venerdì 30 settembre 2011

Italien hat der Türkei den Krieg erklärt


München, Sonnabend, d. 30. September 1911

Italien hat der Türkei den Krieg erklärt. Seit 3 oder 4 Tagen erst hörte man von der Tripolis-Affaire, die freilich schon seit einer Reihe von Jahren in der Luft hängt. Nun ist die ungeheure Tatsache akut. Schon liest man von zerstörten Schiffen, natürlich auch vom Jubel der italienischen Bevölkerung. Man muß es der italienischen Regierung zugestehen: sie hat unglaublich schnell gearbeitet. Die Vorbereitungen waren ganz im Stillen getroffen. So hat auch der Generalstreik, der von der revolutionären Arbeiterschaft inszeniert werden sollte, versagt. Er konnte nicht präpariert werden. Zehntausend und Aber-Zehntausende junge zeugungsfähige Menschen werden gemordet werden um kapitalistischer Spekulation willen und die Kulturwerte beider Länder werden unwiederbringlichen Schaden leiden. – Aber die Begeisterung für den Krieg, der bei aller Schauerlichkeit so sehr nach Kinderspiel aussieht, wird neu gefacht werden und das groteske Schauspiel, daß sich ganze Völkerteile zu Automaten dressieren lassen, und auf Kommando marschieren und schießen und sich totschießen lassen, wird sich immer wieder erneuern. – Dem jetzigen Krieg, ganz real betrachtet, möchte ich doch einen für die Türken günstigen Ausgang wünschen. Nur eine besiegte europäische Großmacht wäre imstande, den imperialistischen Unfug aufzuhalten. Trotz der numerischen und armatorischen Überlegenheit Italiens ist der Sieg der Türken leicht möglich, dann nämlich, wenn genügend revolutionäre Kräfte im italienischen Heer wirksam sind und ganze Truppenteile durch Desertion, Offiziersmorde und Sabotage gegen den Irrsinn ihrer Gängler vorgehn, wenn in den Großstädten Italiens energisch mit wirtschaftlichen Kämpfen gestört wird und wenn die Türken aus dem Kriege eine moslemitische Angelegenheit machen. Die Eingeborenen in Tripolis werden ohnehin auf Seiten der Türken kämpfen, sodaß die Italiener, wenigstens im Landkriege sehr großen Schwierigkeiten gegenüberstehn werden. 1877 siegte die Türkei über das große Rußland. Vielleicht gelingt’s ihr 1911, Italien zu schlagen. Den Preis ihres Sieges werden ihr die Mächte wie damals ja doch rauben, aber das geht unsereinen am Ende wenig an. Wenn nur der Horror vor dem Kriege ganz Europa ins Gebein fährt. Dann braucht uns auch die widerliche Marokko-Politisiererei nicht mehr als ewige Gefahr auf den Nerven zu liegen.
Aus meinem Privat-Erlebnissen: Ich sprach im Café Herrn Robert Heymann, der wieder künstlerischer Leiter des „Kleinen Theaters“ ist. Der Direktor ist ein gewisser Poppert, den ich durch ihn kennen lernte. Die Herren wollen mich engagieren. Wir einigten uns auf ein Gastspiel von 8 Tagen mit 25 Mk Abendgage. Ich muß es schon machen, weil ich dringlichst einen neuen Anzug brauche. Morgen ist der Erste. Mir graut vor der Rechnung.



Monaco, domenica 30 settembre 1911

L'Italia ha dichiarato guerra alla Turchia. È solo da 3 o 4 giorni che si sente parlare dell'affare di Tripoli, che però era nell'aria già da diversi anni. Ora l'immensa questione si fa seria. Si legge già di navi distrutte e naturalmente anche del tripudio della popolazione italiana. Bisogna riconoscerlo al governo italiano: ha lavorato in modo incredibilmente rapido. I preparativi sono stati adottati in completo silenzio. Così anche lo sciopero generale, che avrebbe dovuto essere messo in atto dagli operai rivoluzionari, non è riuscito. Non ha potuto essere preparato. Decine e decine di migliaia di giovani in età riproduttiva vengono assassinati per volontà della speculazione capitalistica ed i valori culturali di entrambi i paesi subiranno danni irreversibili. Ma l'entusiasmo per la guerra, che sembra così tanto simile ad un gioco infantile in ogni suo orrore, verrà ricomposto e lo spettacolo grottesco per cui interi settori della popolazione si lasceranno trasformare in robot marciando, sparando e lasciandosi uccidere a comando, continuerà a rinnovarsi. Vorrei però augurare all'attuale guerra, considerata realisticamente, un esito favorevole per i turchi. Solo una grande potenza europea sconfitta sarebbe in grado di porre freno alle cazzate imperialistiche: nonostante la superiorità numerica e bellica italiana, è possibile che la Turchia vinca, in particolare se ci saranno abbastanza forze rivoluzionarie attive nell'esercito italiano e se interi reparti agiranno con diserzioni, uccisioni di ufficiali e sabotaggi contro la follia dei loro superiori, se nelle grandi città italiane ci si opporrà energicamente con lotte economiche e se i turchi trasformeranno la guerra in una questione musulmana. La popolazione di Tripoli combatterà comunque dalla parte dei turchi, per cui gli italiani si dovranno confrontare con grandi difficoltà, almeno nella guerra di terra. Nel 1877 la Turchia vinse contro la grande Russia. Forse nel 1911 riuscirà a battere l'Italia. Il premio della vittoria le sarà sottratto, come allora, dalle grandi potenze, ma questo alla fine ci riguarda poco. Se solo l'orrore per la guerra pervadesse tutta l'Europa, allora l'odiosa altalena politica in Marocco non ci infastidirebbe più come un costante pericolo.
Dalle mie esperienze private: ho parlato al bar col signor Robert Heymann, che è ridiventato il direttore artistico del "Piccolo Teatro". Il direttore è un certo Poppert, che ho conosciuto tramite lui. I signori vogliono scritturarmi. Ci siamo accordati per 8 giorni di rappresentazioni ad un cachet di 25 marchi a serata. Devo mettermici perché ho urgente bisogno di un vestito nuovo. Domani è il primo. Ho paura del conto.

Erich Mühsam, Diari

Un esempio di tripudio della stampa nell'Italia giolittiana: la prima pagina de La Stampa del 29 settembre 1911.
Una pagina dedicata ad Erich Mühsam su un sito tedesco sul campo di concentramento di Oranienburg.

giovedì 29 settembre 2011

Passando per Štanjel




Fiducia (fi-dù-cia) s.f. (pl. -cie). 1. Attribuzione di potenzialità conformi ai propri desideri, sostanzialmente motivata da una vera o presunta affinità elettiva o da  uno sperimentato margine di garanzia.
Devoto-Oli

martedì 27 settembre 2011

Passando per rue Saint-Honoré

Di cervel dentro un pugno io sto, e divoro
tanto, che quanti libri tiene il mondo
non saziâr l'appetito mio profondo:
quanto ho mangiato! e del digiun pur moro.
D'un gran mondo Aristarco, e Metrodoro
di più cibommi, e più di fame abbondo;
disïando e sentendo, giro in tondo;
e quanto intendo più, tanto più ignoro.
Tommaso Campanella

Non mi è facile scrivere e nemmeno parlare di Parigi: è una chiara questione di sovraesposizione. Probabilmente tendo, più o meno inconsapevolmente, ad evitarlo proprio. Tuttavia, lasciando semplicemente passare il tempo, la spoglio e la rivesto di panni miei secondo il casuale svolgersi dei miei incontri presenti e passati, concreti ed astratti, reali e immaginari. Ne stanno così lentamente nascendo delle micromappe personali. Uno dei punti da cui si irradia una delle mie micromappe si trova tra la rue e il marché Saint-Honoré: profuma di Calabria, di ostinazione e di sogni anche se, fin dai tempi di Michelet, il profumo era già in gran parte svaporato come un lontano ricordo.
L'église n'avait aucun monument important, sauf le tombeau de Campanella, une sorte de Robespierre moine, un Babeuf ecclésiastique, qui était venu s'y réfugier au dix-septième siècle.
On disait que le cardinal de Richelieu, quand il se sentait mollir et risquait d'être homme, venait là et reprenait, près du Calabrais farouche, quelque chose du bronze italien.
Les modernes Jacobins, qui s'assemblaient dans cette église et n'y étaient que locataires, avaient laissé ces vieux tombeaux. Ils étaient là pèle-mèle avec les morts. D'autres morts, les derniers moines du couvent, assistaient au club (en 89 et 90), comme les derniers Cordeliers au club qui se tenait chez eux. Tout cela composait un ensemble bizarre qui avait pour toujours saisi les têtes, rempli les souvenirs, les imaginations: le puissant genius loci, transformé par la Révolution, vivait là, on le sentait. Quis Deus? incertum est; habitat Deus.
Jules Michelet, Histoire de la révolution française, tome 2 : 1792-1794
Da quando so che Campanella è lì, ci passo più volentieri*, per quella parte del primo arrondissement. E niente cambia o potrebbe cambiare la mia sensazione, neanche ignorarne il punto esatto, neanche eventualmente venire a sapere di qualche sua successiva traslazione. Ormai la molla del ricordo, fedele o non fedele, sghembo o non sghembo che sia, è già scattata.

*Come mi succede con il quai François Mitterrand, che attraverso con un sorriso dal giorno in cui G. mi ha fatto notare l'improbabilità di trovare un giorno a Roma un Lungotevere Oscar Luigi Scalfaro o l'effetto che farebbe se si dovesse verificare l'improbabile eventualità.

‘Gather your marginals, Mr. Specific

‘Gather your marginals, Mr. Specific. The end
is nigh. Your vanguard of vanishing points has vanished
in the critical night. We have encountered a theory
of plumage with plumage. We have decentered our ties. You must quit
these Spenglerian Suites, this roomy room, this gloomy Why.
Never again will your elephants shit in the embassy.
Never again will you cruise through Topeka in your sporty two-door coffin.
In memoriam, we will leave the laws you’ve broken broken.’
On vision and modernity in the twentieth century, my mother wrote
‘Help me.’ On the history of structuralism my father wrote
‘Settle down.’ On the American Midwest from 1979 to the present, I wrote
‘Gather your marginals, Mr. Specific. The end is nigh.’
I wish all difficult poems were profound.
Honk if you wish all difficult poems were profound.

Ben Lerner
The Lichtenberg Figures, 2004


"Raccogli le tue note a margine, sig. Precisino. La fine
è prossima. La tua avanguardia di punti di fuga è fuggita
nella notte critica. Abbiamo incontrato una teoria
del piumaggio con piumaggio. Abbiamo decentrato le nostre cravatte. Devi lasciare
queste suite spengleriane, questa stanza spaziosa, questo cupo Perchè.
Mai più i tuoi elefanti cagheranno nell'ambasciata.
Mai più girerai per Topeka nella tua bara a due porte sportiva.
In memoriam, lasceremo violate le leggi che hai violato."
Su visione e modernità nel Ventesimo secolo, mia madre ha scritto
"Aiutatemi." Sulla storia dello strutturalismo, mio padre ha scritto
"Sistematevi." Sul Midwest americano dal 1979 ad oggi, io ho scritto
"Raccogli le tue note a margine, sig. Precisino. La fine è prossima."
Vorrei che tutte le poesie difficili fossero profonde.
Date un colpo di clacson se volete che tutte le poesie difficili siano profonde.

I’m going to kill the president

I'm going to kill the president.
I promise. I surrender. I'm sorry.
I'm gay. I'm pregnant. I'm dying.
I'm not your father. You're fired.
Fire. I forgot your birthday.
You will have to lose the leg.
She was asking for it.
It ran right under the car.
It looked like a gun. It's contagious.
She's with God now.
Help me. I don't have a problem.
I've swallowed a bottle of aspirin.
I'm a doctor. I'm leaving you.
I love you. Fuck you. I'll change.

Ben Lerner
The Lichtenberg Figures, 2004


Ucciderò il presidente.
Lo prometto. Mi arrendo. Mi dispiace.
Sono omosessuale. Sono incinta. Sto morendo.
Non sono tuo padre. Sei licenziato.
Fuoco. Mi sono dimenticato del tuo compleanno.
Perderai la gamba.
Lei se l'è voluto.
Si è infilato proprio sotto l'auto.
Sembrava una pistola. È contagioso.
Lei è con Dio, ora.
Aiutami. Non ho un problema.
Mi sono scolato una bottiglia di aspirina.
Sono un medico. Ti sto lasciando.
Ti amo. Vaffanculo. Cambierò.

venerdì 23 settembre 2011

Cosa dà il neutrino ai kolchoziani di Ryazan?

"Professore, una domanda. Cosa dà il neutrino ai kolchoziani di Ryazan?"
Puntualmente questa domanda, o un'altra simile veniva rivolta a Bruno Maximovic nel corso delle lezioni o conferenze che teneva anche fuori dell'università, a gruppi di giovani, di militari, di operai. E Bruno non si tirava indietro: "Per ora, il neutrino non dà nulla ai kolchoziani di Ryazan e a chiunque altro. Forse" aggiungeva ironico "rende soltanto a me che me ne occupo da tanti anni. Io, grazie al neutrino, sono diventato persino accademico".

Miriam Mafai, Il lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l'URSS, Mondadori, 1992

martedì 20 settembre 2011

Une vie ordinaire

Puisque je suis né j'en profite pour ne pas mourir et je m'embarque dans mon poème à destination inconnue
Toi qui as trente ans quand j'en ai 20 000 et qui me découvres ce soir en déchiffrant ces lettres préhistoriques
Tu sauras qu’un jour de printemps au fond de ces vieux âges d’Europe Albert-Birot de Paris a longuement pensé à toi 
Pierre Albert-Birot, Poésie 1945-1967



On m'a bien dit que j'étais né
mais de si drôle de façon
je me méfie des gens qui m'aiment
sans trop pouvoir faire autrement
bref j'attends confirmation
de cet événement suspect
rien ne m'ayant encore donné
l'enviable sensation
d'être tout à fait là sur terre
plutôt que dépendant d'un ciel
qui change souvent de chemise
bien plus que moi.
N'importe allons
Je suis pour le discours humain
Je suis pour la moitié de pain
Le désespoir c'est de se taire
Et si mon langage vous pèse
quoique si léger si fuyant
rien de plus facile à votre aise
que de jeter ce livre au vent.

Georges Perros
Une vie ordinaire, 1967


Mi è stato proprio detto che ero nato
ma in modo così strano
diffido della gente che mi ama
senza troppo poter fare diversamente
insomma attendo conferma
di questo evento sospetto
perché niente mi ha ancora dato
l'invidiabile sensazione
di essere effettivamente qui sulla terra
piuttosto che dipendente da un cielo
che si cambia spesso di camicia
molto più di me.
Fa niente andiamo
Sono per il discorso umano
Sono per la metà del pane
La disperazione è tacere
E se il mio linguaggio vi pesa
pur se leggero e sfuggente
niente di più semplice per il vostro piacere
che gettare questo libro al vento.

lunedì 19 settembre 2011

Il gioco di tradurre la pioggia in versi (e Omer in Omero)

Siccome le nostre fonti ci dicono che oggi, 19 settembre, il nostro esercito si sta ridisponendo nel teatro di guerra settentrionale e la puntata isolata di una divisione di fanteria russa è stata respinta sanguinosamente e che domani, 20 settembre, la posizione sul fronte occidentale resterà nel complesso immutata (Feldblatt, 20 e 21.9.1914 - non stavo ovviamente scherzando, quando ho accennato a letture di rapporti dal fronte e bollettini di guerra), e quindi possiamo dormire sonni tranquilli, allora ne approfitto per ricordare che dei versi possono nascere anche da gocce di pioggia, anche durante la guerra: è così che Danilo Kiš incontrò per la prima volta la poesia.
Quelle sere nascevano dal silenzio, da cui tutto prende avvio.
Per cominciare, mia madre ed io restavamo a lungo silenziosi ad ascoltare la storia che raccontava la pioggia; erano dei lunghi versetti ritmici pronunciati in un sol fiato, poi erano strofe intere di giambi o dattili, tutto un lungo poema epico-lirico secondo lo stile di Omer e Merima*, un poema sulle streghe che spiano, pronte all'imboscata all'angolo del caminetto, sulla fata che passa di là tutta avvolta da lampi, il viso velato, tutta vestita di bianco, sul coraggioso giovane che la porterà in sella all'ultimo minuto, sul lago dei cigni, sugli zingari che brandiscono i loro coltelli ed estraggono dal fango delle monete d'oro insanguinate.
Questi racconti, ripetuti di sera in sera, di autunno in autunno, la ballata del principe stregato e della fata cattiva, si succedevano senza fine, portati di tetto in tetto, di finestra in finestra, cancellati e dispersi dal vento, subivano prodigiose metamorfosi, ma conservavano, nelle loro innumerevoli versioni, la loro trama lirica complicata, piena di avventure pericolose e di un amore che alla fine trionfa. E alle volte, mutilata dal vento e dall'oblio, la trama lasciava  apparire dei pezzi mancanti, delle righe troncate, nei punti dove una volta c'erano stati dei versi d'amore o la smagliante descrizione del re, del suo destriero, delle sue armi e dei suoi paramenti. È vero che, non comprendendo del tutto la lingua originale, mia madre ed io traducevamo liberamente qualche verso, confidando a volte solo nell'assonanza delle parole, dirottati dagli arcaismi che non significavano più nulla o che non avevano più il senso originario; le nostre traduzioni erano certamente piene di errori e, quando le comparavamo, divergevano in modo ridicolo. La nostra traduzione era identica solo nel ritornello; erano dei lunghi giambi con la cesura dopo il quinto piede e, se i miei ricordi sono esatti, conservavano l'onomatopea dell'originale, tutte le sue ingenue allitterazioni, le sue consonanti fricative postalveolari e occlusive. E, ovviamente, il ritornello parlava d'amore. Del giovane principe galoppante attraverso la notte e il temporale sul suo cavallo pomellato, portando in sella la pallida fata fradicia fino alle ossa.
Ma la sera in cui tutto cominciò eravamo già sazi di racconti, spossati dalla fame e nervosi. Mia madre era divenuta visibilmente gelosa e sospettosa, perché cominciavo ad interpretare troppo liberamente certi versi e ad identificarmi pericolosamente a volte con i principi ed i re, a volte con il bello zigano (quando aveva il ruolo dell'eroe innamorato), perdendo tutte le remore imposte dalla morale e dalla religione.
"D'altra parte, mio caro, con che cosa rima tutto questo?" mi domandò improvvisamente mia madre, senza smettere di agitare i suoi ferri da maglia che si incrociavano come gladi di minuscoli cavalieri condannati a battersi eternamente in duello per vincere la maglietta di qualche bellezza lillipuziana.
Evidentemente, le mie esagerazioni liriche la inquietavano. 
Danilo Kiš, Giardin, cendre (Bašta, pepeo, 1965), traduit du serbo-croate par Jean Descat, Gallimard, 1971
*Anche Omer i Mejrema o Smrt Omera i Merime (La morte di Omer e Merima), i protagonisti di una ballata popolare serba, non esattamente equivalenti, come suggerito dalla traduzione inglese del romanzo di Kiš, ad Omero e Mérimée (sic), quanto piuttosto a Romeo e Giulietta, amore contrastato e morte inclusi:

Dvoje su se zamilili mladih;
Omer momce, Mejrima djevojce,
U proljece kad im cvjeta cvijece,
Kad im cvjeta zumbul i karanfil;
Upazi ih jedna mala straza,
Mala straza Omerova majka...


In primavera i giacinti fiorivano;

fiorivano i garofani per i due giovani amanti,
Omer il ragazzo, Merima la ragazza,
ma una piccola sentinella li spiava;
la madre di Omer, sempre guardinga...

Dann aber sah ich die Musikerhunde

Paolo Conte, Non sense

Dann aber sah ich die Musikerhunde, und von der Zeit an hielt ich es für möglich, kein Vorurteil beschränkte meine Fassungskraft, den unsinnigsten Gerüchten ging ich nach, verfolgte sie, soweit ich konnte, das Unsinnigste erschien mir in diesem unsinnigen Leben wahrscheinlicher als das Sinnvolle und für meine Forschung besonders ergiebig. So auch die Lufthunde.

Franz Kafka, Forschungen eines Hundes, 1922

Poi però vidi i cani musici e da quell'istante lo considerai possibile, nessun pregiudizio limitava la mia capacità di comprendere, correvo dietro alle voci più insensate, le seguivo fin dove mi era possibile, le cose più insensate in questa vita insensata mi sembravano più probabili delle cose sensate e particolarmente utili alla mia ricerca. Così anche i cani aerei.

Franz Kafka, Indagini di un cane, 1922

domenica 18 settembre 2011

Аладдин

Помутневший жестяной контейнер из-под молока
Содержит письмо Израиля Лихтенштейна,
Написанное в 1942 году, естественно.
Естественно, в Варшавском гетто
За две недели до его отправления в Треблинку.
Естественно.

Письмо Гласит:
Я принимаю забвение для себя и своих близких.
Моя жена (имя которой упоминать бессмысленно,
Пусть отныне будет она без-ымя-нна и без-лика)
Готова стать жемчужной ниткой зубов,
Прядью каштановой в матрасе, тенью.

Но нам бы было очень желательно,
Чтобы нашедшие эту жестянку с письмом помнили про нашу дочь — Маргалит.
Ей сегодня исполнилось двадцать месяцев.
О, это необыкновенный ребёнок!
Как, я вам доложу, она хорошо говорит

Гавалит гавалит гавалит
Gavalit Gavalit Gavalit

Я обнимаю забвенье
Но я вас говорю:



Полина Барскова


Aladino

Un bidone di latta opaco per il latte
contiene la lettera di Israel Lichtenstein,
scritta nel 1942, naturalmente.
Naturalmente, nel ghetto di Varsavia
due settimane prima della sua partenza per Treblinka.
Naturalmente.

La lettera recita:
Accetto l'oblio per noi e i nostri familiari.
Mia moglie (il cui nome non ha senso nominare,
che d'ora in poi resti senza nome e senza volto)
è pronta a diventare un filo di perle di denti,
una matassa di castagne in un materasso, un'ombra.

Ma desidereremmo molto
che quelli che trovano questo bidone con la lettera ricordassero nostra figlia: Margalit.
Ha compiuto venti mesi oggi.
Oh, è una bimba eccezionale!
Vi riporto quanto bene parla

Pala pala pala
Gavalit Gavalit Gavalit

Abbraccio l'oblio
ma vi dico:



Polina Barskova

говорить (govorit', pronunciato gavarìt) significa parlare.


Israel Lichtenstein (in polacco scritto piuttosto Lichtensztajn) fu uno dei primi a sotterrare i documenti di quello che è noto come l'archivio Oneg Shabbat o Ringelblum (da Emanuel Ringelblum)Sua moglie si chiamava Gela Seksztajn ed era una pittrice. I suoi dipinti sono stati conservati nel medesimo archivio. Margalit e Gela si trovano ritratte in una fotografia qui. Nel suo testamento, Israel ricorda così la figlia:
Vorrei che ci si ricordasse della mia piccola figlia. Margalit ha oggi 20 mesi. Conosce la lingua yiddish alla perfezione e la parla eccellentemente. All'età di 9 mesi, si è messa a parlare yiddish in modo perfettamente chiaro. Intellettualmente, è già piuttosto al livello di un bambino di 3 o 4 anni. Non cerco di vantarmene.
L'archivio Oneg Shabbat ha restituito anche molte poesie.

sabato 17 settembre 2011

Dizionario di tutte 'e cose - P come Poetici e Prosaici

Nel febbraio del 1911, Ernesto Ragazzoni, all'epoca corrispondente da Londra per La Stampa, visita una mostra dedicata all'infanzia e ne riporta sul giornale le impressioni ricavate citando, col suo noto entusiasmo per l'estemporaneo, alcune frasi di bambini ivi esposte. Due offrono una definizione delle stelle:

Le stelle sono gli occhi della luna.

Le stelle sono lampade buone che sono andate in paradiso.

Corrispondenza particolare di Ernesto Ragazzoni da Londra, La Stampa, 12.2.1911, pag. 3

Nella mia famiglia, che io sappia, non ci sono mai stati poeti, nemmeno tra i bambini. Alcuni di noi, al più, le poesie le leggono, ma siamo tutti tendenzialmente prosaici, fin dall'infanzia. Ecco due esempi tratti dai miei ricordi personali e dai ricordi familiari.

Laura, nata nel Veneto orientale, viene per la prima volta a Trieste. Ha tre anni. Passeggiamo sulle rive cittadine. Lei cammina silenziosa guardandosi in giro, poi si avvicina al bordo della banchina, dirige lo sguardo verso l'orizzonte marino alzando vistosamente il naso per aria, si ferma ed esclama:

'A stessa spussa del mar de Jeso'o.

Emiliano ha a malapena un anno di più, quando visita San Gimignano con i suoi. È la sua prima esperienza da turista. Fuori da una chiesa, la sua attenzione viene catturata da una fitta serie di bandiere multicolori appese al muro esterno. Intravvede un movimento di tonache al di là del portale, nell'ombra degli interni. Si mette allora a correre verso il portale. Raggiunta la soglia, urla:

Prete, prete, quanto costano queste bandiere?

giovedì 15 settembre 2011

Dizionario di tutte 'e cose - N come Notizie del giorno

LE NOTIZIE DEL GIORNO secondo i giornali e i telegrammi ufficiali

Intorno a Leopoli, dopo cinque giorni di lotta asperrima, le forze austriache respinsero i russi. I telegrammi ufficiali comunicano che presso Gradek furono fatti diecimila prigionieri e conquistati numerosi cannoni.
(...)
Nella Prussia orientale la situazione è ottima. L'esercito russo fugge in piena dissoluzione.

Il papa parla di convocare un congresso per la pace.

Il presidente degli Stati Uniti penserebbe di farsi intermediario tra le Potenze contendenti.

Hindenburg sarebbe già in Russia.

Poincaré assicura Wilson che le accuse mosse dai tedeschi al modo di combattere dei francesi sono ingiustificate, e che i francesi non si sono mai serviti di palle dum-dum.


LA GUERRA

Berlino, 4. (Corr. Bur. - Ufficiale). Il grande Stato maggiore generale comunica in data di ieri:
Nel settore occidentale le operazioni - sulle quali non si possono ancora pubblicare i particolari - hanno portato ad una nuova battaglia, che si presenta favorevole. Le notizie a noi sfavorevoli propalate con tutti i mezzi dagli avversari, sono false.

Dreyfus rientra nell'esercito
Alfredo Dreyfus, il protagonista della grande tragedia dell'Isola del Diavolo, ha chiesto - a quanto scrive la "Presse" - di essere riamesso (qui ed altrove: sic) nell'esercito attivo. Suo figlio, che era sottufficiale, fu promosso ufficiale per il valore da lui spiegato in un combattimento a Charleroi.


DAI GIORNALI DALL'ESTERO

I giudici e gli avvocati di Bruxelles in isciopero?
Si ha da Rotterdam che i giudici e gli avvocati di Bruxelles si sono messi in isciopero, perché le udienze non si possono svolgere liberamente avendo il maresciallo von der Goltz fatte collocare dei cannoni di fronte al palazzo di giustizia, ciò che spaventa la gente che vorrebbe assistere ai dibattimenti.

La neutralità dell'Italia
Il pensiero d'un deputato socialista
Il deputato socialista d'Alessandria parlando dell'atteggiamento del partito socialista d'Italia di fronte alla guerra, fra l'altro nota:

















Quanto al contegno del nostro paese di fronte alla guerra, esso è riassunto in una parola: neutralità.


NOTE SPARSE

9000 sarti disoccupati
In un'adunanza tenuta a Vienna dai tagliatori sarti, il deputato Smitka comunicò che in seguito alla guerra nell'Organizzazione dei sarti vi sono 9000 disoccupati. Il direttore dei Consorzi, Heller, comunicò che fra breve vi saranno molte forniture militari, sicchè un buon numero di sarti potrà trovar lavoro.

Gambe pericolose
Il giornale inglese "Manchester Guardian" rileva che quasi tutti i soldati scozzesi che ritornano feriti sono colpiti alle gambe e dice che ciò deriva dal fatto che i polpacci nudi degli scozzesi (illeggibile) il costume nazionale, luccicano al sole, offrendo così un facile bersaglio ai nemici.


TEATRI E ARTE

Fenice
Ieri un piccolo manifestino a penna annunciava che si sarebbero proiettate le prime cinematografie della guerra. Come si può immaginare, questo annunzio fece accorrere al teatro una folla enorme. Le proiezioni, infatti, riuscirono interessantissime. Si videro gli effetti dei famosi mortai da 42, le devastazioni di Liegi, l'occupazione di Brusselles, le truppe di passaggio a Vienna, ed altri quadri della massima attualità. Si ripresentò anche il bravissimo imitatore Coré Saroclé.
Oggi ancora le cinematografie della guerra, Coré Saroclé, inoltre il duo Soeri.


PUBBLICITÀ

Fabbrica birra S.A. Trieste ADRIA
OTTIMA FRA LE BIRRE

Trattoria "Alle sedi riunite"
via Madonnina 15.
OTTIMA CUCINA - VINI GENUINI
Per ora nessun aumento sul prezzo della birra.


Note (spero il più possibile) inutili
La selezione è stata abbastanza dura.
Il Lavoratore era un giornale socialista di Trieste.
Trieste, nel 1914, era una città dell'Austria.
Gli spazi bianchi non sono segno né di un mio crollo sulla tastiera né di disattenzione da parte del tipografo né del tempo, ma della censura austriaca.
L'Austria era in guerra, l'Italia non ancora.
Leggendo i bollettini di guerra e le notizie dal fronte, si capisce molto meglio che il ritratto di Sc'vèik è un ritratto fedele della realtà, e niente affatto di un personaggio inventato.
Mio nonno Mario, nel settembre del 1914, aveva 7 mesi, i miei nonni materni non erano ancora nati.
Tra i 9 decessi annunziati dal giornale triestino il 13 settembre del 1914, 3 sono di bambini. Tra i 5 decessi annunziati il 14 settembre, 1 è di un bambino.
Il Fenice è esistito fino alla mia adolescenza: vi ho visto A view to a kill. E Shining. E molto altro.
Sto leggermente riorientando la scelta dei quotidiani di lingua italiana da leggere assolutamente ogni giorno.
In tutto questo tempo, The Guardian non è cambiato di una comma.
Ho ancora da fare i compiti di cinese per domani.
Avanti così, comunque: la situazione è ottima.

martedì 13 settembre 2011

Nel vortice del tempo raggelato

L'assedio di Leningrado, che iniziò settant'anni fa, ha trovato in letteratura testimonianze impressionanti.

Nessun'altra città europea ha dovuto soffrire nella Seconda Guerra Mondiale così come l'assediata Leningrado. Morì circa un milione di persone. Il ricordo dell'assedio è rimasto sbiadito in Occidente. La letteratura russa invece ne offre ampia testimonianza, ma solo poche opere sono anche esteticamente fedeli al disastro.

Di Oleg Jur'ev

L'8 settembre del 1941 le truppe tedesche e finlandesi completarono l'accerchiamento della seconda città più grande dell'Unione Sovietica, Leningrado. La metropoli di tre milioni di abitanti fu isolata da tutte le vie di rifornimento. Era l'inizio del blocco destinato a durare 872 giorni, uno dei maggiori crimini della storia moderna. Le persone morirono principalmente di fame, ma anche per il freddo e per i colpi dell'artiglieria: la stima del numero delle vittime è di 1,1 milioni di persone. Il disastro non fu solo messo in conto dai tedeschi, ma anche voluto e pianificato (a questo si aggiunse, da parte sovietica, un'evacuazione organizzata in modo pessimo e in parte vessatoria secondo punti di vista politici).

Il blocco nella coscienza
Così recitava l'ordine segreto di Hitler n. I-a 1601/41 del 22 settembre 1941 «Il futuro della città di San Pietroburgo»: «1. Il Führer ha deciso di cancellare la città di Pietroburgo dalla faccia della terra. Dopo la vittoria sulla Russia Sovietica non ci sarà il benché minimo motivo per cui questa grande città debba continuare ad esistere. Anche la Finlandia ha dichiarato di non essere interessata alla continuazione dell'esistenza di questa città situata ai suoi nuovi confini. (...) 3. È stato suggerito di chiudere ermeticamente la città e di raderla al suolo con il fuoco dell'artiglieria di tutti i calibri e con continui attacchi aerei. Se questo condurrà all'offerta della sua capitolazione, essa andrà respinta?» L'8 novembre 1941 Hitler spiegò in un discorso che il nemico a Leningrado veniva «affamato». Il rapporto registra un «applauso scrosciante».

Il blocco di Leningrado, al di fuori della Russia, e tanto più in Germania, non si è ancora fissato nelle coscienze, anche se sono stati compiuti già molti sforzi in questa direzione. Non si può neanche dire che ci sia mancanza di informazione. Il blocco fu già oggetto di discussione ai processi di Norimberga (all'epoca con una stima di 600 000 morti), ci sono più che sufficienti libri internazionali e lavori di ricerca, cui se ne aggiungono costantemente di nuovi. Eppure «Leningrado» rimane un crimine quasi sconosciuto. Perché? Dipende dal fatto che esso, a differenza degli altri grandi crimini del nazionalsocialismo, è rimasto «proprietà» esclusiva della propaganda del potere sovietico, con la conseguenza che, dopo il 1945, nel rapido svilupparsi della guerra fredda, l'Occidente l'ha collocato al di fuori della propria sfera di attenzione e di empatia?

Non cercherò qui di aprire al mondo gli occhi sul blocco di Leningrado. Il mio tema è più modesto e più ricco di prospettive: la letteratura del blocco. Per prima cosa, tuttavia, devo mettere in chiaro che non uso in senso lato la parola «inferno» in relazione alla Leningrado sotto assedio, in particolare durante il primo inverno dell'assedio tra il 1941 e il 1942, quello che ha provocato il maggior numero di vittime. Per me non è una metafora. Se da qualche parte esiste un inferno, deve essere esattamente così: freddo perenne, oscurità, frammenti irriconoscibili di musica e notizie emessi da altoparlanti, marce lunghe ore ed ore con il principale mezzo di trasporto usato durante il blocco, la slitta per bambini. Cadaveri congelati ai bordi delle strade. Cadaveri di parenti a casa, che per giorni non possono essere seppelliti (naturalmente si cerca di mantenerne le carte di razionamento).

Al culmine della carestia, dal 20 novembre al 25 dicembre del 1941, un operaio riceveva 250 grammi di pane al giorno, mentre un impiegato, un membro della famiglia senza salario, un bambino, 125 grammi. Ai soldati al fronte si assegnavano 500 grammi. A questo pane venivano aggiunti fino al 50% di ingredienti non commestibili (cellulosa, granaglie, loppa). Eppure una storia dice più di molte cifre: Vasilij Betaki, un traduttore e poeta di Leningrado, che oggi ha 82 anni e vive a Parigi, racconta come, da bambino undicenne, durante il primo inverno dell'assedio abbia cacciato ed arrostito ratti. Con un martello stava seduto tutto il giorno davanti ad una tana di ratti nel suo appartamento, ad aspettare. Ne uccideva cinque o sei al giorno. L'idea gli era venuta da romanzi di Jules Verne, che aveva letto appassionatamente prima della guerra. Sua madre si rifiutava di mangiare i suoi ratti. Nonostante la madre ricevesse la razione di pane del figlio, morì ancora prima della primavera. Questa storia contraddice la leggenda popolare per cui tutti i ratti di Leningrado sarebbero fuggiti dalla città il 10 settembre del 1941, dopo il bombardamento mirato sulle case dei magazzini Badaev, dove si erano raccolte le scorte di generi alimentari cittadine, e sarebbero ritornati solo dopo la fine dell'assedio, il 27 gennaio del 1944. Il folclore del blocco è un soggetto particolare.

Ovviamente nell'inferno si produsse molta letteratura! La maggioranza degli scrittori rimasti in città (molti erano stati evacuati nell'entroterra) fu mobilitata e assegnata ai giornali dell'esercito o alla radio. Questo era il solo mezzo che contava per la gente comune sotto assedio. La radio trasmetteva non solo notizie, musica o discorsi del segretario del partito comunista, ma anche poesie e reportage. Alcuni poeti, che leggevano le loro poesie alla radio di Leningrado, divennero incredibilmente popolari. Ci si potrebbe ricordare di Olga Bergholz (1910–1975), che negli anni Trenta, da giovane poetessa fedele alla linea, causò danni molto seri, accusando colleghi sulla stampa di essere «spie nemiche». Ciò non valse ad impedire il suo arresto nel 1938. Suo marito, il poeta Boris Kornilov, fu giustiziato; torturata durante gli interrogatori, perse il bimbo che portava in grembo. Liberata nel 1939 dalla NKVD e riabilitata, la Bergholz aderì al partito e proseguì la propria carriera. Durante il blocco fu venerata come una santa per le sue poesie caratterizzate da un grande impatto emotivo, il che la rese intoccabile dopo la guerra. Beveva molto ed era nota in tutta la città per la sua lingua sciolta. Una volta fu invitata a presentare le sue poesie nella sede del KGB sulla Prospettiva Litejnyj, come ospite d'onore. Arrivò, già ubriaca, e chiese, ancora prima di togliersi il cappotto: «Avanti, gente, mostratemi dove state torturando!»

Tentativi di razionalizzazione
Le poesie della Bergholz, come molte altre opere composte durante il blocco, non possono essere propriamente definite poesia del blocco. Sono poesie (e anche prose) sul blocco, testi che cercano di immettere qualcosa di razionale nell'inafferrabilità del presente, infondere coraggio negli uomini e dare loro un sostegno. In questo senso assomigliano alle poesie dei poeti della radio che esortavano a resistere e alle disperate, silenziose «descrizioni private» della quotidianità del blocco. Prendiamo una poesia di Natalija Krandijevskaja-Tolstaja (1888–1963), una poetessa e per un periodo moglie del famoso romanziere sovietico Alexej Tolstoj. Parla di come gli uomini prendessero l'acqua con i secchi dai fiumi e dai canali: «Leghiamo il secchio alle slitte dei bambini, / e andiamo a prendere l'acqua / – dietro al ponte c'è un'erta  collina, / attenzione a scendere... (...) La tormenta di neve fa mulinelli sopra la Neva, / in piume bianche, in argento, / quando prendevamo l'acqua era proprio così / 200 anni fa, all'epoca dello zar Pietro...» Vediamo qui intraprendere un tentativo di razionalizzazione mediante un rimando alla storia. Tali poesie della Krandijevskaja, così come il suo diario del blocco, non furono pubblicate durante la sua vita: erano considerate troppo private, troppo antieroiche.

Il tempo dei diari
Ancora più delle poesie, nella Leningrado assediata si scrissero diari. È come se gli uomini avessero cercato, attraverso la regolarità delle annotazioni, di portare ordine all'inferno, di trovare un senso nel tempo che si era fermato. I diari del blocco furono pubblicati in Unione Sovietica, con cautela, già a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta e furono utilizzati per la «educazione del popolo». Un esempio rappresentativo è il diario della scolara Tanja Savičeva, la «Anna Frank leningradese», che assurse a simbolo del blocco. Le sue note sono in realtà un documento impressionante: «Lo zio Ljoša il 10 maggio del 1942 alle 4 del pomeriggio. Mamma il 13 maggio del 1942 alle 7.30 di mattina. I Savičev sono morti. Sono morti tutti. È rimasta solo Tanja.» Fu portata via da Leningrado, ma morì nel 1944 per le conseguenze del blocco.

Alla fine degli anni Settanta-inizio degli anni Ottanta, fu pubblicata la cronaca dettagliata dell'assedio  di Leningrado, «Il libro del blocco» (Blokadnaja kniga) di Daniil Granin ed Ales' Adamovič. Utilizzava abbondante materiale tratto da diari e ricordi privati e, grazie alla posizione di rilievo di entrambi gli autori nella gerarchia culturale, non si atteneva servilmente ai tabù della propaganda sovietica, che cercavano sempre di rappresentare gli orrori in modo un po' più sopportabile e le azioni eroiche, se possibile, ancora più eroicamente. A quel punto sembrò che tutto fosse già stato detto sul blocco. Eppure, dalla fine degli anni Ottanta, hanno continuato a venire pubblicate nuove testimonianze di inaspettata qualità artistica e umana, su tutte i diari e i saggi della critica letteraria Lidija Ginzburg (1902–1990).

Questo flusso di pubblicazioni non si è ancora arrestato. Nel frattempo sappiamo molto più di prima della vita all'interno del blocco. Particolarmente importante è la paradossale percezione del tempo durante il blocco (le sono dedicati i lavori della ricercatrice russo-americana Polina Barskova) – il tempo si ripete sempre con un andamento monotono e al contempo finisce ogni secondo. È infinito e allo stesso tempo dura, ma non procede. È il tempo dell'unicità ripetuta. Tutti i tentativi di riprodurre la realtà del blocco in un tempo letterario normale, anche lirico, falliscono proprio per questa qualità paradossale del tempo del blocco.

È spiacevole dirlo, ma è vero: negli ultimi dieci anni interessarsi del blocco è stata in Russia una moda intellettuale (anche altrove ha successo, ma non in territorio tedesco). Le pubblicazioni russe su questo tema sono onnipresenti. Tra queste, due scoperte sensazionali: due opere di poesia che sono nate nell'inferno e sono in grado di restituirlo poeticamente. Non avevano alcuna funzione terapeutica (tanto meno propagandistica), ma sono rimaste fedeli al blocco in quanto tale. Attraverso entrambe, il blocco ha trovato la via della profondità del linguaggio.

Il terrore assoluto
Nel 2007 è uscito presso la piccola casa editrice viennese Korrespondenzen un volume di poesie che ha rivoluzionato tutta l'idea che si aveva della poesia della catastrofe di Leningrado. «Blockade» è nato dalla penna di Gennadij Gor, scoperto dal traduttore Peter Urban, che ne aveva inizialmente studiato le prose brevi. Il volume pubblicato da Urban con testo a fronte non è stata una prima edizione solo tedesca, ma anche russa. Gor (1907–1981) era stato negli anni Sessanta e Settanta un autore di science fiction noto ed apprezzato. La sua precedente prosa sperimentale era conosciuta solo da pochi e le sue poesie erano sconosciute.

«Il sorriso insensato di Edgar Allan Poe, / Cervantes dall'andatura insicura, / inutile, ma d'oro un pesciolino / una cattura altamente pericolosa. / Mi uccideranno, lo so, un lunedì / e mi lasceranno giacere dove sta il lavatoio. / E là si laverà il mio scagnozzo / sorprendendosi dei baci, / ridendo, mentre si lava.» Da tali versi emerge il terrore assoluto: del morire congelati, di fame, divorati, letteralmente, da qualcuno diventato cannibale. Nelle poesie di Gor il cannibalismo si trasforma in una spaventosa metafora che diviene motivo conduttore dell'esistenza durante il blocco. Tuttavia, molto più importante è come queste poesie restituiscano il caos e la cristallizzazione del tempo nell'inferno del blocco, e questo in continuo dialogo con la propria morte. Quello che rende le poesie di Gor un evento nella vita letteraria russa è l'aver mostrato che il linguaggio dell'avanguardia di Leningrado inviso alla dottrina del realismo socialista era adatto allo stato esistenziale eccezionale. Sembra quasi che i «poeti insoliti» degli anni Trenta, Daniil Charms (morto di fame all'ospedale del carcere durante il blocco), Alexander Vvedenskij (cui spararono durante un trasporto di prigionieri) e Nikolaj Zabolockij (allora in un campo di lavoro) abbiano sviluppato il loro linguaggio, la loro fantasia poetica e la loro complessa percezione del tempo in anticipo sul blocco. Gennadij Gor si è riallacciato, consapevolmente o meno, a questo linguaggio e ha creato un universo lirico che porta il lettore direttamente all'inferno.

Poesie pseudoprimitive
Un'ulteriore scoperta è la raccolta di poesie, uscita a Mosca nel 2011, di Pavel Sal'cman (1912–1985), pittore e grafico e allievo di Pavel Filonov (1883–1941), un classico dell'avanguardia russa morto durante il primo inverno del blocco. Sal'cman dipinse, girò film ed inoltre scrisse poesie e prosa durante tutta la sua vita. Passò il primo inverno del blocco a Leningrado. La poetica delle sue poesie composte all'epoca appartiene inconfondibilmente alla stessa cultura dell'avanguardia leningradese: «Sono un cretino, sono uno stronzo, sono uno storpio, / ucciderei un uomo per una salsiccia, / ma per favore fateci entrare, / raspiamo da molto tempo alla porta come cani. / Però soffro, boia che siete, / di incontinenza!» Queste poesie pseudoprimitive, nel loro essere disperatamente dirette, sono ben lungi dal tentativo di razionalizzare l'accaduto e di comprenderlo in una logica umana. Avvertono nella loro struttura l'orrore, in un modo terribile, attraente.

Il blocco di Leningrado fa parte degli eventi che ricordano di cosa siano capaci gli «uomini civilizzati» quando un'ideologia concede loro la licenza di uccidere. Le testimonianze ricordate, siano di tipo documentaristico o letterario, consentono di conoscere una sofferenza indicibile. Dare ai morti una memoria e al dolore un linguaggio è il massimo, ma anche la cosa più difficile che sia in grado di fare la poesia, perché questa deve sempre lasciare aperte le ferite affinché non le sfugga nessuna interpretazione dell'insensato.

Oleg Jur'ev, nato a Leningrado nel 1959, vive a Francoforte sul Meno: è autore di romanzi, poesie, drammi e saggi.

NZZ, 3.9.11

lunedì 12 settembre 2011

Intorno ad un artefatto di Nicanor Parra

El mundo es lo que es
y no lo que un hijo de puta
llamado Einstein
dice que es.

È legittimo pensarla come Parra, come è perfettamente legittimo per i cineasti come Godard sostenere che "il cinema è il cinema". Peccato però che con proclami come questi, oltre ad ingrossare una fila già ben nutrita di persone da Parmenide in poi, ce la si prenda proprio con chi prova non solo ad offrire nuove visioni, ma è anche pronto a ritrattarle e ad ammettere il proprio errore e tutti i propri limiti, se e quando queste visioni non trovano un sufficiente riscontro sperimentale, ovvero un minimo di sostegno nella realtà così com'è, nel mondo com'è. Inoltre, chi prova ad offrire nuove visioni scientifiche del mondo lo fa non di rado per il solo gusto di esplorarlo, non di rado contribuendo a dar luogo ad applicazioni finali di cui si potrebbero almeno apprezzare le ricadute positive a beneficio della qualità della vita dell'uomo e dell'ambiente in cui vive e che invece, da quando la fisica è associata solo all'energia nucleare e, più in generale, da quando il positivismo è diventato démodé, si tendono a trascurare (uno dei miei sogni è quello di intervistare qualche antipositivista quando gli capita di trovarsi al pronto soccorso, ma è un sogno che resterà tale, perché il posto sarebbe ideale per saggiarne le opinioni sul piano applicativo, ma chiaramente inopportuno, date le circostanze).
L'energia virulenta, anche distruttiva, di Parra ci può stare, e può essere salutare, come quando si oppone ai mostri sacri alla Neruda, proprio in quanto mostri sacri: la poesia di Parra non vuole essere sacra ed è questa la sua forza più vitale. La sua visione non consolatoria della realtà è poi più che sufficiente per non doverlo mai chiamare - per quanto mi riguarda - figlio di puttana, e questo anche nonostante i suoi manifesti. Ho un problema del tutto personale con i manifesti: proclamano (il che, già di per sé, mi evoca un discorso fatto da uno scranno, o comunque dall'alto) quello che si intende fare senza passare direttamente a farlo, il che è proprio il contrario della poesia: nel caso di Parra, però, il manifesto è essenziale: proclamando e non facendo, si colloca su un piano che per definizione è antipoetico, e quindi in linea con il suo obiettivo di fare dell'antipoesia, il che mi induce a concludere che, idealmente, avrebbe potuto limitarsi a redarre il suo manifesto, incarnazione principe dell'antipoesia, ma in realtà non mi dispiace che abbia provato a concretizzarlo, anche se con risultati non sempre felici.
Tuttavia, nel caso preso in esame non condivido per nulla le sue parole, e non in nome di una difesa dei modelli scientifici della realtà, ma, prima di tutto, perché tali parole intendono sottrarre ogni senso alla possibilità di creare visioni del mondo, e quindi escludono, mentre io, per indole, preferisco le addizioni e le inclusioni alle interdizioni e alle esclusioni. E non escludono solo le visioni del sapere scientifico, esemplificate nello scienziato del XX secolo che tutti conoscono almeno di nome, ma proprio tutte le visioni diverse da quelle che affermano: "la realtà è la realtà", incluse quindi quelle del popolo minuto, del suo sapere popolare, antico e senza pretese o velleità di sorta, ma denso, nonostante tutti i suoi limiti espressivi, e soprattutto legato all'esigenza della propria stessa sopravvivenza. E a questo sapere popolare, che ne ha prodotte, e molte, di visioni, anche se sono state spesso snobbate, se non ridicolizzate, ostacolate e vigorosamente combattute, tengo molto e non intendo minimamente fare a meno, Parra o non Parra.
Il popolo minuto è sempre stato, nella stragrande maggioranza dei casi, analfabeta e quindi ha dovuto rinunciare in partenza alle prove letterarie, che privilegiati come Parra hanno potuto sperimentare, privilegiati nel senso che hanno avuto accesso ad una completa educazione scolastica ed universitaria. Nonostante l'ignoranza delle lettere, il popolo minuto, del tutto analfabeta o più o meno illetterato che fosse, ha prodotto molta poesia, posto che si voglia o si abbia l'interesse di vederla. Se la poesia non è un bel tramonto (e non lo è), la gente analfabeta, che è poi la netta maggioranza dell'umanità nel corso della sua intera storia, non ha lasciato tracce della propria produzione poetica in tradizionali raccolte di poemi, ma in altre cose, ad esempio nei riti di matrice popolare.
Ne propongo un esempio concreto, quello del rito seguito dai contadini della regione della Dombes, a nord-est di Lione, vicino a Neuville-les-Dames, per sette (7) secoli fino all'inizio del Novecento, resistendo a tutto, alle sopraffazioni delle classi dominanti, ai loro espropri e ai loro periodici allagamenti delle campagne per creare bacini artificiali, e anche all'azione repressiva da parte della chiesa cattolica, contraria a tutto quello che puzzasse e puzzi di superstizione (altrui, s'intende). C'è da dire, per onestà, che è grazie all'azione dell'Inquisizione, nella persona di Étienne de Bourbon, ed in particolare al suo scrupolo di mettere per iscritto lo svolgersi della propria opera inquisitoriale, che dobbiamo la conoscenza del rito in questione. C'è anche da dire, per evitare che qualche suo erede o discepolo della chiesa trovi in questo qualche residuo motivo di orgoglio, che l'opera repressiva della chiesa è in questo caso fallita in malo modo, se il suo primo intervento risale al XIII secolo mentre le ultime tracce del rituale sono sopravvissute fino agli anni '30 del secolo scorso.
Si è trattato del culto e della venerazione di un animale, un levriero, alla cui tomba le madri affidavano i bambini malati nella speranza o, meglio, nella convinzione che li potesse guarire, anche se, come cercherò di spiegare, poeticamente non di guarigione si tratta. Lo racconta ed analizza estensivamente Jean-Claude Schmitt ne Le saint lévrier (ultima edizione: Flammarion, 2004), un libro piccolo e importante dedicato a Saint Guinefort, che in Italia è stato pubblicato da Einaudi, nella collana Microstoria di Carlo Ginzburg e Giovanni Levi.
Dietro al rito si nasconde una leggenda, una storia, un racconto che al rito offre il sostegno affabulatorio e che ha lasciato tracce in molti racconti sparsi tra l'Europa e l'India (!), ma è il rito dei contadini della regione di Lione ad essere poesia, non il suo racconto, perché il loro rito, come la poesia, è fatto delle (inevitabili - solite, diceva Sanguineti) metafore e di altre figure retoriche, perché, come la poesia, offre una visione del mondo che si aggiunge, si sovrappone alla realtà senza negarla, perché il rito, con i suoi gesti sempre uguali a se stessi, come lo sono i versi letti e riletti, recitati e rirecitati, specie se composti da una forma strutturata, monotona, aiuta a ricordare.
Secondo la leggenda, Guinefort, un cane levriero, era stato ucciso dal suo padrone, un cavaliere che, lasciato da solo il proprio figlio neonato nella culla, ritornato al castello ne aveva scoperto con orrore la scomparsa e l'aveva in fretta attribuita al cane, avendolo visto con le zanne sporche di sangue. Dopo aver ritrovato il figlioletto sano e salvo e un serpente squartato a fianco della culla, però, il cavaliere aveva realizzato l'ingiustizia commessa e aveva provveduto a dare una degna sepoltura al cane. Fu la tomba del cane a divenire il luogo del culto popolare francese.
Ora, lasciando a malincuore a margine le interpretazioni avanzate per cercare di dare una giustificazione alla trasformazione di un cane in santo (ne riporto solo la più suggestiva, via: la somiglianza fonetica tra le parole del patois locale lou tsin (il cane) e lou tsaint (il santo)), e concentrandomi piuttosto sul rito, questo prevedeva tre sequenze, che potremmo considerare, secondo l'interpretazione che sto tentando di offrire, delle terzine o addirittura tre interi cantici: una preliminare offerta di sale, forse di pane e di monete, poi una parte centrale del rito, piuttosto complessa, ed infine una prova finale.
La parte centrale comprendeva la deposizione dei vestiti del bambino malato su dei cespugli, il piantare un chiodo nel tronco degli alberi ritenuti cresciuti sulla tomba del cane, il far passare nove volte (multiplo di tre) il bambino tra gli alberi e il lasciarlo nudo ai piedi di un albero e a fianco di una candela accesa. La madre si separava dal figlio per consentire lo scambio del bambino malato, che non era riconosciuto come proprio, ma considerato frutto di una precedente sostituzione malefica da parte di fauni o comunque di spiriti, con il proprio bambino, quello sano*. In tal senso l'operazione non era percepita come una guarigione, ma piuttosto come il ritrovare il proprio vero figlio: elementi, questi, che mettono in luce il senso di colpa provato dalle madri dei bambini malati, il loro umano desiderio di annullarlo a dispetto degli aspetti apparentemente più brutali del rito, che per l'inquisitore devono essere stati particolarmente difficili da comprendere, come quello dell'abbandono del bimbo nel bosco: eppure, a pensarci, se il figlio era malato e se, in quanto malato, non poteva essere il proprio figlio ma solo il frutto di uno scambio da parte di un terzo, veniva meno il senso di colpa dovuto all'insorgere della sua malattia e, d'altra parte, se il figlio malato non sopravviveva al rito, ciò voleva dire che era rimasto malato, e quindi che non era il proprio figlio a morire, ma quello introdotto di soppiatto nella culla da qualcun altro.
La parte finale del rito prevedeva nove (ancora nove) immersioni del bambino restituito alla madre nell'acqua di un vicino fiume.
Ogni singolo gesto, se si vuole, può essere visto come una corrispondente figura retorica realizzata non a parole, ma con oggetti concreti ed azioni concrete: l'accentuazione del contatto con la natura, il promuoverne l'interazione con l'uomo per il tramite dei vestiti sui cespugli, del chiodo conficcato nel tronco e dell'immersione finale nell'acqua, la cesura costituita dal tempo, misurato dalla candela-orologio, in cui il bambino giace a terra abbandonato, e soprattutto il cuore di una tale visione popolare che, come detto, non consiste in una guarigione, ma in una sostituzione, in uno scambio del bambino malato con quello sano. Se non è poesia questa. Non solo è poesia, ma è una poesia di libertà: sia libertà da ogni figura di intermediario con gli spiriti, e quindi dai clerici, sia libertà dal potere temporale dei signori locali, perché il culto ha sempre avuto luogo lontano dai centri abitati e dal loro controllo o sorveglianza, in una zona boscosa dove un tempo si ergeva un antico, possente castrum poi andato in malora, dove per fortuna, prima o poi, che lo vogliano o no, che lo accettino o meno, vanno a finire tutti i poteri.

*Lo scambio dei bambini ad opera di spiriti maligni è stata una credenza molto diffusa: si parla di enfant changé o changelin in Francia, changeling o fairy in Inghilterra, Wechselbalg in Germania.

domenica 11 settembre 2011

Collezione estate-inverno

Valea Mare, estate

Valea Mare, inverno

Segnalo un CD a caso che si può ascoltare tranquillamente anche negli ultimi giorni d'estate e il cui editore dice: "Così, quando incontrai tre suonatori di ottoni rom su una banchina del métro, decisi di passare del tempo con loro e di sentire cosa avessero da dire musicalmente. Scoprii che, come quasi tutti i rumeni che lavorano nel métro, suonavano quello che pensavano i francesi volessero sentire, non realizzando naturalmente che spesso i francesi non vogliono sentire niente". I francesi, mica tutti i passeggeri.

Chicken


Link

Ikh veys fun a guter zakh
Vus iz gut far ale glakh
chicken, chick-chick-chick-chicken.
Geyt ir af a simkhe, a bris
Est nor nit kayn fleysh, kayn fish
Chicken, oy oy chicken.
Keyn mol vet ir zikh baklugn
Dreyn vet aykh nit der mugn
Un baym hartsn vet aykh keyn mul drikn.
Libe mentshn, folk mayn fraynt
Vilt ir zayn gezint un fayn
Est chicken, oy oy chicken.

Chicken, chicken
S'iz a maykhl vus vet aykh derkvikn
A pulke, a fis a shtikl beylik
S'iz geshmak dos yeder kheylik
Chicken, chick-chick-chick-chicken.
...

Rubin Doctor, 1922

So di una cosa buona
buona per tutti.
Pollo, pol-pol-pol-pollo.
Se andate ad una festa o a un Bris
Non mangiate carne e neanche pesce
Pollo, oy oy pollo.
...
(ne loda poi gli effetti benefici per lo stomaco - mugn - e per il cuore - hartsn - ma poi, a parte "miei cari seguite quello che dico" e fino a geshmak, gusto, non capisco abbastanza. Si fa quel che si può. E qualche volta ci si ferma proprio. La verità è che inizialmente avevo pensato a I don't want no sugar in my coffee/it makes me mean, ma poi ho ceduto alle pressioni della lobby degli allevatori di pollame.)

sabato 10 settembre 2011

11. September 1911

Auf dem Asphaltpflaster sind die Automobile leichter zu dirigieren aber auch schwerer einzuhalten. Besonders wenn ein einzelner Privatmann am Steuer sitzt, der die Größe der Straßen, den schönen Tag, sein leichtes Automobil, seine Chauffeurkenntnisse für eine kleine Geschäftsfahrt ausnützt und dabei an Kreuzungsstellen sich mit dem Wagen so winden soll, wie die Fußgänger auf dem Trottoir. Darum fährt ein solches Automobil knapp vor der Einfahrt in eine kleine Gasse noch auf dem großen Platz in ein Tricykle hinein, hält aber elegant, tut ihm nicht viel, tritt ihm förmlich nur auf den Fuß, aber während ein Fußgänger mit einem solchen Fußtritt desto rascher weiter eilt, bleibt das Tricykle stehn und hat das Vorderrad verkrümmt. Der Bäckergehilfe, der auf diesem der Firma gehörigen Wagen bisher vollständig sorglos mit jenem den Dreirädern eigentümlichen schwerfälligen Schwanken dahingefahren ist, steigt ab, trifft den Automobilisten, der ebenfalls absteigt und macht ihm Vorwürfe, die durch den Respekt vor einem Automobilbesitzer gedämpft und durch die Furcht vor seinem Chef angefeuert werden. Es handelt sich nun zuerst darum zu erklären, wie es zu dem Unfall gekommen. Der Automobilbesitzer stellt mit seinen erhobenen Handflächen das heranfahrende Automobil dar, da sieht er das Trycykle das ihm in die Quere kommt, die rechte Hand löst sich ab und warnt durch Hin- und Herfuchteln das Tricykle, das Gesicht ist besorgt, denn welches Automobil kann auf diese Entfernung bremsen. Wird es das Tricykle einsehn und dem Automobil den Vortritt lassen? Nein, es ist zu spät, die Linke läßt vom Warnen ab, beide Hände vereinigen sich zum Unglücksstoß, die Knie knicken ein, um den letzten Augenblick zu beobachten. Es ist geschehn und das still dastehende verkrümmte Tricykle kann schon bei der weitern Beschreibung mithelfen. Dagegen kann der Bäckergehilfe nicht gut aufkommen. Erstens ist der Automobilist ein gebildeter lebhafter Mann, zweitens ist er bis jetzt im Automobil gesessen, hat sich ausgeruht, kann sich bald wieder hineinsetzen und weiter ausruhn und drittens hat er von der Höhe des Automobils den Vorgang wirklich besser gesehn. Einige Leute haben sich inzwischen angesammelt und stehen wie es die Darstellung des Automobilisten verdient nicht eigentlich im Kreise um ihn, sondern mehr vor ihm. Der Verkehr muß sich inzwischen ohne den Platz behelfen, den diese Gesellschaft einnimmt, die überdies nach den Einfällen des Automobilisten hin und her rückt. So ziehn z. B. einmal alle zum Tricykle um den Schaden von dem so viel gesprochen worden ist, einmal genauer anzusehn. Der Autom. hält ihn nicht für arg, (einige halten in mäßig lauten Unterredungen zu ihm) trotzdem er sich nicht mit dem bloßen Hinschauen begnügt sondern rund herumgeht, oben hinein und unten durch schaut. Einer, der schreien will, setzt sich, da der Aut. Schreien nicht braucht, für das Tricykle ein; er bekommt aber sehr gute und sehr laute Antworten von einem neu auftretenden fremden Mann, der wenn man sich nicht beirren läßt, der Begleiter des Aut. gewesen ist. Einigemale müssen einige Zuhörer zusammen lachen, beruhigen sich aber immer mit neuen sachl. Einfällen. Nun besteht eigentlich keine große Meinungsversch. zwischen Aut. u. Bäck., der Aut. sieht sich von einer kleinen freundlichen Menschenmenge umgeben, die er überzeugt hat, der Bäckerjunge läßt von seinem einförmigen Armeausstrecken und Vorwürfemachen langsam ab, der Aut. leugnet ja nicht dass er einen kleinen Schaden angerichtet hat, gibt auch durchaus dem Bäck. nicht alle Schuld, beide haben Schuld, also keiner, solche Dinge kommen eben vor u. s. w. Kurz die Angelegenheit würde schließlich in Verlegenheit ablaufen, die Stimmen der Zuschauer, die schon über den Preis der Reparatur beraten, müßten abverlangt werden, wenn man sich nicht daran erinnern würde, dass man einen Polizeimann holen könnte. Der Bäckerjunge der in eine immer untergeordnetere Stellung zum Au. geraten ist, wird von ihm einfach um einen Pol. geschickt, und vertraut sein Tricykle dem Schutz des Aut. Nicht mit böser Absicht, denn er hat es nicht nötig, eine Partei für sich zu bilden, hört er auch in Abwesenheit des Gegners mit seinen Beschreibungen nicht auf. Weil man rauchend besser erzählt, dreht er sich eine Cigarette. In seiner Tasche hat er ein Tabaklager. Neu ankommende Uninformierte und wenn es auch nur Geschäftsdiener sind werden systematisch zuerst zum Automobil, dann zum Tricykle geführt und dann erst über die Details unterrichtet. Hört er aus der Menge von einem weiter hinten Stehenden einen Einwand, beantwortet er ihn auf den Fußspitzen, um dem ins Gesicht sehn zu können. Es zeigt sich, dass es zu umständlich ist, die Leute zwischen Aut. u. T. hin und herzuführen, deshalb wird das Automobil mehr zum Trottoir in die Gasse hineingefahren. Ein ganzes Tricykle hält und der Fahrer sieht sich die Sache an. Wie zur Belehrung über die Schwierigkeiten des Automobilfahrens ist ein großer Motoromnibus mitten auf dem Platz stehn geblieben. Man arbeitet vorn am Motor. Die ersten die sich um den Wagen niederbeugen sind seine ausgestiegenen Passagiere im richtigen Gefühl ihrer nähern Beziehung. Inzwischen hat der Aut. ein wenig Ordnung gemacht und auch das Tr. mehr zum Trottoir geschoben. Die Sache verliert ihr öffentl. Interesse. Neu Ankommende müssen schon erraten, was eigentlich geschehen ist. Der Aut. hat sich mit einigen alten Zusch. die als Zeugen Wert haben, förmlich zurückgezogen und spricht mit ihnen leise. Wo wandert aber inzwischen der arme Junge herum? Endlich sieht man ihn in der Ferne, wie er mit dem Pol. den Platz zu durchqueren anfängt. Man war nicht ungeduldig aber das Interesse zeigt sich sogleich aufgefrischt. Viele neue Zuschauer treten auf, die auf billige Weise den äußersten Genuß der Protokollaufnahme haben werden. Der Aut. löst sich von seiner Gruppe und geht dem Pol. entgegen, der die Angeleg. sofort mit der gleichen Ruhe aufnimmt, welche die Beteiligten erst durch halbstündiges Warten sich verschafft haben. Die Prot.aufnahme beginnt ohne lange Untersuch. Der P. zieht aus seinem Notizbuch mit der Schwerfälligkeit eines Bauarbeiters einen alten schmutzigen aber leeren Bogen Papier, notiert die Namen der Beteiligten, schreibt die Bäckerfirma auf und geht um dies genau zu machen schreibend um das Tricykle herum. Die unbewußte unverständige Hoffnung aller Anwesenden auf eine sofortige sachliche Beendigung der ganzen Angel. durch den Pol. geht in eine Freude an den Einzelheiten der Prot. auf. über. Diese Pr. stockt bisweilen. Der Pol. hat sein Prot. etwas in Unord. gebracht und in der Anstrengung es wieder herzustellen, hört und sieht er weilchenweise nichts anderes. Er hat nämlich den Bogen an einer Stelle zu beschreiben angefangen, wo er aus irgend einem Grunde nicht hätte anfangen dürfen. Nun ist es aber doch geschehn und sein Staunen darüber erneuert sich öfters. Er muß den Bogen immerfort wieder umdrehn, um den schlechten Prot.anfang zu glauben. Da er aber von diesem schlechten Anfang bald abgelassen und auch anderswo zu schreiben angefangen hat, kann er, wenn eine Spalte zu Ende ist, ohne großes Auseinanderfalten und Untersuchen unmöglich wissen, wo er richtigerweise fortzusetzen hat. Die Ruhe die dadurch die Angeleg. gewinnt, läßt sich mit jener früherndurch die Bet. allein erreichten gar nicht vergleichen.

Reisetagebuch Lugano – Paris – Erlenbach, 11. September 1911, Montag


Sul selciato lastricato d'asfalto è più facile guidare le automobili, ma è anche più difficile frenarle, specialmente quando al volante c'è un privato che sfrutta l'ampiezza delle strade, la bella giornata, la leggerezza della propria automobile e le sue nozioni di guida per un breve viaggio d'affari e agli incroci deve serpeggiare con la vettura come i pedoni sul marciapiede. Per questo un'automobile così, poco prima di immettersi in una viuzza, quando si trova ancora sull'ampia piazza, si scontra con un triciclo, ma si ferma elegantemente, non lo danneggia troppo, gli calpesta letteralmente un piede, ma mentre un pedone cui si monti in tal modo sul piede prosegue tanto più velocemente, il triciclo si deve fermare perché ha la ruota anteriore deformata. Il garzone di fornaio, che con questo veicolo di proprietà della ditta ha viaggiato finora, senza alcuna preoccupazione, con le lente oscillazioni proprie delle tre ruote, scende, va incontro all'automobilista, sceso a sua volta, e gli indirizza dei rimproveri, attenuati dal rispetto che si deve ad un proprietario d'automobile e al contempo esacerbati dalla paura per il proprio capo. Si tratta prima di tutto di spiegare come è avvenuto l'incidente. Il proprietario d'automobile descrive l'automobile che arriva alzando le mani, poi vede il triciclo che gli taglia la strada, la mano destra si alza e fa segnali al triciclo sbracciandosi animatamente, il volto è preoccupato perché a questa distanza nessuna automobile può frenare. Se ne renderà conto, il triciclo, e darà la precedenza all'automobile? No, è troppo tardi, la sinistra smette di fare segnali, le due mani si uniscono nell'infelice scontro, le ginocchia si piegano per osservare l'ultimo istante. Ormai è accaduto e il triciclo silenzioso, con la sua ruota deformata, può contribuire a proseguire la descrizione. A fronte di ciò il garzone di fornaio non è in grado di imporsi. Per prima cosa l'automobilista è un uomo colto e vivace, e poi finora è rimasto seduto nell'automobile, è riposato, si può rimettere presto a sedere e continuare a riposare, e infine dall'alto dell'automobile ha visto davvero meglio come si sono svolte le cose. Intanto alcune persone si sono fermate formando un crocicchio come merita la descrizione dell'automobilista, non a cerchio attorno a lui, ma piuttosto davanti a lui. Il traffico intanto deve arrangiarsi a rinunciare allo spazio occupato da questo gruppo, che per di più va avanti ed indietro seguendo i capricci dell'automobilista. Così, per es., tutti si avvicinano al triciclo per osservare meglio il danno di cui così tanto si è parlato. L'autom. non lo considera grave (alcuni si fermano da lui parlando piano), nonostante questi non si limiti a guardare, ma giri attorno e osservi dall'alto e da sotto. Un tizio che ha voglia di gridare prende le parti del triciclo, dato che l'aut. non ha bisogno di grida; riceve però risposte molto buone e a voce molto alta da un estraneo appena arrivato che, se non ci si lascia trarre in inganno, è stato l'accompagnatore dell'aut. Di tanto in tanto alcuni ascoltatori non possono fare a meno di scoppiare a ridere, ma poi si calmano con nuove considerazioni oggett. In realtà non c'è grande diverg. di opinioni tra l'aut. e il garz., l'aut. si vede circondato da un piccolo gruppo di persone gentili che è riuscito a convincere, il garzone di fornaio smette lentamente di stendere continuamente le braccia e rimproverare, l'aut. non nega di aver provocato un piccolo danno, non dà tutta la colpa al garz., entrambi hanno colpa - quindi nessuno ne ha - sono cose che succedono, ecc. In breve, la questione finirebbe per diventare imbarazzante, bisognerebbe chiedere i voti degli spettatori che già danno consigli sul costo della riparazione, se non ci si ricordasse che si potrebbe andare a chiamare un poliziotto. Il giovane fornaio, che è finito per trovarsi in una posizione sempre più inferiore a quella dell'aut., viene mandato da questi a chiamare un pol., e affida il suo triciclo alla protezione dell'aut. stesso. Non con cattive intenzioni, perché non ha bisogno di formare un partito in proprio favore, questi continua con le sue descrizioni anche in assenza dell'avversario. Siccome fumando si racconta meglio, si prepara una sigaretta. In tasca ha un deposito di tabacco. Dei nuovi arrivati, ancora non informati, siano pure solo fattorini, vengono sistematicamente fatti avvicinare dapprima all'automobile, poi al triciclo e solo alla fine messi al corrente dei particolari. Quando dalla folla sente un'obiezione da un tizio che sta in fondo, gli risponde mettendosi in punta di piedi per poterlo vedere in viso. Siccome si rivela troppo complicato condurre la gente di qua e di là fra l'aut. e il tr., l'automobile viene accostata al marciapiede della via. Un triciclo integro si ferma e il conducente osserva la situazione. Come a dimostrazione delle difficoltà di guida in automobile, un grande omnibus a motore si ferma in mezzo alla piazza. Si lavora al motore, davanti. I primi a chinarsi intorno alla macchina sono i passeggeri, scesi con una chiara comprensione del loro stretto rapporto. Nel frattempo l'aut. ha fatto un po' d'ordine e anche spinto il tr. verso il marcipiede. La cosa perde il suo interesse pubbl. I nuovi arrivati devono già indovinare cosa sia accaduto. L'aut. si è formalmente ritirato con alcuni dei primi spettat. che contano da testimoni e parla a bassa voce con loro. Ma dove è andato intanto il povero ragazzo? Infine lo si vede in lontananza, mentre sta per attraversare la piazza col pol. Non c'era impazienza, tuttavia l'interesse appare subito rinnovato. Molti nuovi spettatori si fanno avanti per godersi a buon mercato la stesura del verbale. L'aut. si allontana dal gruppo e va incontro al pol., che subito accoglie la quest. con la stessa calma che i partecipanti sono riusciti a raggiungere appena dopo una mezz'ora di attesa. La stesura del verb. ha inizio senza lunghe investigazioni. Il p. strappa dal taccuino, con la lentezza di un muratore, un vecchio foglio sporco ma intonso, prende nota dei nomi delle persone coinvolte, scrive il nome del fornaio e, per far le cose bene, mentre scrive gira intorno al triciclo. L'inconsapevole e irragionevole speranza di tutti gli astanti, che l'intera quest. possa essere liquidata subito dal pol., si trasforma in una gioia per i dettagli della stes. del verb. Questo verb. di tanto in tanto si incespica. Il pol. ha reso il verb. un po' disordinatam. e, nello sforzo di rimetterlo a posto, a tratti non sente e non vede altro. In effetti ha cominciato a scrivere in un punto del foglio in cui per qualche motivo non avrebbe dovuto cominciare. Ma ormai è fatta e più volte il suo stupore si rinnova. Deve girare il foglio continuamente per convincersi di aver cominciato male il verb. Siccome però ha abbandonato presto il cattivo inizio e si è messo a scrivere anche in altri punti, quando una colonna è terminata non può sapere dove deve riprendere correttamente senza spiegare ed esaminare il foglio. La tranquillità che la quest. così assume non si può nemmeno lontanamente paragonare con la precedente, raggiunta solo dai partecip.

Diario di viaggio Lugano - Parigi - Erlenbach, 11 settembre 1911, lunedì

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All'interno di un invisibile eppur presente quadrato di lato di non più di quattrocento-cinquecentro metri che circonda l'ufficio dove lavoro, Kafka emerge distintamente almeno tre volte dal rumore di fondo del traffico e dal brusio e dai disegni lasciati in aria dai gesti delle persone che quel quadrato hanno attraversato nel corso di un intero secolo e delle persone che quotidianamente continuano ad attraversarlo. Lo fa uscendo dalle case di Rue des Petits-Champs, specialmente di mattina presto (Confiserie de l’enfant gate rue de petits champs - Wäscherinnen in Morgennegligee - rue de pet. champs, so eng daß sie ganz im Schatten bleibt, selbst wenn die eine Häuserreihe ganz beschienen ist, dieser Unterschied in der Beleuchtung so nah an einander gerückter Häuser*), lo fa verso sera, con un guizzo, di fronte all'Opéra Comique e lo fa, in mezzo, in tarda mattinata, quasi a mezzogiorno, con tutta la calma e la pazienza necessarie ad un'osservazione attenta di un piccolo incidente della strada, in Place de l'Opéra, cui la pagina di diario di un secolo fa si riferisce. Essendo avvenuto all'incrocio con una Gasse (che qui non è certamente vicolo, ma una via più stretta, almeno in confronto all'ampiezza dei vicini boulevards), l'incidente non può avere avuto luogo né dalla parte di Avenue de l'Opéra né dai lati del Boulevard des Capucines o del Boulevard des Italiens, ma solo dalla parte o di Rue Auber o di Rue Halévy. Non so bene perché, ma ho la sensazione che il fatto si sia svolto sotto gli occhi del busto di Rossini, il primo a sinistra guardando la facciata dell'Opéra, vale a dire all'incrocio con Rue Auber. Siccome però al momento non dispongo di elementi concreti per averne la certezza e mi baso più che altro su una sensazione di pancia, la fotografia del 1911 riportata sopra è orientata verso la Rue Halévy: per non scartare nessuna delle ipotesi più probabili, in assenza di ulteriori elementi di prova e anche - perché no - per prendere le distanze non da tutto, ma almeno dalla genericità con cui Vila-Matas prende avvio per ricordare l'anniversario kafkiano: El próximo 11 de septiembre se cumplirán 100 años exactos de un choque que tuvo lugar entre un triciclo y un automóvil en uno de los bulevares de París.

* Confiserie de l'enfant gâté, Rue des Petits-Champs. - Lavandaie in déshabillé. Rue des Petits-Champs, così stretta che rimane completamente nell'ombra, anche quando una fila di case è tutta illuminata, questa differenza nell'illuminazione di case così ravvicinate.