domenica 31 ottobre 2010

Dizionario di tutte 'e cose - I come italiano

La lingua italiana non esiste e, se proprio deve esistere, è di formazione recente.

Trascrizione reperto audio N. 1
- Est-ce que vous avez une langue? (avete una lingua?)


Trascrizione reperto audio N. 2
- It was born in the nineteenth century, wasn't it? (è nata nell'Ottocento, vero?)

Ulyss

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: "Quando

mi dipartì da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m’avea lasciata Setta.

"O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".

Dante, Inferno, Canto XXVI


Mit wenig Rudrern auf den salzgewohnten
Baum pflanzt ich meine Hoffnung müd des Festen
Das Meer neu pflügend mit vergehnder Furche
Mit seiner Weite meine Dauer mass ich.
Immer wieder spät früh der rötliche
Himmel mit den zwei drei letzten ersten
Wolken überm Gaswerk Kraftwerk Atommeiler
Seit Odysseus starb fünf Monatsreisen
Westlich von Gibraltar im Atlantik
Weit entfernt von Kranz und Flor, durch Brandung.
In der Hölle der Neugierigen brennt er
Dante hat ihn gesehen, mit andern Flammen.

Heiner Müller

Ulisse

Con pochi rematori sull’albero abituato al sale
piantai la mia speranza stanco della terraferma
Il mare arando nuovamente con solchi evanescenti
Con la sua ampiezza misurai la mia resistenza.
Di nuovo tardi presto il rossastro
Cielo con due tre ultime prime
Nuvole su centrale a gas centrale elettrica reattore nucleare
Da quando Ulisse morì a cinque mesi dal viaggio
A occidente di Gibilterra nell’Atlantico
Molto lontano dalla corona e dal velo, nell’incendio.
Arde nell'Inferno dei curiosi
Dante l'ha visto, con altre fiamme.


Then suddenly you know you’re never going home

venerdì 29 ottobre 2010

Dizionario di tutte 'e cose - G come Guida dell'Italia Superiore

Mailand: Führer in einem Geschäft vergessen. Zurückgegangen u. gestohlen.

Franz Kafka, Reisetagebücher, 1. September 1911

Milano: dimenticato la guida in un negozio. Tornato indietro. È rubata.

Oberitalien mit Ravenna, Florenz und Livorno. Handbuch für Reisende. 17. Auflage. Leipzig, Karl Baedeker, 1906

Non sono mai riuscita a cancellare e nemmeno a rivedere la prima idea che mi è balenata non appena ho cominciato a fare conoscenza con quello in cui tuttora non posso smettere di riconoscere l'unico possibile autore del furto - se escludiamo la banale, e quindi del tutto inverosimile, versione secondo cui può essere stato un altro turista di lingua tedesca o un cleptomane qualunque -, vale a dire l'unico sospetto che resta qualora si sottopongano al vaglio delle indagini della fantasia i contemporanei di Kafka che conoscessero Milano, avessero un rapporto speciale con il mondo e la cultura tedesca, un'ossessione per i libri e i manoscritti rubati e fossero al contempo privi di qualsiasi alibi in quel preciso periodo, un periodo che, nel caso del sospetto attorno a cui le maglie delle congetture non possono che inesorabilmente stringersi, concludeva una alquanto sfocata e imprecisata serie di continui spostamenti nel nord Europa (Amburgo, Dover, Anversa, ecc.) e che immediatamente precedeva il suo ritorno all'università di Bologna, tra i cui estremi geografici, tirando una linea retta, giace oltre ogni ragionevole dubbio Milano: Dino Campana.

mercoledì 27 ottobre 2010

Pepa nzac gnon ma

Hervé Cavalier ha suonato il preludio della partita per violino N. 3, BWV 1006, un pezzo di per sé ascrivibile tra le migliaia di cose stupefacenti eppur di consumo lecito su cui le polizie di tutto il mondo si sono più o meno inspiegabilmente distratte, unendosi al gruppo Elugu Ayong e alla sua Pepa nzac gnon ma (Papà, ritorna da me), una danza Fang tradizionale del Gabon settentrionale in cui le donne, ritornate in famiglia per allattare i bambini, invitano gli uomini a tornare a casa.

Il risultato dell'incontro è una musica che riconcilia col mondo anche nelle condizioni più sfavorevoli, quando è inverno, mattina presto, si aprono a stento gli occhi ancora pieni di sonno e fuori è buio pesto, in un preludio di giornata lavorativa che si preannuncia, fin dai suoi esordi, inequivocabilmente fredda, umida e nebbiosa, e in cui la CDU è ancora al governo, all'Eliseo c'è ancora Sarko e anche in Italia non si è mossa una foglia e, ciò nonostante, tocca alzarsi dal letto.

101 ragioni per imparare l'ungherese - 9

Perché una lingua con 14 vocali (a, e, i, o, ö, u, ü, á, é, í, ó, ő, ú, ű) e rispettosa della loro armonia aumenta la dipendenza da musica.

Acceso mio core


Acceso mio core
dhe fuggi l'ardore
di questa crudele
di questa infedele.

Se li dici che l'ami
si fa sorda e si ride.
Che farai, cor dolente?
Morrai sicuramente.

No, no, no
non vò più amare
poiché sempre ò à penare.

Tu vedi cor mio
che spento è 'l disio
e morta è la fede
d'haver tua mercede.

Oh se parli o sospiri
non odirti si finge
e se mostri i martiri
di duol le guance tinge.

Il fasolo?


My burning heart
c'mon flee the ardour
of this cruel one
of this unfaithful one.

If you tell her you love her
she becomes deaf and laughs.
What will you do, sorrowful heart?
You will surely die.

No, no, no
I do not want to love anymore
because I always have to suffer.

You see, my heart,
that desire died away
that the faith
of obtaining your reward is dead.

Oh, if you speak or sigh
she pretends not to hear you
and if you show your torments
she paints her cheeks with grief.

The bean?

lunedì 25 ottobre 2010

Sã qui turo


Sã qui turo zente pleta
turo zente de Guine
he he he,
tambor flauta e cassaeta
y carcave na sua pé,
he he he.
Vamos o fazer huns fessa
o menino Manué,
he he he.
Canta Bacião
canta tu Thomé
canta tu,
canta tu Flanciquia
canta Caterija
canta tu,
canta tu Flunando
canta tu Resnando
canta tu.
Oya, oya:
turo neglo hare cantá,
ha cantamo e bayamo
que forro fi camo,
ha tanhemo y cantamo
ha frugamo e tanhemo
ha tocamo pandero ha flauta y carcavé,
ha dizemo que biba
biba mia siola y biba Zuzé.

Tutti qui sono gente nera/tutta gente di Guinea/he he he/tamburo, flauto e nacchere/e sonagli ai piedi/he he he./Faremo una festa/in onore del piccolo Manué (Emanuele)/he he he!/Canta Bacião (Bastiano)/canta tu, Thomé (Tommaso)/canta tu/canta tu, Flanciquia (Francesco)/canta Caterija (Caterina)/canta tu/canta tu, Flunando (Fernando)/canta tu Resnando/canta tu./Ascoltate ascoltate:/tutti i neri sanno cantare/cantiamo e balliamo/cantiamo e balliamo/perché siamo liberi/suoniamo e cantiamo/ci divertiamo e suoniamo/suoniamo il tamburino, il flauto e i sonagli/diciamo viva/viva la nostra signora e viva Zuzé (Giuseppe).


La lingua, come in altri villancicos di questo tipo, è una lingua inventata, un'imitazione della lingua dei neri delle colonie portoghesi quando tentavano di esprimersi nella lingua del colonizzatore. In questo caso è un afro-lusitano, un misto di portoghese, spagnolo, creolo e forse anche di altre.

ausstellung über das glück


ich fand, derer ich harrte
luftballonwettbewerbskarte
in andere hundertfünfzig tapeziert
gegangen westwärts quasi
in hefter "west" der stasi
der stunde ihres fundes nach sortiert
ausstellung über das glück
im hygienemuseum dresden
gesprungen, bekommen zu fassen
entziffert „martha“ in den massen
„neun jahre, wer mich findet, bitte schreib“
und als funkte die etage:
„wir haben ein loch in der collage“
warf ich die seele mir durch den postschlitz aus dem leib
ausstellung über das glück
im hygienemuseum dresden

ho trovato, me l'aspettavo/il foglietto della gara di palloncini/tappezzato in altri centocinquanta/quasi andato a ovest/nel raccoglitore "ovest" della stasi/classificato in base all'ora della sua scoperta/mostra sulla felicità/al museo dell'igiene di dresda/saltato, arrivato a comprendere/decifrato „martha“ nelle masse/„nove anni, chi mi trova, lo scriva“/e quando il piano ha annunciato:/„abbiamo un buco nel collage“/mi sono tolto l'anima dal corpo e l'ho gettata nella buca delle lettere/mostra sulla felicità/al museo dell'igiene di dresda.


Glück può voler dire felicità, ma anche fortuna. Non esistendo felicituna, ho optato per la prima.


Cara scopritrice, caro scopritore,
questo palloncino è stato affidato all'aria in occasione della festa dei bambini a Dannewerk. Ti prego di darne notizia all'indirizzo del mittente sul retro perché lui possa vincere un premio con la tua risposta.
Grazie per il disturbo!

schamlos grün

Ich habe überhaupt keine Hoffnung, aber ich habe auch keine Verzweiflung. Das ist nicht mein Gebiet und ist auch nicht meine Arbeit. Ich versuche zu beschreiben, was ist.
Heiner Müller
(Non ho proprio nessuna speranza, ma non ho nemmeno nessuna disperazione. Non è il mio campo e non è nemmeno il mio lavoro. Cerco di descrivere quello che è.)

Herzkranzgefäss

Der Arzt zeigt mir den Film DAS IST DIE STELLE
SIE SEHEN SELBST jetzt weißt du wo Gott wohnt
Asche der Traum von sieben Meisterwerken
Drei Treppen und die Sphinx zeigt ihre Kralle
Sei froh wenn der Infarkt dich kalt erwischt
Statt daß ein Krüppel mehr die Landschaft quert
Gewitter im Gehirn Blei in den Adern
Was du nicht wissen wolltest ZEIT IST FRIST
Die Bäume auf der Heimfahrt schamlos grün

Heiner Müller, 21.8.1992


Vaso coronarico

Il medico mi mostra il film QUESTO È IL PUNTO
LO VEDE DA LEI ora sai dove abita Dio
Cenere del sogno di sette capolavori
Tre gradini e la sfinge mostra i suoi artigli
Sii contento se l'infarto ti coglie di sorpresa
Piuttosto che un altro storpio attraversi il paesaggio
Temporale nel cervello piombo nelle vene
Quello che non volevi sapere IL TEMPO È UNA SCADENZA
Gli alberi sulla strada verso casa spudoratamente verdi

Gesichter hinter Masken (Volti dietro le maschere) di Jürgen Miermeister, 1996

domenica 24 ottobre 2010

La sfiga di essere belli e coraggiosi

In una delle sue innumerevoli versioni, che variano spaziando dalla Murcia, alla Castiglia, al Messico, al Venezuela e chissà a quanti altri posti ancora, al punto che solo un segugio del calibro di Studiolum potrebbe tentare di venire a capo dei suoi percorsi, El guapo può suonare così:



A la una canta el guapo
A las dos canta el cobarde
A las tres cantaré yo
Por haber llegado tarde.
Por esa calle derecha
Van a construir un puente
Con las costillas de un guapo
Y la sangre de un valiente.

All'una canta il bello/alle due canta il codardo/alle tre canterò io/ per essere arrivato tardi/Per questa via a destra/costruiranno un ponte/con le costole di un bello/e il sangue di un coraggioso.


(*) L'idea di questo progetto (dell'album Los impossibles) è nata dalla semplice curiosità: esiste in Messico un manoscritto, composto all'inizio del XVIII secolo dal chitarrista barocco spagnolo Santiago de Murcia, che contiene un pezzo intitolato Los Impossibles. Si tratta di una romanesca di un genere che si ritrova nel XVI secolo in Italia, in Spagna e in Portogallo. Il suo tema è ancora ricorrente nella musica tradizionale messicana. La mia curiosità e la mia attrazione derivano in primo luogo dal fatto che una melodia abbia potuto aprirsi un varco tra la musica tradizionale della sua epoca e la musica colta, e viaggiare nell'arco di un secolo, dall'Italia, via Spagna e Portogallo, fino al Messico, sia ancora viva oggi nella musica della tradizione orale dell'America Latina (da qui).

sabato 23 ottobre 2010

Aus dem Coupeefenster

Aus dem Coupeefenster

Franz Kafka, Tagebücher, 1910



ist kein transeuropa
mein niederrheinexpress
den orkan emma stoppt im februar
kurz hinter geldern
in leeren feldern
wäldern in
nordrhein-westfalen
fliegt am fenster vorbei
blaue silageplane
und bleibt hängen an, was man nicht sehen kann
in grundbesitze
schreiben wie witze
blitze ihre
namen
klapp ich den rechner zu
schieb ihn ins futteral
hau den nothammer aus der notklammer
scherben in den haaren
lassen sitznachbarn
apfelkitschen fahren
und schalen
kleingeld, schlüssel, handy
und tempotaschentücher
sind im dreck die spuren, schaffnerinkonturen
ich seh dich stehen
hinterhersehen
und du mich gehen
Amen

non è un transeuropa/il mio espresso del basso reno/ferma l'uragano emma a febbraio/poco dopo geldern/in campi vuoti/boschi in/nordrhein-westfalen/passa volando alla finestra/il telone blu per l' insilato/e rimane appiccicato a quello che non si può vedere/nei terreni/lampi scrivono /il proprio nome come battute/chiudo il mio computer/lo metto nella custodia/batto il martello di emergenza dal gancio di emergenza/vasi di terracotta nei capelli/i passeggeri vicini lasciano andare/torsoli di mela/e bucce/monete, chiavi, cellulare/e fazzoletti di carta/sono nella sporcizia le tracce, la silhouette del controllore/ti vedo stare in piedi/seguire con lo sguardo/e tu mi vedi andare/amen

venerdì 22 ottobre 2010

Te ciapi 'na crògna

In questo far parlare i bambini in italiano c'entra la paura che poi "si trovino male a scuola", che è infondata, anzi - ne sono sicuro - contraria al vero: il vantaggio psicologico e culturale di sapere sul serio una lingua, col fondo del proprio essere, è quasi impagabile. Ma c'entra anche, benché inespressa, l'altra preoccupazione ben più profonda: di farla finita in fretta con ogni richiamo al mondo della povertà, il mondo delle strettezze e delle tribolazioni, sentite come una sorta di "cose in dialetto". A questa linea di condotta che il nostro popolo ha scelto da sé, non per effetto di propaganda, non si può decentemente opporsi, e del resto sarebbe abbastanza fatuo provare. Ma sarebbe anche fatuo illudersi sulle conseguenze. Ora che abbiamo cominciato a mutilare i bambini, bisogna rassegnarsi al pensiero che la nostra lingua morirà presto, non c'è niente da fare. E non si tratta solo di una mutilazione linguistica. Bepi, araldico della posa di guardia aggressiva, minacciare (anni fa) col pugnetto un vile italofonino di città, ardendo di ironico furore, e dirgli Te ciapi 'na crògna...! mi ha rivelato in un lampo che morendo una lingua non muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe cose.

Luigi Meneghello, Pomo Pero - Paralipomeni d'un libro di famiglia, Oscar Mondadori, 1987

Crògna: colpo dato con le nocche, preferibilmente in testa, preferibilmente dall'alto verso il basso. Se ben assestata, può causare crògnoe (bernoccoli). Se i colpi diventano numerosi, in sequenza, si possono trasformare in crognoade. Ciapàr vuol dire prendere. I puntini di sospensione esaltano il senso della minaccia. Insomma, difficilissimo rendere l'espressione in italiano: guarda che rischi di prenderti un colpo di quelli!



Congedo

Il piano inferiore del mondo
Ha un orlo di monti celesti
Ed è colmo di paesi.

Nei broli annerisce l’uva
che nessuno vuole raccogliere,
ne prendono qualche graspo
gli operai dell’officina,
uno ne piluccano uno ne gettano,
giacciono i gioielli neri
sotto le viti tra le erbacce.
Smurata è la mura dell’orto,
dilaniato il core,
mucchi di strame ingombrano
la corte, coppi caduti,
rotti rametti, pali fradici.
Intorno si vede sorgere
un mondo di cose nuove,
questa roba si spazza via,
trionfa un rigoglio
banale e potente.
Non è più una parodia,
è vero uso moderno,
i geometri se ne intendono
delle cose e dei loro nomi,
mio piccolo popolo
forzato da un ramo villano
di storia italiana,
è una foto ricordo - sorridi.

Va libretto mio, va a roccolare.

Luigi Meneghello, Pomo pero, cit.

(Cfr., volendo)

giovedì 21 ottobre 2010

überhört

Italiener im Zug Porlezza-Menaggio. Jedes an einen gerichtete italienische Wort dringt in den großen Raum der eigenen Unkenntnis und beschäftigt daher, ob verstanden oder unverstanden, durch lange Zeit; das eigene unsichere Italienisch kann sich gegenüber der Sicherheit des Italieners nicht halten und wird, ob verstanden oder nicht verstanden, leicht überhört.

Franz Kafka, Reisetagebuch Lugano-Paris-Erlenbach, September 1911

Italiani sul treno Porlezza-Menaggio. Ogni parola italiana rivolta ad uno di noi entra nell'ampio spazio della nostra ignoranza e, che sia capita o meno, dà da pensare a lungo; il nostro italiano incerto non può reggere di fronte alla sicurezza degli italiani e, che sia capito o meno, viene facilmente ignorato.

Il treno copriva il percorso, lungo 13 km, in 58 minuti.

nichts/ничего

Nichts geschrieben.

Franza Kafka, Tagebuch, 1. Juni 1912

Scritto niente.

Franza Kafka, Diario, 1 giugno 1912


Сегодня я ничего не писал. Это неважно.

Даниил Хармс, Голубая тетрадь, 9 января 1937 года


Oggi non ho scritto niente. Non fa niente.

Daniil Charms, Il quaderno azzurro, 9 gennaio 1937

martedì 19 ottobre 2010

Ermeneutiche

Bisognerebbe tenere presente la regola fondamentale dell'ermeneutica stalinista: siccome i mezzi di informazione ufficiali non danno apertamente notizia dei problemi, il modo più affidabile per rilevarli è prestare attenzione agli eccessi compensativi nella propaganda di stato: più si celebra l'"armonia", più ci sono in realtà caos e lotta. La Cina è a stento sotto controllo. Minaccia di esplodere.
Slavoj Žižek
O di implodere, secondo la regola fondamentale dell'ermeneutica kakanica.
[...] der Kaiser und König von Kakanien war ein sagenhafter alter Herr. Seither sind ja viele Bücher über ihn geschrieben worden, und man weiß genau, was er getan, verhindert oder unterlassen hat, aber damals, im letzten Jahrzehnt von seinem und Kakaniens Leben, gerieten jüngere Menschen, die mit dem Stand der Wissenschaften und Künste vertraut waren, manchmal in Zweifel, ob es ihn überhaupt gebe. Die Zahl der Bilder, die man von ihm sah, war fast ebenso groß wie die Einwohnerzahl seiner Reiche; an seinem Geburtstag wurde ebensoviel gegessen und getrunken wie an dem des Erlösers, auf den Bergen flammten die Feuer, und die Stimmen von Millionen Menschen verischerten, daß sie ihn wie einen Vater liebten; endlich war ein zu seinen Ehren klingendes Lied das einzige Gebilde der Dichtkunst und Musik, von dem jeder Kakanier eine Zeile kannte: aber diese Popularität und Publizität war so über-überzeugend, daß es mit dem Glauben an ihn leicht ebenso hätte bestellt sein können wie mit Sternen, die man sieht, obgleich es sie seit Tausenden von Jahren nicht mehr gibt.
Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, Rohwolt Taschenbuch Verlag, 2010
[...] l’imperatore e re di Kakania era un vecchio signore leggendario. In seguito sono stati scritti molti libri su di lui, e si sa con precisione cosa ha fatto, impedito o trascurato di fare, ma allora, nell’ultimo decennio della sua vita e di quella della Kakania, molti giovani, che erano familiari con lo stato delle scienze e con le arti, si chiedevano talvolta se egli esistesse veramente. Il numero dei ritratti che si vedevano di lui era quasi altrettanto grande del numero degli abitanti dei suoi regni; il giorno del suo genetliaco si mangiava e si beveva come in quello del Redentore, sui monti fiammeggiavano i fuochi e le voci di milioni di uomini assicuravano di amarlo come un padre; infine una canzone intonata in suo onore era la sola creazione poetica e musicale di cui ogni kakanico conoscesse un verso, ma questa popolarità e pubblicità erano così ultraconvincenti che credere alla sua esistenza avrebbe potuto essere come credere all’esistenza di quelle stelle che si vedono nonostante non esistano più da migliaia di anni.
Ermeneutica kakanica che non è del tutto estranea a quella cinese. Vista da Praga, però.
Nun gehört zu unsern allerundeutlichsten Einrichtungen jedenfalls das Kaisertum. In Peking natürlich, gar in der Hofgesellschaft besteht darüber einige Klarheit, wiewohl auch diese eher scheinbar als wirklich ist; auch die Lehrer des Staatsrechtes und der Geschichte an den hohen Schulen geben vor über diese Dinge genau unterrichtet zu sein und diese Kenntnis den Studenten weitervermitteln zu können; und je tiefer man zu den untern Schulen hinabsteigt desto mehr schwinden begreiflicher Weise die Zweifel am eigenen Wissen und Halbbildung wogt bergehoch um wenige seit Jahrhunderten eingerammte Lehrsätze, die zwar nichts an ewiger Wahrheit verloren haben aber in diesem Dunst und Nebel auch ewig unerkannt bleiben.
Gerade über das Kaisertum aber sollte man meiner Meinung nach zuerst das Volk befragen, da doch das Kaisertum seine letzten Stützen dort hat. Hier kann ich allerdings wieder nur von meiner Heimat sprechen. Außer den Feldgottheiten und ihrem das ganze Jahr so abwechslungsreich und schön erfüllenden Dienst galt unser aller Denken nur dem Kaiser. Aber nicht dem gegenwärtigen oder vielmehr es hätte auch dem gegenwärtigen gegolten, wenn wir ihn gekannt oder Bestimmtes von ihm gewußt hätten. Wir waren freilich auch - die einzige Neugierde die uns erfüllte – immer bestrebt, irgendetwas von der Art zu erfahren. Aber – so merkwürdig es klingt – es war kaum möglich etwas zu erfahren, nicht vom Pilger, der doch viel Land durchzieht, nicht in den nahen nicht in den fernen Dörfern, nicht von den Schiffern, die doch nicht nur unser Flüßchen, sondern auch die heiligen Ströme befahren. Man hörte zwar viel, konnte aber dem vielen nichts entnehmen.
Franz Kafka, Beim Bau der chinesischen Mauer und andere Schriften aus dem Nachlaß in der Fassung der Handschrift, Fischer Taschenbuch Verlag, 2004
Ora, l’impero appartiene comunque alle nostre istituzioni più inspiegabili. Naturalmente, a Pechino, nella società di corte, sussiste riguardo a ciò una certa chiarezza, benché anche questa sia più apparente che reale; anche i professori di diritto pubblico e di storia a livello accademico danno ad intendere di essere informati in modo preciso su queste cose e di essere in grado di trasmettere questa conoscenza agli studenti; e più si scende nelle scuole di rango inferiore, più scompaiono chiaramente i dubbi nel proprio sapere e una cultura superficiale si erge attorno a poche tesi inculcate da secoli, che non hanno perso nulla della loro eterna verità, ma che rimangono per sempre non riconosciute nella foschia e nella nebbia.
Ma a mio parere dovremmo chiedere al popolo proprio dell'impero, perché è nel popolo che l'impero trova il suo sostegno ultimo. Tuttavia qui posso di nuovo parlare solo del mio Paese. A parte le divinità agricole e i servigi dedicati a loro, che riempiono tutto l'anno in modo così vario e bello, il nostro pensiero andava solo all’imperatore. Ma non all'imperatore attuale o piuttosto avremmo preferito pensare a quello presente se lo avessimo conosciuto o se avessimo saputo qualcosa di definito su di lui. Cercavamo sempre - la sola curiosità che ci dava soddisfazione - di trovare qualcosa che avesse a che fare con lui, ma – per quanto strano possa sembrare - non dai pellegrini, che pur avevano attraversato gran parte del Paese, e non dai villaggi vicini o lontani, non dai marinai, che pur avevano viaggiato non solo per i nostri piccoli fiumi, ma anche per i fiumi sacri alla patria. In effetti si sentivano dire molte cose, ma non se ne poteva dedurre nulla.
E rivissuta, il 3 giugno del 1976, da un polacco all'ambasciata americana di Praga, dove il praghese aveva vissuto durante la Rivoluzione russa.
Nella sua introduzione (di Karel Popradek, ndf) è risuonata una nota di disinteresse, di noncuranza addirittura: l'ha pronunciata a voce dura e sommessa, in un inglese un po' esitante, aggiustando il microfono e distendendo i fogli sul panno verde. "Nel 1917, l'anno della grande Rivoluzione russa, Kafka abitò per alcuni mesi in questa casa ed è qui che scrisse il racconto La costruzione della muraglia cinese. Una coincidenza nella quale chi è portato all'interpretazione cabalistica della storia, può ricercare un significato più profondo. Per quanto mi riguarda, io mi accontento di affermare che La muraglia cinese è un'opera geniale, un capolavoro che non è stato pienamente apprezzato dagli studiosi dell'opera di Kafka. Con i capolavori di piccole dimensioni capita che basti leggerli lentamente e ad alta voce perché gli ascoltatori si rendano conto di tutta la loro bellezza e profondità. Ma può capitare anche che sia necessario spremerne il succo, riassumerli con parole proprie senza aggiungere alcun commento personale, a costo di distruggerne la forma e di trascurare, in apparenza, la fatica dell'artista: si raccoglie così in una piccola ampolla il distillato di una preziosa essenza che, prima dell'intervento del critico, circolava, diluita e mescolata con altre sostanze, nelle vene di un frutto meraviglioso e segreto. Ed è quello che intendo fare oggi. Le persone a cui questa mia intenzione riesca sgradita, o a cui sembri un abuso in confronto alla solenne cornice della cerimonia odierna, sono invitate ad approfittare al più presto della gentilezza dei numerosi portieri volontari."
Gustaw Herling, Diario scritto di notte, traduzione di Donatella Tozzetti, Feltrinelli, 1992
E raffazzonata così, in una notte del 2010, con il consueto dubbio che l'ermeneutica del Maradagal sfugga alle regole fondamentali di tutte le altre, ma - particolare personale, eppure di significato non trascurabile - tra le pareti di una casa finalmente riscaldata.

domenica 17 ottobre 2010

L'inizio dell'inverno

L'inizio dell'Inverno, Vivaldi lo ha ripreso più volte, anche nel larghetto del Farnace. Però il Farnace, a differenza dell'Inverno, è stato preservato dalla sazietà semantica causata dalla ripetizione cui l'hanno sottoposto le infinite interpretazioni delle sue Quattro stagioni.
Farnace è il re di Ponto, ormai sconfitto dai romani, che, per non lasciar cadere la propria famiglia nelle mani dei nemici, ordina alla moglie, la regina Tamiri, di uccidere il figlio e poi di suicidarsi. Tamiri, però, non esegue l'ordine, ma Farnace, nell'aria Gelido in ogni vena, nei suoi acuti, ma soprattutto in ciascuna delle sue note discendenti, non lo sa.

Gelido in ogni vena
scorrer mi sento il sangue,
l'ombra del figlio esangue
m'ingombra di terror.
E per maggior mia pena,
credo che fui crudele
a un'anima innocente,
al core del mio cor.


Come la signora Maria Maddalena Pieri nel 1727 avesse interpretato il gelo nelle vene di Farnace, non lo so e non ho nemmeno le conoscenze necessarie per offrirne un'ipotesi. Mi limito ad ascoltarlo dalle voci delle signore e dei signori che lo interpretano oggi e, godendo appieno del privilegio della marginalità di questo blog, in cui riesco naturalmente, senza compiere sforzo alcuno, a preservare ogni tema dal rischio della saturazione, mi posso permettere di proporne più di uno senza sottrargli un briciolo della forza:





Il Farnace di Savall, affidato al baritono Zanasi, è un'altra cosa ancora, ma qui mi si deve credere sulla parola perché, contrariamente a quello che ci induce a pensare la quantità delle cose disponibili, in rete non si trova mica tutto e non tutto è condivisibile. Per fortuna. Altrimenti, oggi avrei lasciato volentieri un alito del gelo in cui è piombato il mio appartamento.

sabato 16 ottobre 2010

Nuova Jorca, 14 settembre 1830

All'età di 81 anni, un italiano che, dopo aver percorso mezza Europa, dal 1805 si trovava in America e che non si era capacitato del fatto che quasi in ogni città americana si potessero trovare "i vini e l'uva della Sicilia, l'olio, l'ulive e le sete di Firenze; il marmo di Carrara; le catenelle d'oro di Venezia; il cacio di Parma; i cappelli di paglia di Livorno, le corde di Roma e di Padova;  i rosoli di Trieste, la salsiccia di Bologna, e fino i maccheroni di Napoli e le figurettine di Lucca", ma, "per vergogna del nostro paese", non vi fosse "in tutta l'America un magazzino di libri tenuto da un italiano", potè finalmente scrivere:
Ho aperto perciò un magazzino di libri, dove m'assido al cantar del gallo, e non n'esco se non per pochi momenti, e vi rimango poi fin dopo molt'ore della notte. Son corsi già quasi cinque mesi dacché fo il mestiere di libraio. Non ho molt'occasioni, per verità, di sorger dalla mia sedia in un giorno; i compratori son pochi e rarissimi: ma io ho invece la gioia di veder a ogni istante venir alla porta mia cocchi e carrozze, e talvolta uscire da quelle le più belle facce del mondo, prendendo per isbaglio la mia bottega di libri per la bottega della mia contigua, ove si vendono zuccherini e crostate. Perché creda la gente che ho molti avventori, penso di porre uno scritto alla finestra, che dice: "Qui si vendono zuccherini e crostate italiane"; e se per questa burletta alcuno entrerà nel mio magazzino, gli farò vedere il Petrarca o qualch'altro dei nostri poeti, e sosterrò che sono i nostri più dolci zuccherini, per chi ha denti da masticarli.
Lorenzo Da Ponte, Memorie & Libretti mozartiani, Garzanti, 2003

Avreml der marvicher


On a heim bin ich jung gebliben
s'hot di nojt mir arojs getriben
wen ich hob nor keyn dreizen jor gehat
in der fremd, wajt fun mames ojgen
hot in schmutz mir di gas dertzojgen
gevorn is fun mir a vojler jat.

Ich bin Avreml der feikster marvicher
a grojser kinstler, ich arbet lajcht un sicher
dos erschte mol, ch'vel's gedenken bisn tojt
arajn in tfise far lakchenen a brojt, oj, oj
ch'for nischt ojf markn, wi jene proste jatn
ch'tsip nor baj karge schmutsike magnatn
ch'bin sich mechaje ven ch'tap asa magnat
ich bin Avreml, gur a vojler jat.

In der fremd, nischt gehat zum lebn
gebetn brojt, an ormer flegt noch gebn
nor jene lajt wos senen tomid sat.
Flegn oft trajbn mich mit zorn
s'vakst a ganev, s'is mekujem geworn
a ganev bin ich, nor a vojler jat.

Ich bin Avreml der feikster marvicher
a grojser kinstler, ich arbet lajcht un sicher
dos erschte mol, ch'vel's gedenken bisn tojt (*)
arajn in tfise far lakchenen a brojt, oj, oj (*)
ch'for nischt ojf markn, wi jene proste jatn
ch'tsip nor baj karge schmutsike magnatn
ch'bin sich mechaje ven ch'tap asa magnat
ich bin Avreml, gur a vojler jat.

Shojn nisht lang vet dos shpil gedojern
krank fun klep, gicht fun tfise mojern
nor ejn bakoshe, ch'volt azoj gevolt

Noch majn tojt in a tog a tribn
zol ojf majn matsejve shtejn geshribn
mit ojsjes grojse un fun gold:
do ligt Avreml der feikster marvicher
a mentsch a grojser gewen wolt fun im sicher
a mentsch a fajner mit hartz, mit a gefil
a mentsch a rejner wi got alejn nor wil, oj, oj
wen iber im wolt gewacht a mames ojgn
wen s'wolt di fintstere gas im nischt dertzojgn
wen noch als kind er a tatn wolt gehat
do ligt avrejml, jener vojler iat.

Mordechai Gebirtig


Sono rimasto senza casa fin da giovane,
è la miseria che mi ha spinto via da casa
quando non avevo neanche tredici anni
in luoghi stranieri, lontano dagli occhi di mia madre,
sono cresciuto in vicoli scuri e sporchi
sono diventato un bel ragazzo.

Sono Avreml, il borseggiatore con più talento,
un grande artista, lavoro con leggerezza e in sicurezza
la prima volta - lo ricorderò finché vivo -
sono stato gettato in prigione per aver rubato una pagnotta, oj oj
non lavoro nei mercati come un criminale qualsiasi,
rubo solo ai magnati sporchi e avari
sono contento quando sgraffigno qualcosa a uno di quei magnati
sono Avreml - davvero un bel ragazzo.

In luoghi stranieri, senza di che vivere
ho mendicato per il mio pane; qualche volta un povero me ne dava
ma quelli che avevano di che saziarsi
mi scacciavano con rabbia
è così che si diventa ladri
ladro lo sono, ma davvero un bel ragazzo.

Sono Avreml, il borseggiatore con più talento,
un grande artista, lavoro con leggerezza e in sicurezza
la prima volta - lo ricorderò finché vivo -
sono stato gettato in prigione per aver rubato una pagnotta, oj oj
non lavoro nei mercati come un criminale qualsiasi,
rubo solo ai magnati sporchi e avari
sono contento quando sgraffigno qualcosa a uno di quei magnati
sono Avreml - davvero un bel ragazzo.

Ma questo gioco non potrà durare a lungo
perché la vita in prigione mi ha reso malato e infermo
un'ultima richiesta, se mi è concesso di essere così ardito

Quando sarò morto, in quel giorno buio
che l'epitaffio della tomba rechi queste parole
a lettere enormi, ornate d'oro:
qui giace Avreml, il borseggiatore con più talento
fu certamente un grand'uomo
un uomo buono, compassionevole
un uomo giusto come Dio lo vuole, oj oj
se solo gli occhi di una madre avessero potuto posarsi su di lui
se solo non fosse cresciuto in vicoli scuri
se solo, da bambino, avesse avuto un padre
qui giace Avreml, quel bel ragazzo.

(*) di questi due versi della canzone non ho trovato le parole: capisco chiaramente solo "raro talento".


Oggi è il 16 ottobre.

Mehr lebendiger Sinn

Im Kino gewesen. Geweint. "Lolotte". Der gute Pfarrer. Das kleine Fahrrad. Die Versöhnung der Eltern. Maßlose Unterhaltung. Vorher trauriger Film "Das Unglück im Dock" nachher lustiger "Endlich allein". Bin ganz leer und sinnlos, die vorüberfahrende Elektrische hat mehr lebendigen Sinn.

Franz Kafka, Tagebücher, 20. November 1913

Stato al cinema. Pianto. "Lolotte". Il buon parroco. La piccola bicicletta. La riconciliazione dei genitori. Divertimento incommensurabile. Prima il film triste "L'infelicità nel cantiere", poi quello comico "Finalmente soli". Sono completamente vuoto e privo di senso, il tram che passa ha più senso di vita.

Ricardo de Baños, Barcelona en tranvía, 1908
Musica di Antonio Coppola,  2008.

Ruby

Questo è il modo in cui Ali suonava da solo. Se suonava per sé e ti capitava di essere nella sua stessa stanza, toccava dolcemente la chitarra. Era bellissimo da vedere. Invece quando entrava in studio, il volume veniva moltiplicato per 10. Questa volta, però, non lo fece.

"Ruby" è una canzone Bobo che Ali aveva sentito a San, un villaggio sulla strada verso casa, a Niafunké.

Per Toumani deve essere stata una melodia completamente nuova. Gran parte di questo repertorio gli era nuovo.

Mia figlia Ruby di cinque anni ed io eravamo seduti per terra ai piedi di Ali ad ascoltare. Siccome la kora è uno strumento dal suono sommesso, bisogna stare in silenzio durante la registrazione. Il minimo scricchiolio o respiro possono essere avvertiti. Trattenemmo il respiro per la maggior parte della canzone. Quando finì, chiesi: "Come si intitola?" Ali guardò Ruby e disse: "Ruby!"

Nick Gold in conversazione con Andy Morgan


Un'altra registrazione di Ali e Toumani (e Orlando).

venerdì 15 ottobre 2010

Versteckspiel/Cut/Nascondino

Als Kinder haben wir Versteck gespielt.
Erinnerst du dich noch an unsre Spiele.
Alle verstecken sich, einer muss warten.
Gesicht am Baum oder an einer Wand
Die Hand über den Augen, bis der letzte
Seinen Platz gefunden hat, und wer gesehn wird
Muss um die Wette laufen mit dem Sucher.
Wenn er zuerst am Baum steht, ist er frei
Wenn nicht muss er stehnbleiben auf der Stelle
Als ob der Handschlag an Baum oder Wand
Ihn an den Boden nagelt wie ein Grabstein.
Er darf sich nicht bewegen bis der letzte
Gefunden ist. Und manchmal wird der letzte
Weil er zu gut versteckt ist, nicht gefunden.
Dann warten alle, die versteinert dastehn
Jeder sein eignes Denkmal, auf den letzten.
Und manchmal kommt es vor, dass einer stirbt
Und sein Versteck wird nicht gefunden, kein
Hunger treibt ihn heraus aus seinem Tod
Der ihn gefunden hat außer der Reihe
Die Toten haben keinen Hunger mehr.
Dann fällt die Auferstehung aus. Der Sucher
Jeden Stein hat er umgedreht viermal.
Jetzt kann er nur noch warten, das Gesicht
An seinem Baum oder an seiner Wand
Die Hand über den Augen, bis die Welt
An ihm vorbei ist. Merkst du ihren Gang.
Leg deine Hand über die Augen, Bruder.
Die andern, die der Sucher an den Boden
Genagelt hat mit seinem Handschlag an
Baum oder Wand, weil sie nicht schnell genug
Gelaufen sind aus ihrem Versteck, das nicht
Sicher genug war, und jetzt haben sie
Für ihre Augen keine Hand, weil sie
Sich nicht bewegen dürfen und die Augen
Schließen dürfen sie auch nicht nach der Regel.
Wie Steine auf dem Friedhof warten sie
Mit offnen Augen auf den letzten Blick.

Heiner Müller, Zement, Geschichten aus der Produktion 2, Rotbuch Verlag, Berlin, 1974

Da bambini abbiamo giocato a nascondino.
Ti ricordi ancora dei nostri giochi.
Tutti si nascondono, uno deve aspettare.
Voltato verso l'albero o una parete
La mano sugli occhi, finché l'ultimo
Non abbia trovato il proprio posto, e chi viene visto
Deve sfidarsi a correre con chi sta sotto.
Se arriva all'albero per primo, è libero
Se no, deve restare sul posto
Come se il tocco della mano sull'albero o sulla parete
Lo inchiodasse al suolo come una lapide.
Non può muoversi finché l'ultimo
Non viene trovato. E talvolta l'ultimo
Non viene trovato perché si è nascosto troppo bene.
Allora tutti aspettano l'ultimo, i catturati se ne stanno lì
Ognuno il proprio monumento.
E talvolta capita che uno muoia
E il suo nascondiglio non venga trovato,
La fame non lo richiama dalla morte
Che l'ha colto fuori dai ranghi
I morti non hanno più fame.
Allora la risurrezione è sospesa. Chi sta sotto
Ha rivoltato quattro volte ogni pietra.
Ora non può che aspettare, il volto
Al proprio albero o alla propria parete
La mano sugli occhi, finché il mondo
Non gli sia passato dietro. Osserva la sua andatura.
Metti la mano sugli occhi, fratello.
Gli altri, che chi sta sotto ha inchiodato
Al suolo con il tocco della mano
All'albero o alla parete, perché non sono corsi
via abbastanza velocemente dal proprio nascondiglio, che non era
Abbastanza sicuro, e ora non hanno
Nessuna mano per gli occhi, perché
Non si possono muovere e non possono neanche
Chiudere gli occhi, in base alle regole.
Aspettano come pietre al cimitero
Con occhi aperti l'ultimo sguardo.

Cut

A zughé a cut bsògna avài òc, ès féurb.
Mè a cnòss di póst, di béus ch’a i so sno mè.
Stavólta a m so masè tramèza agli asi
de magazéin de lègn ad Bigudòun.
A i sint ch’i zcòrr, ch’i cèma,
a sbarlòc dal fiséuri, a i vèggh ch’i zéira,
ch’i s’inségna se daid dò ch’i à d’andé.
Mè aspétt aquè, a n mu n móv, a téngh e’ fiè.
Adès u m pèr ch’i s séa un pó sluntanè,
mè a stagh sémpra masèd, l’è bèla un’òura,
a m’inféil t’un budèl piò strètt, acsè,
fra do cadasi, a i ví fè dvantè mat.
Mo dò ch’i è? a n’i sint piò,
i n capéss mégga gnént, i va purséa.
E’ sarà piò ’d do òuri ch’a so què,
l’è da òz dopmezdè, u s fa nòta, e lòu,
puràz, i zirca sémpra, mo i n mu n tróva,
e a i ví vdai a truvèm dréinta sté béus.
E’ pò ès ènca ch’i apa pérs la vòia,
che e’ zugh u s séa smanè, ch’i séa ’ndè chèsa.
Pézz par lòu, mè a stagh bón tra tótt’ stagli asi,
aquè sòtta u n mu n tróva piò niseun.

Raffaello Baldini, La nàiva Furistír Ciacri, Einaudi, 2000


Per giocare a nascondino bisogna avere occhio, essere furbi.
Io conosco dei posti, dei buchi, che so solo io.
Stavolta mi sono nascosto fra le assi
del magazzino del legno di Bigudòun.
Li sento che parlano, che chiamano,
sbircio dalle fessure, li vedo che girano,
che si indicano col dito dove devono andare.
Io aspetto qui, non mi muovo, trattengo il fiato.
Adesso mi pare che si siano un po’ allontanati,
io sto sempre nascosto, è ormai un’ora,
m’infilo in un budello più stretto, così,
fra due cataste, li voglio far diventare matti.
Ma dove sono? non li sento più,
non capiscono mica niente, vanno purchessia.
Saranno più di due ore che sono qui,
è da oggi pomeriggio, si fa notte, e loro,
poveracci, cercano sempre, ma non mi trovano,
e li voglio vedere a trovarmi in questo buco.
Può darsi anche che abbiano perso la voglia,
che il gioco si sia smagliato, che siano andati a casa.
Peggio per loro, io sto buono fra tutte queste assi,
qui sotto non mi trova più nessuno.

Versione bellica
Versione ticinese

giovedì 14 ottobre 2010

Umwege

Ich fahre viel auf dem Motorrad, ich bade viel, ich liege lange nackt im Gras am Teiche, bis Mitternacht bin ich mit einem lästig verliebten Mädchen im Park, ich habe schon Heu auf der Wiese umgelegt, ein Ringelspiel aufgebaut, nach dem Gewitter Bäumen geholfen, Kühe und Ziegen geweidet und am Abend nachhause getrieben, viel Billard gespielt, große Spaziergänge gemacht, viel Bier getrunken und ich bin auch schon im Tempel gewesen. Am meisten Zeit aber – ich bin sechs Tage hier – habe ich mit zwei kleinen Mädchen verbracht, sehr gescheidten Mädchen, Studentinnen, sehr socialdemokratisch, die ihre Zähne aneinanderhalten müssen, um nicht gezwungen zu sein bei jedem Anlaß eine Überzeugung, ein Princip auszusprechen. Die eine heißt Agathe, die andere Hedwig. Agathe ist sehr häßlich und Hedwig auch. H. ist klein und dick, ihre Wangen sind roth ununterbrochen und grenzenlos, ihre obern Vorderzähne sind groß und erlauben dem Mund nicht, sich zu schließen, und dem Unterkiefer nicht, klein zu sein; sie ist sehr kurzsichtig und das nicht nur der hübschen Bewegung halber, mit der sie den Zwicker auf die Nase – deren Spitze ist wirklich schön aus kleinen Flächen zusammengesetzt – niedersetzt; heute Nacht habe ich von ihren verkürzten dicken Beinen geträumt und auf diesen Umwegen erkenne ich die Schönheit eines Mädchens und verliebe mich.

Triesch, Mitte August 1907, Brief an Max Brod

Vado molto in motocicletta, faccio spesso il bagno, sto steso a lungo nudo nell'erba allo stagno, fino a mezzanotte sto al parco con una ragazza fastidiosamente innamorata, ho già rivoltato il fieno sul prato, installato una giostra, soccorso alberi dopo il temporale, pascolato mucche e capre e la sera le ho ricondotte a casa, ho giocato molto a biliardo, fatto lunghe passeggiate, bevuto molta birra e sono anche già stato al Tempio. Però la maggior parte del tempo - sono qui da sei giorni - l'ho passato con due piccole ragazze, ragazze molto particolari, studentesse, molto socialdemocratiche, che devono mordersi la lingua per non essere costrette, ad ogni occasione, ad esprimere una convinzione, un principio. Una si chiama Agathe, l'altra Hedwig. Agathe è molto brutta e Hedwig anche. H. è piccola e grassa, le sue guance sono ininterrottamente e illimitatamente rosse, i suoi incisivi superiori sono grandi e non consentono alla bocca di chiudersi e alla mandibola di essere piccola; è molto miope e questo non solo per il gesto carino con cui abbassa il pince-nez sul naso, la cui punta è veramente ben composta da piccole superfici; stanotte mi sono sognato delle sue grasse corte gambe ed è grazie a queste vie traverse che riconosco la bellezza di una ragazza e mi innamoro.

Triesch, metà agosto 1907, Lettera a Max Brod

mercoledì 13 ottobre 2010

101 ragioni per imparare l'ungherese - 8

Perché conoscendo solo l'articolo indefinito (egy) e il triestino paiazo (pagliaccio), si riescono già a capire i titoli degli articoli di giornale:


E persino intuire qualcosa di più: Gentile, ahogy most, úgy akkor sem maradt adós a válasszal: „A futball nem a balerináknak való!”

Poema social

Aprovechando el sol en este invierno crudo,
los obreros de la fábrica, en su hora de descanso,
formaron una hilera de cascos amarillos
en la vereda de enfrente.
Si no fuera por el rubio, que se rasca la cabeza,
parecerían una fila de lápices
del mismo color.

Fabián Casas, El salmón, Libros de tierra firme, Buenos Aires, 1996


Approfittando del sole in questo inverno crudo,
gli operai della fabbrica, durante la pausa pranzo,
hanno formato una linea di caschi gialli
sul marciapiede di fronte.
Se non fosse per il biondo, che si gratta la testa,
sembrerebbero una fila di matite
dello stesso colore.

martedì 12 ottobre 2010

wie leicht

wie leicht Grenadine mit Seltz beim Lachen durch die Nase geht
(Bar vor der Opera comique)

Franz Kafka, Reisetagebuch Lugano-Paris-Erlenbach, September 1911

come va facilmente nel naso la granatina col seltz, quando si ride
(bar davanti all'Opéra comique)

Aha.

lunedì 11 ottobre 2010

1963-2010

La prima volta che l'ho visto in libreria non ci credevo, che potesse essere vero: ho pensato ad un miraggio e sono passata oltre. La seconda volta l'ho preso in mano. La terza volta l'ho sfogliato. La quarta volta l'ho sfogliato più a lungo. La quinta volta ne ho letto delle note. Ogni volta, mi sono trattenuta dall'acquistarlo: mi sarebbe parsa una cosa priva di senso, vista la forza con cui mi si era conficcata nel cervello e nel cuore la sua versione originale dopo averla letta almeno due volte, una volta integralmente ancora a Trieste, una seconda volta in loco, in provincia di Vicenza, altre, innumerevoli volte, a pezzi, sfogliandola e risfogliandola.

Ora penso che lo prenderò. Di più, penso che ne prenderò due esemplari: uno per me, uno da riporre in bella vista a fianco dei dizionari comuni dell'ufficio, a beneficio ed uso di tutti.

Certe imprese vanno ricordate come si deve.
Nonostante la notevole importanza dell'opera di Luigi Meneghello nel panorama letterario italiano, il suo romanzo più celebre e il più celebrato, Libera nos a malo, apparso per la prima volta da Feltrinelli nel 1963, non era ancora stato tradotto in francese.
Non è affatto l'effetto di una dimenticanza o di una distrazione degli editori e dei traduttori: il testo pone dei problemi di trasposizione in francese che hanno costituito più di qualche ragione per dissuadere gli uni e gli altri. In questa evocazione della sua infanzia e della sua giovinezza dagli anni '20 agli anni '60 nel paese di Malo, in provincia di Vicenza, Meneghello non si accontenta di ricorrere qua e là al(ai) dialetto(i) della sua regione, il che genera già delle grandi difficoltà, molto di più: il dialetto diventa una delle questioni decisive del racconto, in qualche modo il personaggio centrale. Non si tratta più solo di "rendere" in francese delle parole, delle espressioni e dei modi di dire insoliti per un italiano che non conosca il dialetto di Malo, bisogna anche rendere conto della tensione tra "la lingua" (l’italiano), lingua dei libri, delle idee e degli inni, e la parlata quotidiana (il dialetto), lingua delle cose, dei giochi d'infanzia e della vita, e delle implicazioni sia cognitive, sia poetiche sia politiche che questa tensione comporta.
Fin dall'inizio della traduzione, mi è parso che il ricorso all'argot, a un francese popolare o a delle semplici alterazioni fonetico-grafiche non sarebbe potuto bastare a questa impresa. «Pauv’ gars» non è accettabile per tradurre «poaretto», «mioche» non è adatto per «putèo», né «chatte» per «mona». Si è presto imposta l'idea di andare ad attingere ad un «patois» francese se non la totalità dei termini dialettali da tradurre, anteponendo in ogni caso la logica alla loro traduzione.
Si può obiettare che la realtà dei dialetti in Italia non corrisponda o non corrisponda più a quella dei patois, se non altro perché questi sono ormai quasi totalmente desueti e (quindi) incomprensibili, mentre i primi resistono. Senza dubbio. Ma, da una parte, il dialetto di Meneghello è solo in parte comprensibile al giorno d'oggi, persino ad un abitante della sua regione; d'altra parte, è in gran parte oscuro per un italiano «normale» (che non conosca i dialetti del Vicentino); infine, all'epoca in cui si svolge il racconto, in Francia, i patois avevano ancora, almeno in certe regioni, una certa vivacità e, ancor oggi, certe incrostazioni che persistono nelle parlate locali.
La mia scelta è caduta su un patois francese appartenente ad una zona geografica abbastanza precisamente circoscritta. Lascio al lettore, se lo desidera, il piacere di indovinare quale. In caso di necessità, quando un termine mancava nel mio patois d'elezione, ho "pescato" dai patois vicini, limitrofi geograficamente e/o linguisticamente. In qualche caso, ho dovuto optare per l'invenzione. L'ho fatto sforzandomi sempre di rispettare il "genio della lingua" di Meneghello, cercando al contempo di concepire delle invenzioni verosimili nell'ambito del "patois" di destinazione scelto.
Una volta adottato questo metodo di traduzione, le difficoltà si presentano sotto una nuova luce. Meneghello pone il lettore italiano "normale" davanti a quattro tipi di situazioni:
– un termine (parola, espressione, modo di dire) in dialetto perfettamente comprensibile in tutta Italia perché si è ampiamente diffuso in tutto il paese (esempio: «mona» per designare il sesso femminile), o attraverso le sue similitudini (a volte ancora accentuate nella trascrizione che ne dà Meneghello) con un termine italiano;
– un termine in dialetto non immediatamente comprensibile, ma molto facilmente deducibile (almeno approssimativamente) dal contesto o oggetto di una spiegazione nelle note con cui l'autore adorna il suo testo;
– un termine in dialetto non immediatamente comprensibile, oggetto di una spiegazione in una nota, ma attraverso una spiegazione a sua volta non immediatamente comprensibile (traduzione di un termine dialettale con ... un altro termine dialettale);
– un termine in dialetto non immediatamente comprensibile di cui non viene offerta alcuna spiegazione.
In tutti i casi, mi sono sforzato di modulare la traduzione in modo da porre il lettore francese in una situazione analoga a quella che crea il testo di Meneghello per un lettore italiano «normale».
La mia scelta è consistita insomma nel non sacrificare mai la carica di fastidio del testo originale, e nel non ripiegare l'insolito su un gergo più o meno mascherato. Si tratta, ogni volta, di misurare il "grado" di estraneità di tale o tale termine o modo di dire, e di tentare di trasporre questo fastidio in modo altrettanto fedele nella traduzione francese.
Ringrazio tutte coloro e tutti coloro che mi hanno aiutato in questo compito tanto arduo quanto appassionante: Giovanna Massignan, per le sue insostituibili spiegazioni sul dialetto; Michel Valensi, che è all'origine di questa traduzione, per le sue riletture minuziose e i suoi fini suggerimenti; gli allievi del Centre Européen de Traduction Littéraire di Bruxelles, per i loro incoraggiamenti; Dominique Vittoz, che ha aperto la via; Claudia Zudini per il suo ascolto competente e i suoi incoraggiamenti; Julien, Joachim e Marcélio, per l'entusiasmo per la vita che devo loro.
Senza il loro aiuto e la loro presenza, questa traduzione non avrebbe visto la luce.
Christophe Mileschi, autore della prima versione francese di Libera nos a malo.

*

Ça commence par un orage. Nous sommes arrivés hier soir et ils nous ont mis à dormir comme toujours dans la grande chambre, qui est du reste celle où je suis né. Avec les grondements du tonnerre et les crépitements de la pluie, je me suis senti de nouveau à la maison. C’étaient des roulements, des vagues qui s’achevaient en un ébrouement: bruits connus, choses de mon pays. Tout ce que nous avons ici est mouvementé, vif, peut-être parce que les distances sont courtes et fixes comme dans un théâtre. Les crépitements retentissaient dans les cours alentour, les grondements là-haut sur les toits; je reconnaissais à l’oreille, un peu plus haut, la position du Dieu familier qui faisait les orages quand nous étions enfants, un gars du pays lui aussi. Ici, tout est comme intensifié, question d’échelle probablement, de rapports internes. La forme des bruits et de ces pensées (mais en fait c’était la même chose) m’a semblé un moment plus vraie que le vrai, mais on ne peut plus refaire ça avec des mots.


La surface est élastique, on ne tient pas debout, on cherche l’équilibre en dansottant: on s’enfonce et on remonte les jambes bien écartées, comme c’est amusant! Ils rient et je ris moi aussi, en reprenant l’équilibre je chante: Aux armes nous sommes fassistes, à bas les coumounistes! Quel beau jeu, quelle différence infime entre tomber et rester debout: tout le matin est d’or. Et du fassio nous sommes les éléments, quelles paroles magnifiques, qui sait ce qu’elles peuvent bien vouloir dire?
Des années passèrent avant que j’apprenne à distinguer la danse le matin sur le haut lit de papa et maman du rire et des paroles. Mais en son temps, j’entendis bien le programme enivrant:


La lutte nous la soutiendrons de ch’qu’à la mort
l’ennemi nous l’empoignerons toujours très fort
tant qu’il nous restera un peu de sang au co’r.


Les poings d’empoignerons je me les représentais assénés comme des coups de poignard de haut en bas.


Il y avait des chansons pleines de concepts poignants, avec de délicieux dangers en arrière-plan.


Maman ne pleure pas si y’a une avancée
ton fils est fort et vaincre nous saurons
essuie les larmes de ma fillancée
car lassaut on l’emporte ou faut que nous mourons.

Suivaient les instructions à l’Ardito:


Il enjambe les monts – dévore la plaine
poignard aux dents – granades à main.


J’aimais la syntaxe terrifiante du dernier vers, compris avec l’élan de l’âme-enfant pour ce qu’il était en effet, une compression de avec le poignard entre les dents et les grenades à la main.
Tels étaient les Arditi, enjambeurs de monts dans le grand écart des coureurs de haie, dévorateurs de plaine, piano en italien. Le piano en question m’apparaissait noir et brillant, éclairé par deux abat-jour, muni lui aussi d’une dentition éblouissante de touches. L’Ardito en vert-de-gris avec son béret noir, tout d’abord l’enjambait dans son élan, puis il se retournait et le croquait vite fait.

Vibrelânes, mans à la poitrine!
qui veut ses tanches, deux vers tuent:
il f’rait mieux, Italie, ton oignon,
et dans ces freins, miss, mâ c’est toi!


La forme poétique mâ c’est toi pour c’est toi ne suffisait pas à nous confondre les idées, ni l’archaïsme de mans pour mains. L’ordre était de les porter à la poitrine, horizontalement, en une forme inconnue mais austère de salut: comme un signe de reconnaissance en usage chez les vibrelânes dont, de quelque façon, nous sentions, en chantant, que nous faisions partie ad honorem nous aussi.
Les freins où l’Italie se trouvait entravée étaient pour Bruno ceux de notre Fiat Type-deux, externes, sur le marchepied arrière, derrière la hampe du fanion en triangle: et c’est là que t’y avais l’Italie avec sa couronne de tours et sa robe de chambre blanche.


Ici au pays quand j’étais enfant il y avait un Dieu qui habitait à l’église, dans les espaces immenses au-dessus du maître-autel où l’on voyait en effet suspendu en hauteur un fier portrait de lui parmi les rayons de bois doré. Il était vieux mais très en forme (moins vieux que saint Joseph, bien sûr) et très sévère: il était incroyablement perspicace et c’est pourquoi nous l’appelions omniscient, et le fait est qu’il savait tout et, pire, voyait tout. Il était aussi omnipotent, mais pas de manière absolue: sinon, il se serait baladé avec une paire de ciseaux pour couper la brichotte à tous les enfants qui faisaient des cochoncetés. Les petits adeptes de la brichotte étaient ses ennemis mortels, et s’il avait pu il les aurait sans doute aucun punis comme ça, mais grâce à Dieu il ne pouvait pas.


«La Norma, c’est moi qui la prends, toi tu prends la Carla.»
Et moi je prenais la Carla, mais en secret j’admirais la Norma. La pâleur de la Norma! Ce blanchiment de la peau à l’intérieur des cuisses. La Carla était une belle gachenotte, bouclée et bien faite, à la peau sombre, cordiale; mais la Norma était un doux piège dans lequel je me languissais de tomber.
Mais je prenais la Carla: l’idée de contredire Piareto ne m’effleurait même pas. J’étais le plus jeune (et la Norma, qui avait peut-être six ans, la plus vieille) et ce n’était pas à moi de choisir. Et puis j’aurais été désolé d’offenser la Carla, si sympathique et volontaire.
Ainsi, dans le touffu des plantes grimpantes au milieu du jardin, dans une pénombre verte sous-marine, nos épées de bois déposées entre les rangées d’arbres fruitiers, nous faisions les cochoncetés avec nos femmes couchées par terre.
Mais avec la Norma j’eus une heure de ravissement sublime dans la grande pièce au-dessus de la cave, derrière un objet que je me rappelle dans ses formes essentielles, nid écran toit, probablement un moignon de carrosserie de voiture. Il y avait des surfaces garnies de cuir, des rideaux de soie avec le mécanisme à ressort et le petit bout de ruban pour les abaisser sur les fenêtres sans vitres. C’était l’un de ces nombreux tas de ferraille qu’il y avait là-dedans: nous l’avions hissé sur des bidons et des tréteaux, tout là-haut au niveau de la fenêtre qui donne sur les champs. On se sentait comme dans un salon sans le mur du fond, mais bien à l’abri du monde.
Nous grimpâmes là-haut la Norma et moi pour jouer, et sans accords préliminaires, sans le moindre mot, je fus admis pour une heure trop brève à la communion des surfaces exsangues, du doux nœud où elles pâlissaient.
Actzinpurs! Pour la première communion qu’on faisait à l’église à sept ans, on nous habillait en moussaillons; et les petites filles en blanc. Quand vint mon tour et que je dus aller me confesser pour la première fois, il était bien clair pour moi que je devais aussi confesser les cochoncetés, des années et des années, une vie entière de cochoncetés: mais comment, avec quels mots? C’est la Norma qui me l’apprit. Elle avait fait sa communion quelques années plus tôt, après quoi elle avait pendant un certain temps évité les jeux interdits, auxquels elle ne revint ensuite que rarement et en rechignant.
Un jour que je faisais pipine sur le muret du tas de fumier, passa la Norma qui allait au jardin avec son panier en fil de fer pour cueillir la salade. Je me tournai vers elle, et je me mis à l’inviter joyeusement en agitant de ce que je tenais dans ma menotte. Mais la Norma s’indigna.
«Va-t’o de d’là, cous’tchon!» me dit-elle. «Oblie pas que bientôt tu fas ta coumnïon!»
Plus tard nous nous rencontrâmes dans la cour (le soir tombait) et tandis que nous allions et venions, la Norma me confia la formule grâce à laquelle on se confesse. Je l’appris bien par cœur et le moment venu je la répétai au curé: «Actzinpurs.»
Aux adultes et aux curés le jeu que l’on croyait secret était parfaitement connu; mais ils l’appelaient comme ça.


Chaque confesseur avait son style et ses préférences; de sorte qu’on essayait de choisir celui-ci ou celui-là en fonction des péchés de la semaine. Le problème pratique principal, c’était les pénitences, qui pouvaient varier considérablement. Les plus vieux donnaient des conseils aux inexperts: «Ce coup-là t’as intérêt à voir Bocaléti, mais vers le soir.» Bocaléti, à savoir don Emanuele, vers le soir était plus généreux.
Don Antonio était maigre et doux, il avait une petite voix tremblante et il émanait de lui un air d’innocence et de correction tel que nous étions sincèrement désolés de devoir aller le troubler avec nos méchancetés. Mais quand on y allait, la confession s’avérait des plus faciles.
On parlait des désobéissances, des retards à la messe, des disputes, des gros mots; on brodait sur certains péchés génériques comme l’envie et la vanité, histoire de gagner du temps, la pensée toujours fixée sur le point crucial. À la fin don Antonio posait la Question, qu’il était le seul à Malo à poser de cette façon: «As-tu manqué – contre la Sainte Modestie?» C’était une périphrase toute personnelle pour désigner les actzinpurs; et la délicate formule permettait des réponses tout aussi délicates, un échange d’idées entre gentilshommes. Ainsi, sans user de termes impropres, bien proprement comme dans un questionnaire («Combien de fois?» «Neuf.» «Tout seul ou avec d’autres?» «Avec d’autres.» «Avec d’autres eux, ou d’autres elles?» «Elles.»), on se retrouvait à la fin de la confession, et absous, avec juste trois jevousalumarie à dire. Puis on filait en vitesse pour aller jouir de quelques heures d’innocence totale, avec la certitude délicieuse d’avoir, si elle devait survenir ce soir-là, une bonne mort, d’entrer dans le chœur des anges.


Anzelots, c’est ce nom que nous donnions aux petits êtres de notre pays, aux infants ayant vécu trop peu de temps pour ne pas devenir aussitôt des angelots au moment même de rendre leur dernier souffle sur la terre.
«Pour qui on sonne la cloche?»
«T’entends pas? c’est un anzelot.»
Tous les autres jours aussi la cloche sonnait comme ça. Ça mourait dru, et aux mois les plus cruels, par les grandes journées d’été, nous vivions dans un nuage de petits anges en chemin vers le ciel, qui nous voilait le soleil.
Roberto, le premier Roberto de ma tante Lena, dont celui de maintenant renouvelle le nom, mourut à l’âge de quatre ans d’une gastroentérite. Quand je compris qu’il était en train de mourir, je passai quelques heures d’absolu désarroi; la bonne d’enfants m’avait accompagné chez ma grand-mère et là, dans l’entrée, parmi les pots de plantes vertes près de la fenêtre, l’idée que Roberto mourait m’assaillait par intermittence. Je ressentais le déchirement et l’abîme, mais pas la terreur ni la perte. Ce qui se passait me paraissait insupportable; je sentais que d’un côté il y avait moi, que de l’autre il y aurait bientôt cette chose, et je ne pouvais pas croire qu’on pourrait coexister. J’avais sept ans, et ces tourments existentiels sont parmi les pires dont j’aie gardé souvenir.
Maintenant la chose est là, Roberto est mort, un objet couleur de cire qui ressemble à Roberto est posé sur le divan dans la salle de séjour de ma tante. Maintenant, il m’est déjà plus facile de le supporter, dans cette atmosphère ouatée de deuil qui étouffe les bruits: c’est comme si la mort des personnes chères produisait en plus de tout le reste un souffle de soulagement. Le portail du porche est fermé; chez nous et chez ma tante, au-delà et en deçà du portail, règne le silence. Même Bruno et Mamo notre cousin, qui ont l’âge de Roberto, ne font pas de chahut. Ils sont dans l’entrée, ils épient par le trou de la serrure ce qui se passe dans la salle de séjour de la tante, puis ils se prennent par la main et exécutent sur la pointe des pieds une petite danse de joie. À voix basse, les sourcils en accents circonflexes, comme incrédules d’une telle chance, ils scandent l’hilarante formule: «L’est mort ! L’est mort!»
Le jour où on l’enterra, on installa dans le potager un fauteuil à haut dossier, orné de cabochons en laiton, et les pieuses dames y accompagnèrent tante Lena. Notre potager laissait entrer les coups du clocher, au fond il y avait un grand pin, c’était le mois d’août. La tante Lena en noir s’était abandonnée dans l’absurde fauteuil parmi les plates-bandes de dahlias et de légumes; les pieuses dames marmonnaient.
C’était ce moment que les cérémonies de la mort sont faites pour isoler dans sa pureté, ce moment irrationnel du déchirement, où la douleur n’a plus de sens et l’on dirait un rêve d’été commenté par les poules et les coléoptères, dans un épanchement soudain d’espace entre l’ici et les collines, translucide, infesté par le gong de la cloche.


Pendant les épidémies, la cour était occupée par une escouade de petits bonshommes malicieux au capuchon et à la cape rouges, qui balançaient des giclées de gadoue contaminée; le mortier provoquait une gale dont on mourait en quelques instants; c’était ça, l’épidémie. La cour était tout encombrée de petites caisses de bois tendre, en construction; on amoncelait celles qui étaient pleines au fond, contre le mur de la tante Lena. Pour sauver sa vie, il fallait atteindre la pompe, qui n’était en fait qu’un robinet, devant la couchelle de la tante, et avec l’eau édieuzer immédiatement les contaminés. Et alors, pourquoi nous éloignions-nous de la pompe? Pourquoi courions-nous au beau milieu des nains, risquant sans cesse notre vie parmi les caisses entassées? Pourtant, c’était toujours ce que nous faisions, tous les deux ou trois mois, quand survenait l’épidémie. Quand elle venait, j’allais jusqu’à en rêver la nuit, ou plutôt: je ne me la rappelle même pas directement, mais seulement à travers ces rêves que je faisais tous les deux ou trois mois.
Un angelot s’envola depuis une cour juste au-dessus de chez nous à Capovilla. C’était une cour de terre battue, pas une cour pavée comme la nôtre. Il y avait la pétrisseuse à glaise : un ânon étourdi tournait, tournait autour du petit cratère sombre creusé dans le terrain, où de longues lames d’acier sabraient l’argile. Restez pas près de la machine aux couteaux, les enfants! Oui, mais si la balle en caoutchouc roule là-dedans, on va voir, on tend la main. Les petits morceaux d’ange ont tous leur propre paire d’ailes transparentes comme celles des libellules, et chacun monte au ciel sans se soucier des autres.


On imprimait dans notre esprit qu’il était bon de commencer la confession par les péchés les plus gros. C’est comme quand le paysan doit faire passer par une haie d’épines un poussin et sa mère, et le chien, et la chèvre, et le cochon, et la vache; s’il commence par le plus petit, les efforts et les éraflures recommencent à chaque passage. Mais s’il envoie la vache devant, pour qu’elle défonce la haie bien comme il faut, ensuite les autres passent plus commodément. La vache, le plus souvent, c’était toujours la même, la Guiguite des cochoncetés, mais nous ne trouvions pas à chaque fois le courage de l’envoyer la première. Quelquefois, on arrivait à l’église avec une autre vache. Celle de Mino, un certain samedi, était vraiment très grosse; il la menait derrière lui gêné, et la Noiraude rechignait, comme si elle n’avait pas la moindre intention d’entrer là-dedans; mais à force de secousses, Mino, le visage tout rouge, la traîna jusqu’au confessionnal. Mais quant à la faire passer la première, il n’y songeait même pas. Il confessa donc tous ses autres péchés, un par un; il fouilla même dans son passé le plus lointain, il s’accusa de fautes purement hypothétiques, discuta avec minutie les cas-limites. Il fut loué pour son zèle et exhorté à ne pas tomber dans l’excès de scrupule: restait maintenant à faire passer la Noiraude.
Le curé avait cessé depuis un moment de demander «Et après?» et quand Mino se tut, il commença aussitôt à prononcer les formules qui préludent à l’absolution. Pris de panique, Mino fit avancer promptement la Noiraude.
«J’ai encore un autre péché, un gros péché. J’ai dit du mal des curés.»
Le ton angoissé alarma le confesseur, qui voulut savoir exactement ce qu’il avait dit des curés; mais Mino résistait. «Ah, vous savez, un truc... Du mal, quoi.» Mais à la fin, il lui fallut rapporter les mots exacts. Il avait dit que les curés sont des baouattes à tabac.
Au lieu de s’indigner à la vue de la Noiraude, le confesseur fut pris d’une violente crise de rire, et Mino, éreinté et presque déçu, dut attendre encore plusieurs minutes son absolution.


Aucun d’entre nous ne parvint à répéter l’expérience qu’avait faite mon père, quand il avait dans les dix ou douze ans, à l’église de Sainte-Délivrance, au Castello. Il n’y avait personne dans l’église, et mon père eut envie de voir comment on se sent à l’intérieur de l’alcôve du confessionnal. On s’y sentait très bien, mais malheureusement une dévote passa par là, qui, voyant les rideaux tirés, eut l’idée de profiter de l’occasion. Épouvanté, mon père la confessa, en essayant de grossir sa voix, et à la fin il lui donna l’absolution; mais il n’a jamais voulu nous donner d’autres détails, car le secret de la confession est sacré.


La douleur imparfaite, ça n’avait pas l’air trop difficile de se la procurer: il suffisait de ressentir non pas de la «douleur» dans le sens ordinaire du mot, mais le «regret d’avoir offensé Dieu par crainte de ses châtiments, ad exemplum les peines de l’enfer».
Voyons, est-ce que j’irais en enfer pour ces péchés-là? La réponse ne faisait aucun doute. Et est-ce que je regretterais d’aller en enfer? Bien sûr que oui. Donc j’avais la douleur imparfaite, et comme c’est suffisant pour la confession, on aurait pu s’en tenir là. Mais pour mon malheur, ce raisonnement – avalisé plusieurs fois par de prudents appels à l’autorité – ne me satisfaisait pas entièrement. S’en sortir comme ça me semblait trop facile: qui donc ne regretterait pas d’aller en enfer? Pourquoi faudrait-il spécifier la nécessité de la douleur imparfaite si elle ne consistait vraiment qu’en un sous-entendu?
La solution la plus radicale aurait été de se procurer l’autre douleur, qui s’appelle parfaite justement parce qu’elle offre des garanties absolues; mais c’était une entreprise trop ardue et trop incertaine. De sorte que j’étais arrivé à un compromis: je me contenterais de la douleur imparfaite, mais en l’entendant, plutôt que comme un privilège implicite, comme un sentiment à éprouver pour de bon. Il s’agissait de se représenter les conséquences du péché le plus vivement possible, autrement dit comme si elles étaient déjà devenues effectives; de me mettre dans la peau de ce sosie à moi qui avait eu la poisse de repartir sans l’absolution. Je savais bien comment ça se passerait dès le premier quart d’heure: je me retrouverais pieds nus, en chemise de nuit, dans un endroit éclairé de reflets désagréables, en attente. Comment me sentirais-je alors, hein?
Me concentrant longuement sur les bancs de l’église, déposant longuement mon visage dans les paumes de mes mains, je guettais patiemment la proie incertaine de ma douleur imparfaite. J’étais distrait par les cloches, par les bricolages du sacristain, par les chuchotements des autres déjà prêts à partir: «Allez, viens, sinon tu vas te transformer en saint.» Mais je persévérais: et quand la Douleur battait brièvement des ailes dans la géométrie rougeâtre que mes mains imprimaient sur mes paupières, mon cœur bondissait comme celui d’un chasseur et je l’attrapais.
Je pouvais maintenant me délivrer à moi-même un certificat de douleur éprouvée. Se permettre de douter plus avant, ç’aurait été verser dans l’excès de scrupules.
La douleur parfaite, c’était une tout autre affaire. Normalement, je me contentais du succédané, mais de temps en temps survenait une crise.
En premier lieu, une considération pratique: si en se confessant régulièrement la douleur imparfaite peut suffire, il est par trop évident en revanche que sans confession elle ne vaut rien; l’avoir ou ne pas l’avoir revient exactement au même, on coule comme une pierre. Il est vrai que, semaine après semaine, on finit toujours par arriver à la confession; mais en cas de besoin, comment se bercer de l’illusion qu’on aurait justement la chance de mourir le dimanche, ou à la rigueur le lundi matin? Parce que le reste de la semaine, on tendait naturellement à le passer en état de péché mortel. Et ça serait quand même très amer de se retrouver à l’article de la mort, de se voir faire cette offre au fond très généreuse d’un pardon total en échange d’un petit acte de douleur parfaite, et de ne pas réussir à le faire, ce satané petit acte. Virge Mâmie! Te sentir mourir peu à peu, étourdi par les femmes qui pleurent autour de toi, par le miroir qu’on te met sous le nez pour voir si tu respires encore: et de douleur parfaite, point! Ne serait-il pas prudent de s’exercer, de s’entraîner ?
Mais il y avait aussi un souci plus subtil. Il me semblait que dans la confession le fait même d’accepter le pardon facile sans au moins essayer de mériter le difficile (et, en somme, sans souffrir sérieusement d’avoir offensé Dieu) constituait en tant que tel un nouveau péché, non compris dans le pacte de la confession. Il faudrait en parler au confesseur, au risque de s’entendre répondre que ce ne sont là que scrupules. Avec quelle odieuse gourmandise certains pécheurs et pécheresses ne profitaient-ils pas de telles échappatoires: «Les scrupeules, c’est le curé qui l’a dit, faut pas se faire d’scrupeules, c’est péché.» Mais moi je savais bien que ce n’étaient pas des scrupules. C’était comme dire au bon Dieu: «C’est toi qui l’as voulu. Ben alors tiens, voilà.»
Alors je me torturais pour m’infliger, ne serait-ce que l’espace d’un instant, la douleur parfaite. La technique était difficile et complexe, le temps nécessaire était long, le résultat incertain. Mais je m’obstinais, et certaines fois, mon entreprise fut couronnée de succès: je me relevais alors épuisé, heureux, avec la tête qui tournait. En ces rares occasions, et jamais plus de quelques heures durant, je fus absolument digne du ciel. Malheureusement la plupart du temps je devais renoncer et me contenter d’espérer que tout irait bien.


Qui sait si Ampelio connut la douleur parfaite, la fois où il se confessa avec don Emanuele?
On pouvait se confesser chacun pour soi, comme les adultes, en deçà du maître-autel, dans les confessionnaux réservés aux différents curés, don Tarcisio, Baéti autrement dit don Antonio, l’Archiprêtre, Battilana; il était préférable de se sentir protégé par la grille, même s’ils nous reconnaissaient aussitôt à la voix. Mais à nous, les enfants, il nous arrivait souvent de devoir nous confesser en Chœur, et par groupes.
«Eh, vous vous êtes déjà confessés, vous autres? Alors on y va.»
On allait se mettre à genoux tous en rang sur un banc derrière l’autel. À quelques mètres de là, le curé assis devant un prie-Dieu écoutait un petit pénitent à la fois. C’était au tour d’Ampelio, l’église était plongée dans le silence. Soudain, on entendit tonner la voix de don Emanuele, pris par surprise:
«Ah ça, non! Cous’tchon!»
Les oreilles d’Ampelio flamboyaient.


Les rares fois où l’on allait avec maman à l’office du soir, je disais que la plus belle des litanies, c’était celle qui suivait la Jànua-céli, parce qu’aussitôt après la série était finie, et comme ça on sortait de l’église: mais ce n’était pas la vérité. La vérité, c’est que cette litanie qui faisait suite à la Jànua me plaisait pour la beauté ailée des syllabes qui volaient haut dans la voix enchanteresse de maman.
Ma mère chantait, et moi j’attendais frémissant d’impatience la Jànua: puis voici l’image lumineuse: Étoile du matin! Et puis on sortait.


On faisait de notre mieux pour acquérir du mérite. Guido et moi, nous rivalisâmes une année durant en dévotion. On s’imposait les petites privations du mois de mai en l’honneur de la Madone, et chaque soir il y avait un court prêche de don Bernardo qui, à l’époque, était encore là. Nous établîmes que la preuve de la dévotion consistait à être près du pupitre: celui qui est le plus près est le plus dévot. Nous arrivions de bonne heure pour prendre une chaise au premier rang (pour être exact, c’était le rang qui longeait le pupitre: et en tournant les chaises au bon moment, on se retrouvait devant tout le monde); quand le prêche commençait, grâce à de rapides déplacements de chaises, un coup Guido un coup moi, nous finissions colés au pupitre. Sauf que comme ça, on finissait toujours à égalité, et nous dûmes donc chercher un autre indice de dévotion. À la fin, nous eûmes l’idée de compter les postillons de don Bernardo que nous recevions sur le visage. Nous écoutions son prêche en guettant les petites étincelles virevoltant depuis le pupitre: don Bernardo parlait avec chaleur et il crachait beaucoup, et nous nous annoncions l’un à l’autre à voix basse le décompte des cibles. «Dix-sept-dix-huit, dix-neuf...» «Dix-huit, dix-neuf-vingt...» Il était interdit de s’essuyer, afin que l’adversaire puisse contrôler. Je ne sais plus si à la fin du mois c’était Guido qui était en tête ou si c’était moi, mais la victoire a dû être très courte, nous étions l’un et l’autre très pieux à l’époque.


Luigi Meneghello, Libera nos a malo, traduit du l'italien par Christophe Mileschi, éditions de l'éclat, 2010


S'incomincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera, e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande, che è poi quella dove sono nato. Coi tuoni e i primi scrosci della pioggia, mi sono sentito di nuovo a casa. Erano rotolii, onde che finivano in uno sbuffo: rumori noti, cose del paese. Tutto quello che abbiamo qui è movimentato, vivido, forse perché le distanze sono piccole e fisse come in un teatro. Gli scrosci erano sui cortili qua attorno, i tuoni quassù sopra i tetti; riconoscevo a orecchio, un po' più in su, la posizione del solito Dio che faceva i temporali quando noi eravamo bambini, un personaggio del paese anche lui. Qui tutto è come intensificato, questione di scala probabilmente, di rapporti interni. La forma dei rumori e di questi pensieri (ma erano poi la stessa cosa) mi è parsa per un momento più vera del vero, però non si può più rifare con le parole.


La superficie è elastica, non si sta in piedi, si cerca l’equilibrio ballonzolando: si affonda e si risale a gambe larghe, com’è divertente! Ridono e rido anch’io, equilibrandomi canto: Alarmi siàn fassisti, abasso i comunisti!
Che bel gioco, che piccola differenza tra cadere e star su: la mattina è tutta d’oro. E noi del fassio siàn i conponenti, che belle parole: chissà cosa vorranno dire?
Passarono anni prima che imparassi a distinguere tra il ballo alla mattina sull’alto letto del papà e della mamma, e il riso e le parole. Però a suo tempo  intesi l’inebriante programma:


La lota sosterén fina la morte
e pugneremo sempre forte forte
finché ci resti un po’ di sangue in core.


I pugni di pugneremo me li rappresentavo vibrati come pugnalate dall’alto in basso.


C’erano canzoni piene di concetti struggenti, con deliziosi pericoli sullo sfondo.


Mama non piangere se c’è l'avansata
tuo figlio è forte e vincere sapràn
assiuga il pianto dela fidansata
perché lassalto si vince o si muor.


Seguivano le istruzioni all’Ardito:


Scavalca i monti - divora il piano
pugnal frài denti - le bonbe a mano.


Mi piaceva la terrificante sintassi dell'ultimo verso, sentito con lo slancio della mente bambina per quello che forse era in effetto, una compressione di col pugnale fra i denti e con le bombe a mano in mano. Questi erano gli Arditi, scavalcatori di monti colla spaccata dell’ostacolista, divoratori del piano. Il pianoforte mi appariva nero e lucido, illuminato da due abat-jour, fornito anch’esso di una dentatura abbagliante di tasti. L’Ardito in grigioverde col berrettino nero, prima lo scavalcava sullo slancio, poi si voltava e lo sgranocchiava rapidamente.

Vibralani! Mane al petto!
Si defonda di vertù:
Freni Italia al gagliardetto
e nei freni ti sei tu.


La forma poetica ti sei tu per ci sei tu non bastava a confonderci, né l’arcaismo di mane per mani. L’ordine era di portarle al petto, orizzontalmente, in una forma sconosciuta ma austera di saluto: come un segno di riconoscimento in uso tra i vibralani a cui sentivamo in qualche modo, cantando, di appartenere ad honorem anche noi.
I freni tra cui era impigliata l’Italia erano per Bruno quelli della nostra Fiat Tipo-due, esterni, sulla pedana destra dietro l’asta del gagliardetto a triangolo: e lì ti era l’Italia con la corona turrita e la vestaglia bianca.


Qui in paese quando ero bambino c’era un Dio che abitava in chiesa, negli spazi immensi so-pra l’altar maggiore dove si vedeva infatti sospeso in alto un suo fiero ritratto tra i raggi di legno dorato. Era vecchio ma molto in gamba (certo meno vecchio di San Giuseppe) e severissimo; era incredibilmente perspicace e per questo lo chiamavano onnisciente, e infatti sapeva tutto e, peggio, vedeva tutto. Era anche onnipotente, ma non in modo assoluto: se no sarebbe andato in giro con un paio di forbici a tagliare il ciccio a tutti i bambini che facevano le brutte cose. I piccoli adopratori del ciccio erano suoi mortali nemici, e potendo li avrebbe puniti senz’altro così, ma grazie a Dio non poteva.


«La Norma la prendo io, tu prendi la Carla.»
E io prendevo la Carla, ma in segreto ammiravo la Norma. Il pallore della Norma! quello sbiancare della pelle all’interno delle cosce. La Carla era una bella tosetta, ricciuta e ben fatta, scura di pelle, cordiale; ma la Norma era un molle tranello in cui bramavo cadere.
Però prendevo la Carla: l’idea di contraddire Piareto non mi sfiorava nemmeno. Io ero il più giovane (e la Norma, che aveva forse sei anni, la più vecchia) e non toccava a me scegliere. E poi mi sarebbe dispiaciuto offendere la Carla, tanto simpatica e volenterosa.
E così, nel folto dei rampicanti a metà dell’orto, in una penombra verde subacquea, deposte tra i filari le spade di legno, facevamo le brutte cose con le nostre donne accucciate per terra.
Ma con la Norma ebbi un’ora di rapimento sublime nello stanzone sopra la cantina, dietro un oggetto che ricordo nelle sue forme essenziali, nido schermo tetto, probabilmente un moncone di carrozzeria d’auto. C’erano superfici imbottite di cuoio, tendine di seta col congegno a molla e il fiocchetto per abbassarle sui finestrini senza vetri. Era uno dei tanti bizzarri rottami che c’erano lassù: l’avevamo issato sopra bidoni e cavalletti, alto alto a livello con la finestra che dà sui campi. Ci si sentiva come in un salottino senza la parete di dietro, ma ben riparati dal mondo.
Ci arrampicammo lassù io e la Norma per giocare, e senza accordi preliminari, senza parole, fui ammesso per una breve ora alla comunione delle superfici esangui, del dolce nodo dove smorivano.
Atinpùri! Per la prima comunione che si faceva in chiesa a sette anni, ci vestivano da marinaretti; e le bambine in bianco. Quando venne il mio turno e dovetti andarmi a confessare la prima volta, mi era ben chiaro che dovevo confessarmi anche delle brutte cose: ma come, con che parole? Me lo insegnò la Norma. Lei aveva fatto la comunione qualche anno prima, e per un po' aveva poi scansato i giochi proibiti, a cui tornò in seguito solo di rado e riluttando.
Un giorno che facevo pissìn sul muretto del letamaio, passò la Norma che andava in orto col cestino di fil di ferro a raccogliere insalata. Io mi voltai verso di lei, e cominciai a invitarla festevolmente agitando quel che tenevo nella manina. Ma la Norma s’indignò.
“Va’ via, mas’cio!” mi disse. “Pensa che presto fai la comunione!”
Più tardi ci trovammo in cortile (scendeva la sera) e passeggiando su e giù la Norma mi confidò la formula con cui ci si confessa. La imparai bene a memoria e a suo tempo la ripetei al prete: “Atinpùri”.
Agli adulti e ai preti il gioco creduto segreto era notissimo; ma lo chiamavano così.


Ogni confessore aveva il suo stile e le sue preferenze; così si cercava di scegliere questo o quello a seconda dei peccati della settimana. Il principale problema pratico erano le penitenze, che potevano variare considerevolmente. I più vecchi davano consigli agli inesperti: “Stavolta ti conviene da Bocaléti, verso sera però”. Bocaléti che era don Emanuele, verso sera era più generoso.
Don Antonio era magro e mite, aveva un vocino tremulo ed emanava un’aria di tale innocenza e compostezza che sinceramente ci dispiaceva di doverlo andare a turbare con le nostre cattiverie. Però quando ci si andava la confessione riusciva delle più facili.
Si parlava delle disubbidienze, dei ritardi a messa, dei litigi, delle parolacce; si divagava su certi peccati generici come l’invidia e la vanità, tanto per guadagnar tempo, sempre col pensiero al punto cruciale. Finalmente don Antonio poneva la Domanda, che solo lui a Malo faceva a quel modo: “Hai mancato - contro la Santa Modestia?” Era una sua perifrasi personale per gli atinpùri; e la formula delicata permetteva risposte altrettanto delicate, uno scambio di idee tra gentiluomini. E così, senza usare termini impropri, pulitamente come in un questionario (“Quante volte?” “Nove.” “Da solo o con altri?” “Con altri” “Con altri o con altre?” “Con altre”) ci si trovava ad aver finita la confessione, e assolti, e solo tre salveregine da dire. Poi via di corsa a godersi qualche ora di innocenza totale, con la deliziosa certezza di fare, se capitasse stasera, una buona morte, entrare nel coro degli angeli.


Anzoléti, con questo nome chiamavano quei nostri compaesanelli infanti, vissuti troppo poco per non diventare subito angioletti nell’atto stesso di rendere l’ultimo respiro sulla terra.
“Per chi suonano?”
“Non senti? è un anzoléto.”
Ogni altro giorno la campana suonava così. Ci morivano fitti, e nei mesi più crudeli, nelle grandi giornate estive, vivevamo in una nuvola di piccoli angioli avviati al cielo, che ci offuscava il sole.
Roberto, il primo Roberto di mia zia Lena, di cui questo di adesso rinnova il nome, morì a quattro anni di gastroenterite. Quando capii che stava morendo passai qualche ora di strazio assoluto; la bambinaia mi aveva accompagnato nella casa della nonna, e lì nella sala d’entrata, tra i vasi di piante verdi vicino alla finestra, l’idea che morisse Roberto mi assaliva a intermittenze. Sentivo lacerazione e abisso, ma non terrore o perdita. Ciò che stava accadendo mi pareva insopportabile; sentivo che c’ero io, e presto ci sarebbe la cosa, e non credevo che si potrebbe coesistere. Avevo sette anni, e questi spasimi esistenziali sono tra i peggiori di cui mi è restata memoria.
Ora la cosa c’è. Roberto è morto, un oggetto color della cera che pare Roberto è restato sul sofà nel tinello della zia. Adesso mi è già più facile sopportare, in quest’aria ovattata di lutto che soffoca i rumori: è come se la morte delle persone care producesse oltre al resto una vena di sollievo. Il portone del portico è chiuso; in casa nostra e in quella della zia, di qua e di là dal portico, c’è silenzio. Anche Bruno e Mamo nostro cugino, coetanei di Roberto, non fanno chiasso. Sono nel portico, spiano pel buco della serratura dentro al tinello della zia, poi si prendono per mano ed eseguiscono in punta di piedi una piccola danza di gioia. Sottovoce, inarcando le ciglia come increduli di tanta fortuna, scandiscono la formula esilarante: “Morto! Morto!”.
Il giorno che lo seppellirono fu portata in orto una poltrona dallo schienale alto, con le borchie di ottone, e le pie donne vi accompagnarono la zia Lena. L’orto nostro è aperto ai rintocchi del campanile, c’era un gran pino in fondo, era d’agosto. La zia Lena in nero s’era abbandonata nell’assurda poltrona tra le aiuole delle dalie e degli ortaggi; le pie donne biascicavano.
Era quel momento che le cerimonie della morte sono fatte per isolare con purezza, quel momento irrazionale dello strazio, in cui esso non dà più senso e pare un sogno d’estate commentato dalle galline e dai coleotteri, in un fiotto di spazio tra qui e le colline, traslucido, infestato dal gong della campana.


Durante le epidemie il cortile era occupato da una squadra di omicini furbacchioni col cappuccio e la mantellina rossa, che tiravano zàcchere di malta infetta; la malta provocava una rogna di cui si moriva in pochi istanti; questa era l’epidemia. Il cortile era tutto ingombro di piccole casse di legno dolce, in costruzione; quelle piene venivano ammonticchiate in fondo contro il muro della zia Lena. Per salvarsi bisognava raggiungere la pompa, che poi era un rubinetto, all’esterno dello spazzacucina della zia, e coll’acqua sbianzare immediatamente gli infetti. E perché allora ci allontanavamo dalla pompa? Perché correvamo in mezzo ai nanetti rischiando continuamente la vita tra i mucchi di casse? Pure facevamo sempre così, ogni due tre mesi quando veniva l’epidemia. Quando veniva me la sognavo anche la notte, anzi non la ricordo nemmeno direttamente, ma solo attraverso questi sogni ogni due tre mesi.
Un angioletto volò via da un cortile qua sopra casa nostra in Capovilla. Questo era un cortile di terra, non come il nostro coi ciottoli. C’era l’impastatrice della creta: un asinello stordito girava, girava attorno alla buia cavernetta affondata nel terreno, in cui lunghe lame d’acciaio sciabolavano la creta. Via dalla macchina dei coltelli, bambini! Però se la palla di gomma ci ruzzola dentro, si va a vedere, si allunga la mano. I pezzettini di angelo hanno ciascuno il suo paio di ali trasparenti come quelle delle libellule, e salgono per conto loro.


Ci veniva impressa nella mente l’opportunità di cominciare la confessione dai peccati più grossi. È come il contadino che ha da far passare per una siepe spinosa un pulcino, e la chioccia, e il cane, e la capra, e il maiale, e la vacca; se comincia dai più piccoli, la fatica e le graffiature si rinnovano a ogni passaggio. Ma se manda avanti la vacca, che sfondi ben bene la siepe, gli altri passano poi comodamente.
La vacca era per lo più la stessa, la solita Binda delle brutte cose, che non sempre però trovavamo il coraggio di mandare avanti per prima. Qualche volta si arrivava in chiesa con un’altra vacca. Quella di Mino, un sabato, era grossissima; se la tirava dietro imbarazzato, e la Bisa s’impuntava, come se non volesse saperne di entrare; ma a forza di strattoni Mino, rosso in viso, la trascinò fino al confessionale. Di farla passare per prima però, non ci pensava nemmeno. Così confessò tutti gli altri suoi peccati, uno per uno; frugò anche nel passato più remoto, si accusò di colpe puramente ipotetiche, discusse puntigliosamente i casi marginali. Fu lodato del suo zelo ed esortato a non cadere negli scrupoli: adesso restava la Bisa.
Il prete aveva smesso da un pezzo di domandare “E poi?” e quando Mino tacque incominciò senz’altro a pronunziare le formule preliminari dell’assoluzione. Mino preso dal panico spinse avanti la Bisa.
“Ho anche un altro peccato, un peccato grosso. Ho detto male dei preti.”
Il tono angosciato allarmò il confessore che volle sapere esattamente cosa aveva detto dei preti; ma Mino resisteva. “Ah, sa, così ... Male insomma.” Infine dovette riferire le parole precise. Aveva detto che i preti sono bai da tabacco.
Anziché indignarsi alla vista della Bisa, il confessore fu preso da una violenta convulsione di riso, e Mino sfibrato e quasi deluso, dovette aspettare ancora qualche minuto per l’assoluzione.


Nessuno di noi riuscì a ripetere l’esperienza che aveva fatta mio padre sui dieci o dodici anni nella chiesa di Santa Libera, in Castello. Non c’era nessuno in chiesa, e mio padre volle provare come si sta dentro all’alcova del confessionale. Ci si stava benissimo, ma purtroppo sopraggiunse una devota che vedendo le tendine chiuse pensò di approfittare dell’occasione. Mio padre spaventato la confessò cercando di ingrossare la voce, e alla fine le diede l’assoluzione; ma non ha mai voluto dirci altri particolari, perché il segreto della confessione è sacro.


Il dolore imperfetto non sembrava difficile procurarselo poiché bastava sentire non “dolore” nel senso ordinario della parola, ma “dispiacere di aver offeso Dio per timore dei suoi castighi, ad esempio le pene dell’inferno.”
Beh, ci andrei all’inferno con questi peccati? La risposta non era dubbia. E mi dispiacerebbe andare all’inferno? Ovviamente sì. Dunque avevo il dolore imperfetto, e poiché questo è sufficiente per la confessione, la cosa sarebbe potuta finir lì. Ma per mia sfortuna il ragionamento - convalidato più volte da cauti appelli all’autorità - non mi convinceva pienamente. Cavarsela così mi pareva troppo facile: e a chi non dispiacerebbe di andare all’inferno? Perché sarebbe specificata la necessità del dolore imperfetto se esso consistesse davvero in una cosa sottintesa?
La soluzione più radicale sarebbe stata quella di procurarsi l'altro dolore, che si chiama perfetto proprio perché offre garanzie assolute; ma era impresa troppo ardua e incerta. Così ero arrivato a un compromesso: mi sarei accontentato del dolore imperfetto ma intendendolo non già come un privilegio implicito, bensì come un sentimento da provare in effetti. Si trattava di rappresentarsi le conseguenze del peccato il più vivamente possibile, ossia come se fossero già diventate reali; di mettermi nei panni di quel mio sosia scalognato, partito senza assoluzione. Lo sapevo bene come sarebbero andate le cose in quel primo quarto d’ora: mi sarei trovato, scalzo, in camicia da notte, in un luogo illuminato da sgradevoli riflessi, in attesa. Come mi sarei sentito allora, eh?
Con lunga concentrazione in ginocchio sui banchi, con lunga deposizione del viso nelle palme delle mani, facevo pazientemente la posta al mio volatile dolore imperfetto. Mi distraevano le campane, gli armeggi del sagrestano, i bisbigli degli altri già pronti: “Andiamo, dài, se no diventi santo”. Ma
perseveravo: e quando il Dolore batteva brevemente le ali tra la geometria rossastra che le mani mi stampavano sulle palpebre, il cuore mi dava un balzo come a un cacciatore, e lo pigliavo.
Ora potevo consegnare a me stesso quasi un attestato di provato dolore. Consentirsi di dubitare oltre sarebbe stato abbandonarsi agli scrupoli.


Ben altra cosa era il dolore perfetto. Normalmente mi accontentavo del surrogato, ma ogni tanto sopravveniva una crisi.
In primo luogo una considerazione pratica: se confessandosi regolarmente il dolore imperfetto può bastare, è troppo certo però che senza confessione non vale nulla; averlo o non averlo è esattamente lo stesso, si va a fondo come una pietra. È vero che di settimana in settimana alla confessione ci si arrivava: ma in caso di bisogno, come illudersi che ci capitasse la fortuna di morire proprio di domenica, o al massimo il lunedì mattina?
Perché, il resto della settimana naturalmente si tendeva a passarlo in peccato mortale. E sarebbe stata amara di trovarsi in punto di morte, con quell’offerta in fondo molto generosa di un perdono totale in cambio di un piccolo atto di dolore perfetto, e non riuscire a farlo questo dannato piccolo atto: Madosca Viola! Sentirsi morire a mano a mano, frastornato dalle donne che ci piangono attorno, dallo specchio che ci hanno messo davanti per vedere se si appanna ancora: e dolore perfetto niente! Non sarebbe prudente esercitarsi, allenarsi.
Ma inoltre c’era anche una preoccupazione più sottile. Mi pareva che nella confessione il fatto stesso di accettare il perdono facile senza almeno tentare di meritarsi quello difficile (insomma senza dolersi sul serio di aver offeso Dio) costituisse di per sé un nuovo peccato, non compreso nel patto della confessione. Bisognerebbe parlarne al confessore, a rischio di farsi dire che questi sono soltanto scrupoli. Con che odiosa golosità approfittavano di queste scappatoie certi peccatori e peccatrici: “Scrùpuli, lo ha detto anche il prete, non bisogna avere i scrùpuli, è peccato”. Ma invece io sapevo che non erano scrupoli. Mi pareva come dire a Dio: “L’hai voluto tu. To' allora”.
Così mi torturavo per infliggermi, magari per un attimo, il dolore perfetto. La tecnica era difficile e complessa, il tempo lungo, il risultato incerto. Ma io mi ostinavo, e alcune volte l’impresa mi riuscì: allora mi rialzavo sfinito, felice, con la testa che mi girava. In quelle poche occasioni, e sempre per poche ore, fui assolutamente degno del cielo. Purtroppo però il più delle volte dovevo rinunciare, e accontentarmi di sperar bene.


Chissà se ebbe il dolore perfetto Ampelio, quella volta che si confessò da don Emanuele?
Si poteva confessarsi per conto proprio, come gli adulti, al di qua dell’altar maggiore, nei confessionali riservati ai vari preti, don Tarcisio, Baéti ossia don Antonio, l’Arciprete, Battilana; era preferibile anzi sentirsi protetti dalla grata, benché ci riconoscessero subito alla voce. Ma a noi bambini capitava spesso di doverci confessare in Coro, e a gruppi.
“Ehi, vi siete già confessati voialtri? Avanti allora.”
Si andava a mettersi in ginocchio tutti in fila su un banco dietro l'altare. A pochi metri di distanza il prete seduto davanti a un inginocchiatoio ascoltava un penitentino alla volta. Era sotto Ampelio, in chiesa c’era silenzio. A un tratto si sentì rimbombare la voce di don Emanuele colto di sorpresa:
“Eh, no! Mas'cio!”
Le orecchie di Ampelio fìammeggiavano.


Le rare volte che si andava con la mamma alle funzioni della sera, dicevo che la più bella delle litanie era quella che seguiva la Jànua cèli, perché subito dopo la serie era finita e così si usciva di chiesa: ma non era la verità. Quella litania seguace della Jànua mi piaceva invece per la bellezza alata delle sue sillabe che volavano alte nella voce incantevole della mamma. Mia madre cantava, e io aspettavo trepidando la Jànua: poi ecco l’immagine luminosa: Stella matutina! Poi s’andava fuori.


Si faceva del nostro meglio per acquistar merito. Io e Guido gareggiammo un anno in devozione. Si andava ai fioretti di maggio e c’era ogni sera una breve predica di don Bernardo che allora era ancora qui. Stabilimmo che la prova della devozione fosse la vicinanza al pulpito: chi è più vicino è il più devoto. Andavamo di buonora per prenderci una sedia in prima fila (veramente era la fila di fianco, dalla parte del pulpito: poi voltando le sedie al momento giusto ci si trovava davanti a tutti); quando cominciava la predica noi con rapidi spostamenti della sedia, uno io uno Guido uno io uno Guido, andavamo a finire a ridosso del pulpito. Così però si terminava sempre alla pari, e dovemmo perciò cercare un altro indice di devozione; infine pensammo di contare gli sputi di don Bernardo che ricevevamo sul viso. Ascoltavamo la predica attenti alle piccole faville che volteggiavano dal pulpito: don Bernardo parlava con calore e sputava molto, e noi ci annunciavamo sottovoce i bersagli. “Diciassette-diciotto, diciannove …” “diciotto, diciannove-venti …”. Era proibito asciugarsi, perché l’avversario potesse controllare. Non so se alla fine del mese fossi in testa io o Guido, ma dev’essere stata una vittoria di misura, eravamo entrambi molto devoti in quel periodo.


Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Feltrinelli, 1963

Ritratti - Luigi Meneghello di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini