcie

strzeż się jednak dumy niepotrzebnej
oglądaj w lustrze swą błazeńską twarz
powtarzaj: zostałem powołany - czyż nie było lepszych

strzeż się oschłości serca kochaj źródło zaranne
ptaka o nieznanym imieniu dąb zimowy
światło na murze splendor nieba
one nie potrzebują twego ciepłego oddechu
są po to aby mówić: nikt cię nie pocieszy

czuwaj - kiedy światło na górach daje znak - wstań i idź
dopóki krew obraca w piersi twoją ciemną gwiazdę

powtarzaj stare zaklęcia ludzkości bajki i legendy
bo tak zdobędziesz dobro którego nie zdobędziesz
powtarzaj wielkie słowa powtarzaj je z uporem
jak ci co szli przez pustynię i ginęli w piasku

a nagrodzą cię za to tym co mają pod ręką
chłostą śmiechu zabójstwem na śmietniku

idź bo tylko tak będziesz przyjęty do grona zimnych czaszek
do grona twoich przodków: Gilgamesza Hektora Rolanda
obrońców królestwa bez kresu i miasta popiołów

Bądź wierny Idź

Zbigniew Herbert


Il messaggio del signor Cogito

Vattene dove andarono quelli fino al limite buio
a cercare il vello d’oro del nulla tuo ultimo premio

va' eretto fra quelli che sono in ginocchio
che voltano le spalle o sono ridotti in polvere

sei stato risparmiato ma non per vivere
hai poco tempo bisogna testimoniare

sii coraggioso quando la ragione viene meno sii coraggioso
alla fine è solo questo che conta

e la tua Collera impotente sia come l'oceano
ogni volta che sentirai la voce di perseguitati e percossi

non ti abbandoni il tuo fratello il Disprezzo
per le spie i carnefici i vigliacchi – saranno loro a vincere

verranno al tuo funerale gettando con sollievo la loro zolla di terra
poi il tarlo scriverà la tua biografia aggiustata

e non perdonare perché in verità ti dico non è in tuo potere
perdonare in nome di quelli che l'hanno tradito all’alba

guardati però dall'orgoglio inutile
osserva allo specchio la tua faccia da giullare
ripeti: sono stato chiamato – non ce n’erano di migliori?

guardati dall’aridità del cuore ama la fonte mattutina
l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno
la luce su un muro lo splendore del cielo
non hanno bisogno del tuo respiro caldo
esistono soltanto per dire: nessuno ti consolerà

resta sveglio – quando la luce arderà sulla collina – alzati e va'
finché il sangue ti farà girare nel petto la tua stella oscura

ripeti gli antichi scongiuri fiabe e leggende dell'umanità
perché così raggiungerai il bene che ti sfuggirà
ripeti le grandi parole ripetile ostinatamente
come quelli che attraversavano il deserto e morivano nella sabbia

sarai premiato con quello che hanno a portata di mano
con sferzate di derisione con un assassinio su un immondezzaio

va' perché solo così sarai ammesso nella cerchia dei crani freddi
tra i tuoi avi: Gilgamesh Ettore Rolando
difensori del regno senza confini e della città delle ceneri

Sii fedele Va'

sabato 21 gennaio 2012

Il narratore che sognava di essere poeta

Per me, l'ha fatto apposta, a morire ora. Vincenzo Consolo avrebbe voluto essere poeta, ma è stato un narratore, ed è per questo che deve aver messo il punto finale alla sua narrazione adesso, prima di addentrarsi troppo in questo nuovo anno.
Consolo riempiva le sue narrazioni (così chiamava i propri romanzi, lo scrivo tra parentesi come se lo dicessi sottovoce) di versi, vi inseriva rimandi a Leopardi e Pascoli, oppure richiami ad una fresca lingua antichissima o popolare (il che è lo stesso). Niente lirismo, nei suoi scritti, anzi, ma molti segnali che hanno lasciato testimonianza non solo di passione civile, ma anche di una nostalgia per una poesia sognata, vagheggiata e mai scritta, come le scritte dei carcerati ne Il sorriso dell'ignoto marinaio, ciascuna riportata a tutta pagina, in un capitolo a parte, a voler farne emergere più distintamente gli involontari versi:

TUBAUT E CUTIEU
MART A TUCC I RICCH
U PAUVR SCLAMA
AU FAUN DI TANT ABISS
TERRA PAN
L'ORIGINAU E DAA
LA FAM SANZA FIN
          DI
              LIBERTAA

lupara e coltello/morte a tutti i ricchi/il povero esclama/al fondo di tanto abisso/terra pane/l'origine è là/la fame senza fine/di/libertà.
A me pare che Consolo abbia voluto andarsene ora. Il vero silenzio non era, per lui, il sottrarsi di parole generiche, ma il silenzio della parola poetica: "l'inespresso, l'ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto" scriveva in Nottetempo, casa per casa. Ecco perché ora: la sua morte è l'espressione concreta - oh, se amava la concretezza - della sua ultima ode alla poesia, l'ode che non ha mai scritto, ma realizzato, l'ultimo dei suoi omaggi ai poeti, come quello che ha affidato ai suoi personaggi, allo scrittore Gioacchino Martinez ne Lo spasimo di Palermo, per esempio, in cui è chiaro a quale poeta pensasse, ad Andrea Zanzotto:
Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch'era finita in urlo, s'era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall'implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti, e maggiormente il veneto rinchiuso nella solitudine di una pieve saccheggiata - tutt'ossa del Montello questo mondo - "Le tue egloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vi grava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante e la seconda ancor più ardua, scoscesa..." questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sua sponda d'un antico Mediterraneo devastato.
Per me, ha fatto apposta a seguirlo.

Per una nuvola

Ἄγγελος
οὐχ ἥδε μόχθων τῶν ἐν Ἰλίῳ βραβεύς;

Μενελέως
οὐχ ἥδε, πρὸς θεῶν δ᾽ ἦμεν ἠπατημένοι,
νεφέλης ἄγαλμ᾽ ἔχοντες ἐν χεροῖν λυγρόν.

Ἄγγελος
τί φῄς;
νεφέλης ἄρ᾽ ἄλλως εἴχομεν πόνους πέρι;

Messaggero
Non è stata lei la causa del male di Ilio?

Menelao
No, non è stata lei: tratti in inganno dagli dei,
quella che avevamo nelle mani
era una sinistra parvenza di nuvola.

Messaggero
Che dici?
È per una nuvola che abbiamo sofferto così tanto?

Euripide, Elena

venerdì 20 gennaio 2012

Si fa presto a dire eroe

De Falco ha una simpatica faccia anonima
una bella pelata virile
ha il tono dell'imperium
ma nessuno lo ha mai visto in pericolo
nessuno lo ha visto all'opera
su una nave che affonda.
Nessuno sa come si sarebbe comportato
se fosse stato al posto di Schettino.
E però è stato nominato eroe
da un paese stremato
che come i naufraghi della Concordia
si sente annegare in una tinozza
naufragare in una secca, in un tratto di mare chiuso
che non ha niente dell'oceano che travolse il Titanic
ma somiglia invece al povero mare di Verga
a quel tratto da Aci Trezza a Capo Mulini
che è poco meno di Civitavecchia-Savona
uno sputo
roba da barca a remi e non da avventura
mare calmo e senza vento
che fa da sfondo a una tragedia della mediocrità
della povertà umana dei comandanti italiani
metafora della leadership in Italia.
È uno strano paese, il nostro
che non si accontenta di consegnare il mostro Schettino
alla pietà della storia e alla severità della giustizia
ma ha bisogno di sfogarsi di inveire di maltrattarlo
forse per scacciare il demone Schettino
che sta dentro ogni italiano
per marcare con l'invettiva una distanza tra noi e Schettino
per negare con l'insulto che forse Schettino ci somiglia
Schettino come carattere italiano - è stato detto
gradasso e pavido
spavaldo, arrogante e vanitoso
quando è al sicuro
e invece annichilito, imbambolato
intontito dal pericolo e dalla propria inadeguatezza
dinanzi all'emergenza.
E va bene che abbiamo bisogno estremo
di trovare l'antidoto al veleno
di contrapporre l'italiano nobile all'italiano ignobile
ma De Falco ha tuonato, ha gridato, ha imprecato.
Nella famosa telefonata che stava registrando
ha esibito indignazione ed energia muscolare
"Torni a bordo, cazzo
parli più forte
vuole tornare a casa?"
De Falco ha fatto il suo lavoro, lo so
il comando, la regola, il dovere, tutte cose giuste
ma non vorrei che passasse l'idea
che il comando sia gridare
e che ci sia davvero una nobiltà nel dire
cazzo!
Anche questa è un'idea molto italiana
che la mala parola sia una risorsa virile
sono cose che il nostro paese ha conosciuto
purtroppo bene e che non ha superato.
Un comandante che deve recuperarne un altro
forse dovrebbe provarci anche con qualche argomento
"Non ti ricordi che cosa ci hanno insegnato i nostri maestri?
Se torni a bordo e ne salvi uno solo
basterebbe questo alla tua coscienza.
Ricordati della divisa che porti addosso".
E invece De Falco ha dato ordini
che come ha poi detto sono il suo lavoro, certo
"Adesso comando io, torna a bordo, cazzo".
L'Italia è stata l'Italia dei gerarchi
ed è ancora piena di comandanti, capi e capetti
che si dissipano in un gorgoglio di comando, un flottare di ordini.
Il capetto italiano è ancora il fascista
che ordina, riordina e preordina e postordina
e sputacchia disordinatamente ordini di servizio e servizi d'ordine
ma poi scappa ad ogni 8 settembre.
Non c'è mai nessuno che governa in Italia
uno che guida, che dirige
nessuno che convince
perché in Italia abbiamo capi e padroni
abbiamo gli autoritari ma non gli autorevoli
abbiamo i bulli e abbiamo avuto il dux, il duce
ma non abbiamo leader
non abbiamo mai avuto un nocchiero in gran tempesta
ma sempre e solo Schettino
nostro simile, nostro fratello.
De Falco ha raccontato di avere pianto
e anche questo nel paese del batticuore e del turbamento
ha fatto effetto
ma un comandante che piange non parla del suo pianto.
Ecco, io non credo affatto che al posto di Schettino
De Falco si sarebbe comportato come Schettino
ma penso che al posto di De Falco
Schettino si sarebbe comportato come De Falco.

Francesco Merlo, giornalista
Estratto a sua insaputa da La Repubblica del 18 gennaio 2012
chiedendomi come mai non sia ancora uscito un pezzo della Spinelli con una citazione di Tifone di Conrad, ma non disperando che possa avvenire a breve.

Sento una grande mancanza di poesia civile del tempo presente. Asciutta ed onesta, che sgorghi dal cuore e dalle trippe. Non ne trovo. Cerco di immaginare dove si stia nascondendo. Mi rammarico del silenzio di chi sarebbe in grado di scriverla e si dedica ad altro. Potenzialmente, il periodo sarebbe favorevole, come è quello che vive qualsiasi paese stremato (ce n'è moltissimi, tutti disposti ad aggrapparsi ad una sola frase come se fosse un salvagente, per restare in ambito marinaro). Invece i poeti civili si nascondono. Statisticamente parlando, si stanno nascondendo dietro un account, che non usano mai per commentare, ma solo per leggere, e si vergognano, quando rileggono qualche abbozzo di verso annotato su un tovagliolo di carta o, più probabilmente, stanno cercando un lavoro purchessia. Uno, proprio in questo momento, sta attraversando il Mediterraneo o, fra sette ore, quando sarà passata mezzanotte pure lì, la barriera tra Messico e Texas. Spero arrivino a destinazione, intanto.

mercoledì 18 gennaio 2012

Ofiarowanie Ifigenii

Agamemnon jest najbliżej stosu. Płaszcz zarzucił na głowę, ale oczu nie zamknął. Sądzi, że przez tkaninę dostrzeże błysk, który stopi jego córkę, jak szpilkę do włosów.
Hipiasz stoi w pierwszym szeregu żołnierzy. Widzi tylko małe usta Ifigenii, które łamią się od płaczu, jak wtedy gdy zrobił jej straszną awanturę o to, że wpina kwiaty we włosy i daje się na ulicy zaczepiać nieznajomym mężczyznom. Raz po raz widok Hipiasza wydłuża się niepomiernie i małe usta Ifigenii zajmują ogromną przestrzeń od nieba do ziemi. Kalchas, o oczach dotkniętych bielmem, widzi wszystko w mętnym owadzim świetle. Jedyna rzecz, która go naprawdę porusza, to obwisłe żagle okrętów stojących w zatoce, które sprawiają, że smutek starości wydaje mu się w tej chwili nie do zniesienia. Podnosi przeto rękę, aby rozpoczęto ofiarę.
Chór umieszczony na zboczu obejmuje świat we właściwych proporcjach. Niewielki błyszczący krzak stosu, białych kapłanów, purpurowych królów, głośną miedz i miniaturowe pożary żołnierskich hełmów, a wszystko to na tle jaskrawego piasku i niezmiernego koloru morza.
Widok jest pyszny, jeśli przywołać na pomoc odpowiednią perspektywę.

Zbigniew Herbert


Il sacrificio di Ifigenia

Agamennone è il più vicino al rogo. Si è coperto la testa col mantello, ma non ha chiuso gli occhi. Attraverso la stoffa pensa di percepire il balenio che ridurrà sua figlia ad una spilla per capelli.
Ippia è in piedi nella prima fila dei soldati. Vede solo la piccola bocca tremante di Ifigenia in lacrime, come il giorno in cui le aveva fatto una scenata tremenda perché si era messa dei fiori nei capelli e si lasciava abbordare per strada da sconosciuti. A mano a mano, il campo visivo di Ippia si allarga a dismisura e la piccola bocca di Ifigenia viene ad occupare uno spazio immenso dal cielo alla terra.
Calcante, con gli occhi ricoperti dal velo della cataratta, vede tutto in una luce torbida da insetto. La sola cosa che lo commuove veramente sono le vele lasche della navi nella baia, che gli fanno sembrare insostenibile la tristezza per la vecchiaia. Alza quindi la mano perché il sacrificio abbia inizio.
Il coro disposto sul pendio vede il mondo nelle sue giuste proporzioni. Il piccolo cespuglio brillante del rogo, i sacerdoti in bianco, i re in porpora, il rame sgargiante e i fuochi in miniatura degli elmi dei soldati, tutto questo su uno sfondo di sabbia splendente e di colore infinito del mare.
La vista è meravigliosa, con l'accortezza dell'ausilio della prospettiva appropriata.

Я капитан/Io sono un capitano

Четыре иллюстрации того, как новая идея огорашивает человека, к ней не подготовленного

I
Писатель: Я писатель!
Читатель: А, по-моему, ты говно!
(Писатель стоит несколько минут, потрясенный этой новой идеей, и падает замертво. Его выносят.)

II
Художник: Я художник!
Рабочий: А, по-моему, ты говно!
(Художник тут же побледнел как полотно, и как тростинка закачался и неожиданно скончался. Его выносят.)

III
Композитор: Я композитор!
Ваня Рублев: А, по-моему, ты говно!
(Композитор, тяжело дыша, так и осел. Его неожиданно выносят.)

IV
Химик: Я химик!
Физик: А, по-моему, ты говно!
(Химик не сказал больше ни слова и тяжело рухнул на пол.)

Даниил Хармс, 13.4.1933


Quattro illustrazioni di come una nuova idea sbalordisca il soggetto che non vi sia preparato

I.
Scrittore: Io sono uno scrittore.
Lettore: A me mi sembri piuttosto una merda.
Lo scrittore sta in piedi per qualche minuto, sconvolto da questa nuova idea, poi cade esanime. Lo portano via.

II.
Pittore: Io sono un pittore.
Operaio: A me mi sembri piuttosto una merda.
Il pittore impallidisce come una tela, comincia a dondolare come una canna e, inaspettatamente, muore. Lo portano via.

III.
Compositore: Io sono un compositore.
Vanja Rublev: A me mi sembri piuttosto una merda.
Il compositore, respirando pesantemente, si accascia. Lo portano inaspettatamente via.

IV.
Chimico: Io sono un chimico.
Fisico: A me mi sembri piuttosto una merda.
Il chimico non dice una parola e stramazza pesantemente al suolo.

Daniil Charms, Disastri, Einaudi, 2003 - traduzione di Paolo Nori

domenica 15 gennaio 2012

"Vom 15. Januar ab ist meine Adresse Paris XV 10 rue Dombasle"

Nel 51 a.C., Memmio (cui Lucrezio aveva dedicato il De rerum natura) intende costruire ad Atene una casa sulle rovine della casa di Epicuro; un certo Patrone Epicureo insiste con Cicerone perché interceda presso Memmio, affinché questi lasci a lui l’onore di conservare la reliquia. Cicerone (ad fam. 13.1), nella sua sprezzante stupidità, deride che si voglia conservare «non so quale catapecchia di Epicuro» (nescio quid illud Epicuri parietinarium), e mette in ridicolo l’enfasi che Patrone attribuisce a questo compito (honorem, officium, testamentorum ius, Epicuri auctoritatem, Phaedri obtestationem, sedem, domicilium, vestigia summorum hominum sibi tuenda esse dicit). A distanza di duemila anni, questo sconosciuto epicureo romano di cui nulla sappiamo ci trasmette, attraverso il filtro deformante del suo ampolloso e disprezzabile detrattore, una delle principali qualità dell’epicureismo, che doveva essere l’arte della venerazione. Quando la persona cui devi tutto è morta, e tanto più se, come in questo caso, la dottrina impone di credere che nulla di lui sopravviva alla morte, non esiste altra via per manifestare la propria gratitudine che occuparsi delle reliquie, anche insignificanti, che hanno riguardato quella persona: la sua abitazione, gli oggetti materiali, ma anche la ricerca di notizie biografiche irrilevanti, lo studio di dettagli minuziosi e quotidiani. Questa arte della venerazione si conserva nei settori migliori della ricerca letteraria. E’ facile prendere in giro chi dedica energie straordinarie di assidua ricerca per decidere se, in un quasiasi giorno del secolo scorso, Proust era uscito in anticipo per la sua passeggiata pomeridiana oppure no. Ma l’attenzione a questi particolari è solo una forma di gratitudine, altrimenti impossibile, verso l’autore, un modo per ringraziarlo di avere scritto quello che ha scritto, quasi per dire: tu vali tanto per me, che io giudico degno anche occuparmi delle stringhe delle tue scarpe.

sabato 14 gennaio 2012

Esibizioni

Una mostra su materiale di archivio di Walter Benjamin esibisce su una parete, a fianco di altre lettere sue e di suoi amici, la sua ultima lettera a Gretel Adorno, scritta a Lourdes.

19.7.1940 
Ma chère Felizitas, ta lettre, écrite le 8 m'a rejoint en huit jours. Je n'ai pas besoin de te dire le réconfort qu'elle m'a donné. Je dirais bien: la joie, mais je ne sais si je pourrais connaître ce sentiment avant longtemps.

Esibisce: raramente ho usato un verbo in modo più appropriato. Nessun altro potrebbe esprimere meglio, per quanto indirettamente, la sensazione con cui mi sono trovata a leggere le parole esibite di un uomo che sarebbe morto due mesi dopo, ma soprattutto di un uomo che si sentiva già destinato a morire di lì a poco e che stava concentrando i propri sforzi per salvare i propri manoscritti come se fossero stati la sua vita stessa. Essendone attratta, ma al contempo subendole.

Ce qui m'obscurcit au delà de tout est le sort de mes manuscrits.

L'ho letta, quindi.

Le moment n'est pas venu de te faire le récit des circonstances de mon départ.

E riletta.

19.7.1940 
Ma chère Felizitas, ta lettre, écrite le 8 m'a rejoint en huit jours. Je n'ai pas besoin de te dire le réconfort qu'elle m'a donné. Je dirais bien : la joie, mais je ne sais si je pourrais connaître ce sentiment avant longtemps. Ce qui m'obscurcit au delà de tout est le sort de mes manuscrits. Le moment n'est pas venu de te faire le récit des circonstances de mon départ.

Dopo averla letta e riletta, l'ho anche ricopiata, pur esitando a farlo, per quella sensazione mista di attrazione e di sottomissione ad un atto di imposizione, pur sapendo che la minuzia della sua calligrafia e la densità con cui le sue parole riempiono un vecchio foglio che ha viaggiato e che deve anche essere passato per diverse mani, oltre a quelle del suo destinatario, non possono minimanente essere restituite da una copia, non dalla mia calligrafia sul primo pezzo di carta trovato nella mia borsetta, e meno che mai da una copia elettronica.

19.7.1940 
Ma chère Felizitas, ta lettre, écrite le 8 m'a rejoint en huit jours. Je n'ai pas besoin de te dire le réconfort qu'elle m'a donné. Je dirais bien : la joie, mais je ne sais si je pourrais connaître ce sentiment avant longtemps. Ce qui m'obscurcit au delà de tout est le sort de mes manuscrits. Le moment n'est pas venu de te faire le récit des circonstances de mon départ. Cependant, tu t'en fera une idée en apprenant que je n'ai rien pu emporter que mon masque à gaz et mes effets de toilette. Je peux dire que j'ai tout prévu mais que j'étais dans l'impossibilité de parer à quoique ce soit. J'ajouterai que si rien de ce à quoi je tiens est actuellement à ma disposition je puis conserver un espoir modeste quant au fond de manuscrits qui appartiennent à mon grand travail sur le XIX siècle. Je comprends la brièveté de ta lettre ; il faut que tu comprennes aussi le laconisme du mien. Rien de ce qui dépasse ce qui est strictement personnel ne se prête actuellement à la correspondance. Pour rester dans ce cadre je te dirai d'abord que ta lettre du 8 juillet est le premier message de toi qui m'a touché depuis mon arrivée à Lourdes. Il y a, d'autre part, un cable du Max qui m'annonce l'envoi d'un certificat attestant ma liaison avec l'Institut. Je compte que tu lui fasse part de tous mes remerciements (qui ont, d'autre part, dû lui parvenir par Mme Favez). Je suis sûr qu'il comprendra, combien il m'est difficile de lui écrire de façon circonstanciée et précise comme j'en ai l'habitude et le désire. J'espère de tout cœur que ses tentatives à lui ainsi que les vôtres aboutiront.

La densità della scrittura non è dissimile da quella di un minuscolo Libro di Ester della collezione permanente dello stesso museo che ospita la mostra su Benjamin, il Musée d'art et d'histoire du Judaïsme. La copia del Libro di Ester cui mi riferisco fu eseguita a Trieste nel 1775 su un foglio di pergamena rettangolare di 10 cm di lato e la scrittura è quella di Giosuè Barukh, figlio di Mosè Pincherle. La didascalia della teca del museo recita "Pinherle", ma è per forza Pincherle, come sa chiunque sia nato a Trieste o, in via subordinata, chiunque abbia letto Moravia.


Pensando a quanto tenesse ai suoi manoscritti ho copiato quindi la lettera di Benjamin a Gretel Adorno, ma non l'ho copiata integralmente. Ad un certo punto, ci ho rinunciato.

Il est possible, même probable, que nous ne disposons que d'un temps limité.

È questo il punto esatto in cui ho desistito. 

mercoledì 11 gennaio 2012

Le blog de Pierre

Voici un exemple d'un post de Pierre sur le site registres-journaux.org. Malheureusement, ça fait un petit moment qu'il n'a plus le temps d'écrire.

*

Le mardi 23 septembre furent mis et affichés, par les carrefours de Paris et aux portes du Palais, des placards en rythme contre les Italiens. J'en recouvré un, dont la copie s'ensuit :

Italiens, inventeurs de subsides,
Pires cent fois que tous les parricides,
Votre avarice et désir insensé
Ont tant la France en malheur renversé,
Qu'il n'y a pas un bourreau de la France,
Qui contre vous, haut, ne crie vengeance !

Italien, doncque, qui que tu sois,
Qui t'enrichis aux dépens du François,
Dont tu fais tant de muguet parfumé,
Un jour viendra : tu seras enfumé !
Car la France est de toi tellement lasse,
Qu'il faut pour vrai que la tête on te casse !

Pierre de L'Estoile, Registre-Journal du règne de Henri III, 23 septembre 1578
(Pierre de L'Estoile, À Paris, pendant les guerres de religion. Extraits de ses registres-journaux. Présentés, annotés et mis en français moderne par Philippe Papin. Arléa, 2007)

***

Ecco un esempio di un post di Pierre su registres-journaux.org. Sfortunatamente, è da un po' che non ha più tempo di scrivere.

*

Martedì 23 settembre furono messi ed esposti, agli incroci di Parigi e alle porte del Palazzo, dei manifesti in rima contro gli italiani. Ne ho recuperato uno di cui segue la copia:

Italiani, inventori di sussidi,
Cento volte peggio di tutti i parricidi,
La vostra avarizia e brama insensata
Hanno tanto la Francia in disgrazia gettata,
Che non c'è un boia della Francia poveretta,
Che contro di voi, forte, non gridi vendetta!

Italiano, dunque, chiunque tu sia
Che ti arricchisci alle spese della francese signoria,
Di cui fai tanto mughetto profumato,
Un giorno verrà: sarai affumicato!
Perché i francesi son di te talmente lassi,
Che bisogna davvero che la testa ti si fracassi!

(23 settembre 1578, ovvero sotto il regno di Enrico III, figlio di Caterina de' Medici.) 

martedì 10 gennaio 2012

Alla finestra per parrocchetto

Ni aquella tarde ni la otra murió el ilustre Giambattista Marino, que las bocas unánimes de la Fama (para usar una imagen que le fue cara) proclamaron el nuevo Homero y el nuevo Dante, pero el hecho inmóvil y silencioso que entonces ocurrió fue en verdad el último de su vida. Colmado de años y de gloria, el hombre se moría en un vasto lecho español de columnas labradas. Nada cuesta imaginar a unos pasos un sereno balcón que mira al poniente y, más abajo, mármoles y laureles y un jardín que duplica sus graderías en un agua rectangular. Una mujer ha puesto en una copa una rosa amarilla; el hombre murmura los versos inevitables que a él mismo, para hablar con sinceridad, ya lo hastían un poco:

Púrpura del jardín, pompa del prado,
gema de primavera, ojo de abril...

Entonces ocurrió la revelación. Marino vio la rosa, como Adán cuando pudo verla en el Paraíso, y sintió que ella estaba en su eternidad y no en sus palabras y que podemos mencionar o aludir pero no expresar y que los altos y soberbios volúmenes que formaban en un ángulo de la sala una penumbra de oro no eran (como su vanidad soñó) un espejo del mundo, sino una cosa más agregada al mundo.

Esta iluminación alcanzó Marino en la víspera de su muerte, y Homero y Dante acaso la alcanzaron también.
Jorge Luis Borges, El hacedor, 1960


Leonardo Olschki ha sostenuto che, in seguito alla Controriforma, la musica divenne la sola manifestazione libera ed autonoma della vita artistica del popolo italiano. Se ci fosse un banchetto dove sottoscriverlo, lo farei di corsa, anche adesso. Il barocco, che della Controriforma è figlio diretto, profondendo, come ha profuso, molta della sua energia nella musica, ha di pari passo svuotato il senso della parola, anche della parola poetica, l'ha resa contenitore vuoto, umiliandola fino allo stato di simulacro od orpello. Da quello svuotamento, se si pensa alla concretezza e alla sonorità (e al magnifico sguardo infantile, anche) della poesia e della prosa anteriori e le si confronta con quelle posteriori al barocco, l'italiano non si è mai completamente ripreso. Il principe della poesia barocca italiana (dove italiana, in questo contesto, è pleonasmo) è Giovan Battista Marino, un poeta agli antipodi del mio modo di sentire: nell'irripetibile periodo in cui non avevo ancora varcato la soglia della lingua francese ed avevo appena traslocato dal tedesco, è stato a Guillevic che mi sono naturalmente rivolta per cominciare ad abitare il francese, ovvero per la necessità di tinteggiare le nuove pareti di casa con un colore che me la facesse sentire accogliente. Questo, tanto per dare rapidamente una misura della distanza che ci separa. Marino è anche letteralmente agli antipodi del cliché del poeta povero e misconosciuto in vita, letto, al più, solo postumamente. Nessuna delle ragioni della sua distanza da me sono sufficienti perché me ne possa comodamente dimenticare, come se non fosse un mio parente, per quanto lontano e non amato: lo è ed è pure un parente che ha avuto dei figli, sia per stile sia per senso degli affari. Ne riporto non una poesia, ma una lettera a Don Lorenzo Scoto, che la mia tastiera, da quando ne ho trovato un estratto in Fernand Braudel, Le modèle italien, Flammarion, 1994, non è riuscita, in questa come in altre occasioni, a contenere: ma, si sa, la mia tastiera è debole e volentieri si piega agli istinti più biechi. E non solo per una questione di memoria, ma anche perché, per più di qualche anno, grazie a Marie de Médicis, riuscimmo abilmente a liberarcene e ad appiopparlo ai francesi, che venerarono le Chevalier Marin, e, non da ultimo, perché nel suo sbeffeggiare l'altro da sé - altro prodotto nazionale, anche se molto meno esportato del barocco, segno di impotenza e di insicurezza - non risparmiò se stesso.
Vi do avviso che sono in Parigi, dove lasciando a voi altri Piemontesi il vaire, il necio ed il mideccò, mi son dato tutto tutto al linguaggio francioso, del quale però altro fin qui non ho imparato che Ouy e Nanì ; ma né anco questo mi par poco ; poiché quanto si può dire al mondo consiste tutto in affermativa e negativa.
Circa il paese, che debbo io dirvi? Vi dirò ch'egli è un Mondo. Un Mondo, dico, non tanto per la grandezza, per la gente e per la varietà, quanto perch'egli è mirabile per le sue stravaganze. Le stravaganze fanno bello il Mondo, perciocché, essendo composto di contrari, questa contrarietà constituisce una lega che lo mantiene. Né più né meno la Francia è tutta piena di ripugnanze e di sproporzioni, le quali però formano una discordia concorde, che la conserva. Costumi bizzarri, furie terribili, mutazioni continue, guerre civili, perpetue, disordini senza regola, estremi senza mezzo, scompigli, garbugli, disconcerti e confusioni : cose in somma che la dovrebbono distruggere, per miracolo la tengono in piedi. Un mondo veramente, anzi un mondaccio più stravagante del mondo istesso.
Incominciate prima dalla maniera del vivere ; ogni cosa va alla rovescia. Qui gli uomini son donne e le donne sono uomini ; intendetemi sanamente. Voglio dire, che quelle hanno cura del governo della casa, e questi si usurpano tutti i lor ricami e tutte le lor pompe. Le Dame studiano la pallidezza e quasi tutte paiono quattriduane. Per esser tenute più belle, sogliono mettersi de gli impiastri e dei bullettini in sul viso. Si spruzzano le chiome di certa polvere di zanni, che le fa diventar canute, talché da principio io stimava che tutte fossero vecchie.
Veniamo al vestire. Usano di portare attorno certi cerchi di botte a guisa di pergole, che si chiaman verdugati. Invenzione ritrovata (credo) per parto di vanagloria ; acciochè la Signora di Valpelosa ed il Signor conte di Monte ritondo se ne stiano con maggior riputazione sotto l'ombrella. Questo quanto alle donne. Gli uomini in su le freddure maggiori del verno vanno in camicia. Ma vi ha un'altra stravaganza più bella, che alcuni sotto la camicia portano il farsetto : guardate che nuova foggia d'ipocrisia cortigiana. Portano la schiena aperta d'una gran fessura d'alto a basso, appunte come le tinche, che si spaccano per le spalle. I manichini sono più lunghi delle maniche ; onde rovesciandoli su le braccia, par che la camicia venga a ricoprire il giubbone. Hanno per costume d'andar sempre stivalati e speronati e questa è una delle stravaganze notabili ; perchè tal vi è che non ebbe mai cavallo in sua stalla, né cavalcò in sua vita e tuttavia va in arnese di cavallerizzo. Né per altra cagione penso io che costoro sian chiamati Galli, se non perchè, appunto come tanti galletti, hanno a tutte le ore gli speroni ai piedi con certi stivaletti, cavati dalla forma di quelli di Margutte ; e d'avantaggio sopra gli stivali calzano le pianelle. Ma in quanto a me più tosto che Galli, dovrebbono esser detti Pappagalli ; poiché se ben la maggior parte quanto alla Cappa ed alle calze vestono di scarlatto, sì che paiono tanti cardinali, il resto è poi di più colori, che non sono le tavolozze dei dipintori. Pennacchiere lunghe come code di volpi ; e sopra la testa tengono una altra testa posticcia con capelli contrafatti e si chiama Parrucca ; onde a chi n'afferrasse uno per lo ciuffetto interverrebbe quello che intervenne al Satiro con Corisca.
Che ne dite, Don Lorenzo? Anch'io per non uscir dall'usanza sono stato costretto a pigliare i medesimi abiti. Dio, se voi mi vedeste impacciato tra queste spoglie da Mamalucco, so che vi darei da ridere per un pezzo. In primis la punta della pancia del mio giubbone, passando per sotto i campanelli, confina con le natiche. Il diametro della larghezza e della profondità delle mie brache nol saprebbe pigliare Euclide. Per ritrovar la traccia della brachetta vi bisognerebbe un bracco da quaglie, overo spedire un commissario delegato e farvi la perquisizione della Vicaria di Napoli. Fortificate poi di stringhe a quattro doppi, talché, se per maledetta disgrazia mi assaltassero le furie della cacarella, prima che io mi fossi dislacciato, il Prior di Culabria avrebbe fatto il corso suo. Due pezze intiere di zendado sono andate a farmi un paio di legami, che mi vanno sbatacchiando pendoloni fino a mezza gamba con la musica del tif, taf.
L'inventor di questi collari ebbe più sottile ingegno di colui che fece il pertugio all'ago. Sono edificati con architettura dorica ed hanno il suo contraforte e il rivellino attorno, giusti, tesi, dritti, tirati a livello, ma bisogna far conto di aver la testa dentro un bacino di maiolica e di tener sempre il collo incollato, come se fosse di stucco. Calzo certe scarpe che paiono quelle di Enea, secondo che io lo vidi dipinto nelle figure d'un mio Vergilio vecchio in tabellis ; né per farle entrare bisogna molto affaticarsi a sbattere il piede, poi che hanno d'ambedue i lati l'apertura sì sbrandellata che mi convien quasi strascinar gli scarpini per terra. Per fettuccie hanno su certi rosoni, o vogliam dire cavoli cappucci, che mi fanno i piedi pelliciutti, come hanno i piccioni casarecci. Sono scarpe o zoccoli insieme insieme e le suole hanno uno scanetto sotto il tallone, por lo quale potrebbono pretendere dell'Altezza, sì che mi potreste dire scabellum pedum tuorum. Paio poi Cibele con la testa turrita, perché porto un cappellaccio lionbrunesco che farebbe ombra a Morocco, più aguzzo della guglia di Sammoguto. Infine tutte le cose qui hanno dell'appontutto : i cappelli, i giubboni, le scarpe, le barbe, i cervelli, infino i tetti delle case. Si possono immaginare stravaganze maggiori?
Vanno i cavalieri tutto il giorno e la notte permenandosi (come si dice qui l'andare a spasso) ; per ogni mosca che passa, le disfide e i duelli volano. Quel ch'è peggio, usan di chiamar per secondi eziandio coloro che non conoscono (eccovi un'altra stravaganza), e chi non vi va è svergognato per poltrone ; onde io tutto mi caco di non avere un giorno ad entrare in steccato per onore e morirmi per minchioneria. Le cerimonie ordinarie tra gli amici son tante e i complimenti son tali che, per arrivare a saper fare una riverenza, bisogna andare alla scuola della danza ad imparar le capriole, perché ci va un balletto prima che s'incominci a parlare.
Le signore non fanno scrupolo di lasciarsi baciare in publico ; e si tratta con tanta libertà che ogni pastore può dire alla sua ninfa comodamente il fatto suo. Circa il resto, per tutto non si vede che giuochi, conviti, festini ; e con balletti e con banchetti continovi si fa gozzoviglia e, come dicono essi, “buona cera”. Vi si ammazzano più bestie in un giorno che la natura non ne produce in un anno, e vi si divora più carne che non n'hanno i macelli di carnevale. Chi nega l'intelligenza e chi non vuol conceder il moto perpetuo, venga qui a mirar per ogni bettola girandole ricamate di polli e spedonate d'arrosti, che, mosse da virtù invisibile, non cessan mai di voltarsi appresso al fuoco. L'acqua si vende e gli speziali tengono bottega di castagne, di cappari, di formaggio e di caviaro. Di frutti (questo sì) ce n'è più dovizia che di creanza in tinello : chi volesse parlar di uve, di fichi o poponi, avrebbe mille torti. Il teschio dell'asino nell'assedio di Gierusalemme fu venduto a miglior mercato, che qui non costa un limone o una melangola. Si fa gran guasto di vino, e per tutti i cantoni, ad ogni momento, si vede trafficar la bottiglia.
La nobiltà è splendida, ma la plebe è tinta in berettino ; bisogna sopra tutto guardarsi dalla furia dei signori lacchè, creature anch'esse stravagantissime e insolenti di sette cotte. Io ho opinione che costoro siano una specie di gente differente da gli altri uomini, verbigratia come i Satiri ed i Fauni. Hanno una Republica a parte e l'autorità loro non cede punto a quella dei lor padroni. In segno della lor Monarchia portano tutti lo scettro in mano. Vanno in volta per la città a guisa di tanti Ercoli Clavigeri con certi bastonacci di libra, né crediate che passeggino i cavalli d'Ambio ; urtano da per entro il fango con disertazione salvatica, smaltando di zacchere le veste dei gentil uomini, e chi l'ha per male scingasi. Ma la pratica di costoro è pericolosa non tanto ai panni, quanto alle borse, alle quali si vuol avere diligente cura, percioche hanno le ugne lunghe uncinate più che i Girifalchi.
Dove lascio la seccagine dei Pitocchi? O che zanzare fastidiose! e a discacciarle vi vuol altro che la rosta o l'acqua bollita. E vi è tanti di questi furfantoni che accattono per le chiese e per le strade con tanta importunità, che sono insopportabili. Dei carrettoni non parlo, che martorizzando del continuo le povere bestie vanno di su e di giù con un fracasso, che par che vada il mondo a sacco. E i carrettieri hanno un certo lor linguaggio cavallino con alcune interiezioni si fatte, che quando gridano, i cavalli gli intendono.
Tutto questo è nulla rispetto alle stravaganze del clima, che conformandosi all'umore degli abitanti non ha giammai fermezza né stabilità. Le quattro stagioni quattro volte al giorno scambiano vicende e per ciò fa di mestieri, che ciascuno sia fornito di quattro mantelli per potergli mutare a ciascun ora, un da pioggia, un da grandine, un da vento ed un da sole. Ma l'importanza sta che qui il sole va sempre in maschera, per imitar forse le damigelle, che costumano anch'elle di andar mascherate. Quando piove è il miglior tempo che faccia, perché allora si lavano le strade ; in altri tempi la broda a la mostarda vi baciano le mani : ed è una diavol di malta più attaccaticcia e tenace che non è il male dei suoi bordelli : dissi male a dir bordello, perché non ci è bordello ; nondimeno (questa è una delle stravaganze principali) per tutto se ne ritrova. In su 'l capo del ponte nuovo, dove sta l'orologio, che suona le ore o il contrapunto, hanno messa in frontespicio eminente la statua della Samaritana, forse (dicono alcuni) per ammaestrar le femine con quel pubblico esempio a non aver ciascuna cinque mariti.
Volete voi altro? In fine il parlare è pieno di stravaganze. L'oro si appella argento. Il far colazione si dice digiunare. Le città son dette Ville, i Medici, i medicini. I vescovi, vecchi. Le puttane, garze. I ruffiani, maccheroni. Il brodo, un Buglione, come se fussero della schiatta di Goffredo. Un buso significa un pezzo di legno. Avere una bota in su la gamba, vuol dire uno stivale. Ultimamente quella faccenda per cui si consuma la roba e la vita si chiama Vitto. Ma tra le stravaganze maggiori fuettere val tanto, quanto dar delle sferzate. Eccovi fatto un sommario delle qualità della Terra e delle usanze di questa Nazione. Di mano in mano vi darò poi delle altre novelle. Apparecchiatemi dunque costì in Turino un bel gabbione da pormici dentro, perché, se non vorrete che io vi scusi beffana alla festa di S. Giovanni nella Balloria, vi potrò almeno servire alla finestra per parrocchetto, o vero sarò buono per esser messo in piazza il giovedì grasso per passatempo de' putti.
Tenetemi in tanto, Signor Scoto mio caro, vivo nella vostra buona grazia, a cui di buon cuore mi raccomando. E fate i miei baciamani al Conte Lodovico d'Agliè, al Conte Lodovico Tesauro ed al nostro Onorato Clareti. 
Parigi, 1615

sabato 7 gennaio 2012

Il paesaggio più bello del mondo

A Noudjoum

Passando este espaço de huma milha das sepulturas, se entra logo nos jardins, quintas, hortas, & pomares, que são os melhores, & os mais viçosos, frescos, & abundantes de frutas, & de fontes, & ribeiras de agoa, que eu vi, dos quaes haverá em espaço de duas légoas ao redor da Cidade mais de dez mil : E cada jardim tem sua casa de pedra, & cal, e seus Christãos, que os cavão, & alimpão, porque os Mouros se sahem todos pelo verão a viver nelles, com suas mulheres, & filhos: de maneyra, que eu tendo visto alguma parte do mundo, atè esta idade de trinta & oito annos de que sou, como foy : No Brasil, indo por terra, do Rio Grande atè a Parahiba, & Pernambuco, & dahi à Bahia, estando em todos os lugares, aldeãs, engenhos, que ha em toda esta costa, de uma parte atè a outra : & na India fuy de Moçambique, as mais das Ilhas, que ha atè Mombaça, & atè a mesma Mourima, & de Mombaça em embarcações daquella costa, corri toda a costa de Melinde, estando em Pate, Ampaza, Elamo, & outras muitas Cidades de mouros atè o cabo de Guardafuy, & entrada do mar Roxo : na India estive em todas as Cidades nossas, & de Mouros, que ha da ponta de Dio atè o cabo de Comori : o estreyto de Ormuz corri todo, sendo por quatro vezes Capitão de Navios, sem haver nelle pequeno lugar, que não visse, estando em Mascate, Barem, em Catifa, & outras muitas fortalezas, & lugares, atè chegar ao cabo delle, & entrar pela Caldea. Fuy a Pérsia com cartas de sua Magestade, que dey ao gram Sopphi Rei della na sua propria mão, vi as melhores Cidades da Pérsia, estando muytos dias em sua Corte, vi algumas Cidades do Mogor, bebi das agoas do Rio Ganges, & do Tigris, & Eufrates, estive na Arabia Feliz, & na Arabia deserta, estive na Ilha de Santa Helena, nas Ilhas dos Açores, & indo cativo a Argel, estive ao remo em uma Galé de Turcos, onde vi algumas Cidades de Berbéria, como foy Bogia, Bona, Tabarca (onde pescão o coral) Bizerta, & Tunes, em porto Farim (donde foy Cartago) vi muytissimas Ilhas, em Levante, vi, & passei em redondo por toda a Ilha de Cardenha, de Corcega, & pelas de Malhorca, & Menorca, entrey, & sahi pelas bocas de Bonifacio, estive em Gaeta, no reino de Napoles, em Civitaveja, & em toda a praya Romana, em Villa França, & em Niza, no Ducado de Saboya, em França, passey duas vezes o golfo de Leão, & depois de resgatado passei a Itália, corri toda a Toscana, & estado do gram Duque, estando em Florença, em Piza, em Liorne, na Republica de Luca, vim a Genova, a Sahona, vi todo o Condado de Catalunha, o Reyno de Aragão, o de Castella, & este de Portugal : mas atègora não vi terra mais fresca de jardins, mais abundante de frutas, mais barata de mantimentos, mais copiosa de fontes, nem de clyma mais temperado, nem mais rica de dinheyro (porque de todo o mundo entra aqui, & para nenhuma parte sahe) do que he a Cidade de Argel, que permita o Ceo seja ainda desta Coroa.

Memoravel relaçam da perda da nao Conceiçam que os Turcos queymáraõ à vista da barra de Lisboa; varios successos das pessoas, que nella cativàraõ. E descripçaõ nova da Cidade de Argel, & de seu governo; & cousas muy notaveis acontecidas nestes ultimos annos de 1621. até 1626. Por Joam Carvalho Mascarenhas, que foy Cativo na mesma Nao. - Em Lisboa, na Officina de Antonio Alvares. Anno de 1627.
CAPITULO XIIDas hortas & quintas que estão ao redor da Cidade
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Dintorni di Algeri, XVII secolo

Oltre questo spazio di un miglio di sepolture, si entra subito nei giardini, nelle proprietà di campagna, negli orti e nei frutteti che sono i migliori, i più lussureggianti, freschi e ricchi di frutta, di fonti, di corsi d'acqua che io abbia mai visto; ce ne devono essere, nello spazio di due leghe attorno alla città, più di diecimila: ed ogni giardino ha la sua casa in pietra e calce, e dei Cristiani che lo vangano e tengono pulito perché i Mori d'estate lasciano la città per venirci a vivere con mogli e figli, come non ho mai visto in nessuna parte del mondo, fino a questa età di trentotto anni che è attualmente la mia, vale a dire: in Brasile, dove via terra sono andato dal Rio Grande fino a Parahiba e a Pernambuco, e da lì a Bahia, visitando, da un capo all'altro, tutte le località, villaggi, piantagioni di tutta questa costa; sono stato in India, dal Mozambico alla maggior parte delle isole che ci sono fino a Mombasa, fino allo stesso paese dei Mori, e da Mombasa ho percorso, su imbarcazioni di quella costa, tutta la costa di Malindi, passando per Pate, Ampaza, Elamo e molte altre città dei Mori fino al capo Guardafui e all'ingresso del Mar Rosso: in India sono stato in tutte le città, nostre e dei Mori, dalla punta di Diu fino al capo di Comorin: ho percorso tutto lo stretto di Ormuz, per quattro volte in qualità di capitano di nave, senza che vi sia la più piccola località che io non abbia visto, passando per Mascate, il Barhein, Al-Qatif e molte altre fortezze e luoghi, coprendoli tutti, fino ad entrare in Caldea. Sono stato in Persia, con lettere di Sua Maestà che ho rimesso nelle mani stesse del gran Sufi, che ne è il re, ho visto le migliori città della Persia, restando molti giorni alla sua corte, ho visto alcune città del Mogol, ho bevuto dalle acque del fiume Gange, del Tigri, dell'Eufrate, sono stato nell'Arabia Felix, nell'Arabia deserta, sono stato sull'isola di Sant'Elena, sulle isole Azzorre, diventando prigioniero ad Algeri, sono stato al remo in una galea di Turchi, dove ho visto alcune città di Barberia, come sono stato a Bugia, Bona, Tabarca (dove ho pescato il corallo), Biserta, Tunisi, a porto Farim (dove c'era Cartagine) ho visto moltissime isole, a Levante, ho circumnavigato tutta l'isola di Sardegna, quella di Corsica, sono entrato a Maiorca e Minorca, sono uscito attraverso le bocche di Bonifacio, sono stato a Gaeta, nel Regno di Napoli, a Civitavecchia, in tutta la spiaggia romana, a Villafranca, a Nizza, nel Ducato di Savoia, in Francia, sono passato due volte nel golfo di Lione, poi, riscattato, sono passato in Italia, ho percorso tutta la Toscana, lo stato del Granduca, stando a Firenze, a Pisa, a Livorno, nella Repubblica di Lucca, ho visto Genova, Savona, tutta la Contea di Catalogna, il regno di Aragona, quello di Castiglia, a est di quello del Portogallo: ma finora non ho mai visto terra più fresca di giardini, più ricca di frutta, più generosa di cibo, più abbondante di sorgenti, né di clima più temperato, né più ricca in denaro (perché tutti vi entrano, ma non partono per nessun altro paese) di questa città d'Algeri. Che il Cielo permetta che un giorno appartenga alla nostra Corona.


Ya viene el cativo
Con todas las cativas.
Dientro de ellas
esta la blanca niña.
Ni amanecía,
Ni era de día,
Cuando la blanca niña
Cantava su manzia.
Oh, qué campos verdes,
O campos de olivas,
onde mi madre Gracia
lavava y espandía.
Oh, qué pino hermozo,
onde con mi espozo.
Baxo su solombra,
Dormíamos con gozo.
Oh, qué tombas blancas,
oh tombas de avuelos.
Paso sobre ellos
como paxaro en el vuelo.
Avrix la mi madre
las puertas del palacio,
qu'en lugar de hija
Nuera yo vos traigo.