domenica 30 maggio 2010

Come sarebbe se portassi a termine almeno una cosa ogni tanto

Avevo accennato ad una poesia di Heiner Müller. Eccola per intero.

MÜLLER IM HESSISCHEN HOF

Im Hotelrestaurant die Unschuld der Reichen
Der gelassene Blick auf den Hunger der Welt
Mein Platz ist zwischen den Stühlen Mein Traum
Die faltige Kehle der Witwe vom Nebentisch
Aufzuschneiden mit dem Messer des Kellners
Der ihr den Lammrücken vorschneidet Ich
Werde auch diese Kehle nicht aufschneiden
Mein Leben lang werde ich nichts dergleichen tun
Ich bin nicht Jesus Der das Schwert bringt Ich
Träume von Schwertern wissend länger als ich
Wird die Ausbeutung dauern an der ich teilhabe
Länger als ich der Hunger der mich ernährt
Der Schrecken der Gewalt ist ihre Blindheit
Und die Dichter ich weiß es lügen zu viel
Villon konnte das Maul noch aufreißen
Gegen Adel und Klerus er hatte kein Bett keinen Stuhl
Und kannte die Gefängnisse von innen
Brecht schickte Ruth Berlau nach Spanien und schrieb
In Dänemark DIE GEWEHRE DER FRAU CARRAR
Gorki während er zweispännig durch Moskau fuhr
Haßte die Armut WEIL SIE ERNIEDRIGT Warum
Nur die Armen Majakowski hatte sich schon
Mit dem Revolver zum Schweigen gebracht
Die Lügen der Dichter sind aufgebraucht
Vom Grauen des Jahrhunderts An den Schaltern der Weltbank
Riecht das getrocknete Blut wie kalte Schminke
Der schlafende Penner vor ESSO SNACK&SHOP
Widerlegt die Lyrik der Revolution
Ich fahre im Taxi vorbei Ich kann es mir
Leisten Benn hatte gut reden Er hat
Mit seinen Gedichten kein Geld verdient und wäre
Krepiert ohne Haut- und Geschlechtskrankheiten
In der Nacht im Hotel ist meine Bühne
Nicht mehr aufgeschlagen Ungereimt
Kommen die Texte die Sprache verweigert den Blankvers
Vor dem Spiegel zerbrechen die Masken Kein
Schauspieler nimmt mir den Text ab Ich bin das Drama
MÜLLER SIE SIND KEIN POETISCHER GEGENSTAND
SCHREIBEN SIE PROSA Meine Scham braucht mein Gedicht

Heiner Müller, Frankfurt, 1992


MÜLLER ALLO HESSISCHER HOF

Al ristorante dell’albergo l’innocenza dei ricchi
Lo sguardo rilassato sulla fame del mondo
Il mio posto è tra le sedie Il mio sogno
La gola rugosa della vedova del tavolo vicino
Tagliarla col coltello del cameriere
Che le sta tagliando la sella d’agnello Io
Non taglierò neanche questa gola
Per tutta la vita non farò mai niente di simile
Non sono mica Gesù Che porta la spada Io
Mi sogno di spade sapendo che più a lungo di me
Durerà lo sfruttamento al quale partecipo
Più a lungo di me la fame che mi nutre
L’orrore della violenza è la sua cecità
E i poeti lo so mentono troppo
Villon poteva ancora sbraitare parole
Contro nobili e clero non aveva né letto né sedia
E conosceva le carceri da dentro
Brecht spedì Ruth Berlau in Spagna e scrisse
In Danimarca I FUCILI DELLA SIGNORA CARRAR
Gorkij in giro per Mosca su una carrozza a due cavalli
Odiava la povertà PERCHÉ UMILIA Perché
solo i poveri Majakovskij si era già
Ridotto al silenzio col revolver
Le menzogne dei poeti sono consunte
Dall'orrore del secolo Agli sportelli della Banca Mondiale
Il sangue seccato odora di trucco freddo
Il barbone che dorme fuori dall’ESSO SNACK&SHOP
Smentisce la lirica della rivoluzione
Gli passo davanti in taxi Me lo posso
permettere Benn aveva un bel dire Con le sue poesie
Non ha guadagnato denaro e sarebbe
Crepato senza malattie della pelle e veneree
La notte in albergo la mia scena
Non è più aperta Assurdi
Arrivano i testi la lingua rifiuta l'endecasillabo
Davanti allo specchio si infrangono le maschere Nessun
Attore mi accetta il testo Io sono il dramma
MÜLLER LEI NON È UN OGGETTO POETICO
SCRIVA PROSA La mia vergogna ha bisogno della mia poesia

Francoforte, 1992

Mi limito a ricordare un po' di cose sparse, dandone per scontate, a torto o a ragione, molte altre. Müller è stato soprattutto un autore teatrale, ma negli ultimi anni della sua vita si è dedicato in gran parte alla poesia. Lo Hessischer Hof è un albergo di lusso di Francoforte. Il lusso tedesco mi sembra tuttavia diverso dal lusso italiano, per quanto ne possa capire io, avendoli visti entrambi dalla strada, attraverso le finestre: per dare un'idea della mia impressione, stanno tra loro come il protestantesimo sta al cattolicesimo. Il Blankvers non ha undici sillabe, ma l'endecasillabo mi sembrava fosse una scelta quasi obbligata per il lettore italiano. Benn è Gottfried Benn, noto poeta tedesco, medico, di professione. Se Müller, in questa come in altre occasioni, non fosse stato profondamente autocritico, avrei aggiunto, probabilmente con un certo moto di fastidio, che la vedova dalla gola rugosa, anche se nessuno degli elementi a disposizione lo induce a ritenere, avrebbe potuto pure essere un ospite di passaggio, esattamente o persino più di Müller, ma visto che non è proprio il caso, il fastidio svanisce e si riduce ad un piccolo dubbio schiacciato sullo sfondo di tutto il ricchissimo resto, compreso il ricordo dell'attrice danese Ruth Berlau.

Mais, si quelqu'un, par hasard, apprenoit à la compagnie que j'étois italien

Mais, si quelqu'un, par hasard, apprenoit à la compagnie que j'étois Persan, j'entendois aussitôt autour de moi un bourdonnement: Ah ! ah ! monsieur est Persan ! C'est une chose bien extraordinaire ! Comment peut-on être Persan ?

Montesquieu, Lettres persanes, XXX

Ma se qualcuno, per caso, comunica alla compagnia che io sono siciliano, subito sento intorno a me levarsi un mormorio: Ah! ah! Il signore è siciliano? È una cosa davvero straordinaria! Come si può essere siciliano?

Leonardo Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Piccola Biblioteca Adelphi, 2009

Alla sua versione Sciascia aggiunge poi la risposta alla domanda:
E si noti bene: il persiano di Montesquieu non aveva nulla che in un salotto parigino lo distinguesse come persiano; è soltanto nell'apprendere che è persiano che la compagnia manifesta meraviglia e si chiede come è possibile essere persiano, quasi che l'essere persiano implicasse una diversità e difficoltà di vita alla compagnia, alla Francia e all'Europa ignote.
In questa forma paradossale, Montesquieu ha voluto rappresentare i pregiudizi etnici e razziali; ma appunto questi pregiudizi alimentano le diversità e rendono difficoltoso l'essere siciliano o sardo o corso. E non che diversità e difficoltà non ci siano: ma non sarebbero tali da provocare conflittualità e chiusure se i pregiudizi non le accentuassero ed esasperassero; se remore, difetti e virtù (spesso alle remore e ai difetti corrispondono virtù) venissero messi in conto della varietà del mondo e non della inimicizia col mondo.
(...)
Pure parlando di Verga, e del romanzo di cui è protagonista Mastro Don Gesualdo, ad un certo punto David Herbert Lawrence dice: "Gesualdo è un uomo comune, dotato di energia eccezionale. Tale è, naturalmente, nell'intenzione. Ma egli è siciliano. E qui salta fuori la difficoltà".
La difficoltà. Non si poteva dir meglio, e con una sola parola. (...) Sicché alla domanda "Come si può essere siciliano?" un siciliano può rispondere: "Con difficoltà".

sabato 29 maggio 2010

O Tejo é mais belo que o rio que corre pela minha aldeia


O Tejo from Abilio Vieira on Vimeo.

O Tejo é mais belo que o rio que corre pela minha aldeia,
Mas o Tejo não é mais belo que o rio que corre pela minha aldeia
Porque o Tejo não é o rio que corre pela minha aldeia,

O Tejo tem grandes navios
E navega nele ainda,
Para aqueles que vêem em tudo o que lá não está,
A memória das naus.

O Tejo desce de Espanha
E o Tejo entra no mar em Portugal.
Toda a gente sabe isso.
Mas poucos sabem qual é o rio da minha aldeia
E para onde ele vai
E donde ele vem.
E por isso, porque pertence a menos gente,
É mais livre e maior o rio da minha aldeia.

Pelo Tejo vai-se para o Mundo.
Para além do Tejo há a América
E a fortuna daqueles que a encontram.
Ninguém nunca pensou no que há para além
Do rio da minha aldeia.

O rio da minha aldeia não faz pensar em nada
Quem está ao pé dele está só ao pé dele.

Alberto Caeiro, O Guardador de Rebanhos


Il Tago è più bello del fiume che passa nel mio paesino,
Ma il Tago non è più bello del fiume che passa nel mio paesino
Perché il Tago non è il fiume che passa nel mio paesino.

Il Tago ha grandi navi
E vi naviga ancora,
Per quelli che vedono nel tutto quello che non c'è,
Il ricordo delle caravelle.

Il Tago scende dalla Spagna
E il Tago entra nel mare in Portogallo.
Lo sanno tutti.
Ma pochi sanno qual è il fiume del mio paesino
E dove va
E da dove viene.
E per questo, perché appartiene a meno persone,
è più libero e più grande il fiume del mio paesino.

Per il Tago si va per il Mondo.
Oltre il Tago c'è l'America
E la fortuna per quelli che la trovano.
Nessuno ha mai pensato a quello che c'è oltre
Il fiume del mio paesino.

Il fiume del mio paesino non fa pensare a niente.
Chi gli sta vicino sta solo vicino ad esso.


Alberto Caeiro da Silva nacque a Lisbona nel 1889, ma visse quasi tutta la sua vita in campagna, in compagnia di una vecchia zia, una prozia. Di statura media, aveva faccia rasa, occhi azzurri e capelli di un biondo slavato. Non aveva professione né quasi nessuna educazione, se non quella acquisita con l'istruzione primaria. Morì di tubercolosi nel 1915 (da qui).
Nonostante la sua breve vita, di lui si possono leggere O guardador de rebanhosO pastor amorosoPoemas Inconjuntos e Fragmentos.

Gens de Madrid, pardon!

Ay qué día tan triste en Madrid !
Qu’on se le dise
la terre n’a pas tremblé ce jour-là
Nul astéroïde vagabond
ne s’est écrasé sur la Bourse
Pas de nouvelle marée noire
et la précédente allait bientôt
être traitée dans les urnes
La télévision aboyait, miaulait, caquetait
stridulait, croassait, brayait, blablatait
Les footballeurs s’étaient mis au vert
Les taureaux paissaient
Les écrivains faisaient la grasse matinée
Le moustachu polissait son sermon d’adieu
Le serial killer
s’était donné un temps de réflexion
et Dieu le père ou la mère
était comme à l’accoutumée
aux abonnés absents

Qu’on se le dise
le temps s’est brusquement figé
puis il y eut cette sonnerie anodine
perdue parmi la cacophonie des sonneries
Maudits soient les portables
sur la terre comme au ciel !
Quelques secondes
et la digue de la raison a cédé
la chaîne de l’espèce humaine s’est rompue
Ay qué día tan triste en Madrid !

Les héritiers obligés que nous sommes
de toutes les andalousies
de toutes les lumières
De tous les génocides
de toutes les ténèbres
Hébétés
ridicules
Comme des rats
pris au piège de l’impuissance
Pour la millième fois
cherchant à comprendre
alors qu’on a cru avoir compris
la dernière fois

Les savants viennent de révéler
que l’Univers ne serait plus en expansion
A l’inverse
les candides que nous sommes
feignent de découvrir
que le sadisme de l’homme est illimité

Crevant les yeux
le gouffre insondable du mal
Alors plongeons-y
ne serait-ce que pour éprouver
une infime parcelle du calvaire
des nouveaux arrivants
au bal masqué de l’horreur
là où la chair et l’âme sont fourguées
dans le crématorium d’un cercle de l’enfer
que nul texte inimitable
ne nous a signalé

Messieurs les assassins
vous pouvez pavoiser
Spéculateurs émérites, vous avez acquis à vil prix le champ incommensurable des misères, des injustices, de l’humiliation, du désespoir, et vous l’avez amplement fructifié.
La technologie des satans abhorrés n’a plus de secrets pour vous.
Ne comptent pour vous ni la religion, ni la couleur, ni le sexe. Toutes les marionnettes se valent. Il suffit de ne pas être couché dans une tombe pour être le premier servi.
Vous êtes passés maîtres dans l’art de tirer les ficelles de la haine pour repérer, désigner, traquer, coincer et régler son compte au premier quidam conscient ou inconscient du risque de simplement exister.
Qu’il mange, qu’il soit debout ou couché, qu’il fasse sa prière, qu’il remue des idées dans sa tête ou se rende à son travail la tête vide, qu’il caresse la joue de son enfant ou cueille une fleur, qu’il écoute une musique lui rappelant la terre de ses origines ou la rencontre qui a changé le cours de sa vie, qu’il écrive un poème ou remplisse sa feuille d’impôts, qu’il parle au téléphone avec un plombier ou à sa mère alitée dans un hôpital, qu’il lise un livre de Gabriel García Marquez ou un prospectus de pizzeria, qu’il s’ébroue sous la douche ou s’ennuie aux toilettes, le caleçon coincé entre les genoux, qu’il ouvre son cœur à son voisin dans le bus ou baisse les yeux devant le regard insistant de son vis-à-vis, qu’il empoigne sa valise avant de monter dans un train ou coure dans les couloirs kafkaïens d’un hôtel de luxe ou de merde, qu’il vienne d’apprendre que son hépatite C ne lui laisse que quelques mois à vivre ou tâte sa poche pour s’assurer que son portefeuille est bien là, qu’il se rende à un entretien d’emploi ou peigne une banderole pour la manifestation du lendemain, qu’il se gratte les couilles ou tape du poing sur la table, qu’il aime la compagnie des chiens ou celle des chats, qu’il soit déjà homme, femme, ou encore à cet âge béni où l’ange n’a pas vraiment de sexe et surtout pas d’ailes
Toutes les marionnettes se valent. Il suffit de ne pas être couché dans une tombe pour être le premier servi.
O doux enfant
est-ce pour cela que tu criais
à t’écorcher les poumons
au moment de naître ?

Messieurs les assassins
On dit que vous faites bien fonctionner vos méninges. Alors, puis-je vous poser une question simple :
C’est quoi pour vous un être humain ?
Pourquoi ce silence ? Répondez-moi !
Ah je devine votre rictus méprisant et j’imagine la bulle que vous laissez échapper par inadvertance de vos lèvres blêmes. J’y vois un petit insecte sur lequel s’abat un poing velu, et en guise de commentaire cette exclamation : Ça lui apprendra !
C’est vrai, et je continue à sonder vos pensées, que cet insecte nuisible a été enfanté par l’être qui vous donne des sueurs froides et que vous vous évertuez à avilir en appliquant à la lettre le principe de précaution : j’ai nommé la femme, pardonnez-moi l’expression. Je devine votre peur et votre dégoût, l’horreur que vous inspire l’avènement de la vie quand, après les ahanements et les cris de la parturiente, la tête visqueuse de l’enfant se libère du conduit immonde que vous avez été bien obligés de labourer et, comble de la déveine, d’ensemencer. Vous ne vous pardonnerez jamais d’être passés par là. C’est pourquoi la mort est votre unique passion. Pour elle vous rougissez, pâlissez. Votre cœur palpite. Vous défaillez. Et quand vous l’avez célébrée, vous vous voyez frappant à la porte de je ne sais quel Eden où des délices perverses, avouez-le, vous ont été promises.

Ay qué día tan triste en Madrid !
Qu’on se le dise
C’est à Rabat, Alger, Le Caire, Bagdad
qu’on devrait le plus se lamenter
de ne pas savoir que penser
de ne pas savoir que dire
de ne pas savoir que faire
Les héritiers obligés que nous sommes
d’un âge d’or livré aux pleureuses
De tant de rêves avortés
de tant d’avanies
de tant de tyrannies
Hébétés
ridicules
rongés de l’intérieur
par la bête immonde
que nous avons pris l’habitude
de renvoyer d’un coup de pied
à la figure de l’Autre
Responsables ? Coupables ?
Victimes tout aussi bien
des bourreaux que nous excrétons
comme le foie sécrète la bile
Cycliquement écrasés, annihilés
par les potentats que nous exécrons et adorons
parfois luttant
avec la force de l’espoir et du désespoir
pour que nos descendants
puissent croire peut-être un jour
qu’avant la mort
il y a ce qu’une vieille rumeur nomme
vie :
un fleuve maternel
où il fait bon se baigner
de jour
de nuit
En toutes saisons belles
et prometteuses
Seul miracle
sans trucage

Gens de Madrid
que vos morts reposent en paix
De la graine sacrée de la vie
déposée en eux
aucun d’eux n’a démérité
Comme tout un chacun, ils ont abrité le souffle qui anime l’Univers et la Création. Chaque atome de leur corps a vibré et tourné autour du soleil intérieur qui a illuminé leur chemin. Leur voyage fut le nôtre, et notre voyage sera dorénavant le leur. Nous continuerons à rêver dans leurs rêves, à nous écorcher l’âme dans leurs écorchures, à nous interroger dans leurs interrogations, à aimer dans leurs amours, à caresser la lumière dans leurs caresses, à nous émerveiller dans leurs émerveillements. Nous continuerons même à faiblir de leurs faiblesses, à nous enfermer dans leurs enfermements. Nous ne négligerons ni les œillères ni les petites lâchetés. Nous prendrons à notre compte leur part d’intolérance, de bêtise et d’indifférence car nous ne sommes que leurs frères et sœurs humains, rien qu’humains. Mais nous tâcherons de résister encore mieux dans leur résistance, nous alimenterons le feu vacillant de notre mémoire avec le charbon cuisant de leur mémoire.

Gens de Madrid
puisque personne n’a pensé
à vous demander pardon
c’est moi qui le ferai
Moi ! Qui est moi ? Mon nom ne vous dira rien
Pourquoi je le fais ? Peu importe
Le cri précède la parole
qui parfois précède la pensée
Et puis le cœur a ses raisons
que l’esprit parfois ignore

Alors pardon, gens de Madrid
Pardon de ces nuits à venir
blanches ou grises
où l’être cher
reviendra en fantôme menaçant
vous reprocher de lui avoir survécu
Pardon pour la main
qui n’a pas été retrouvée
Pour l’anneau de mariage calciné
la boîte de maquillage ouverte
utilisée au dernier instant
Pardon pour les chaussures intactes
et le soutien-gorge fleurant encore bon
la vanille ou la rose
Pardon pour les amants au cœur d’androgyne
coupé en deux
Pour le rire électrocuté des enfants
Pardon pour les mères de la future place
du 11-Mars
Pardon pour le silence de mes frères
pour ne pas dire leur indifférence
Pardon pour ce que certains d’entre eux
pensent tout bas
Pardon de ne pas avoir fait plus et mieux
contre le loup qui décime
ma propre bergerie
Pardon de ne pas avoir appris suffisamment
votre langue
pour m’adresser à vous dans le meilleur castillan
Pardon à Lorca, Machado, Hernandez
de ne pas les avoir fait lire à mes enfants
Pardon pour les lacunes et les incantations
Pour les yeux secs de la compassion
Pardon du peu que les mots peuvent
disent à moitié
et souvent ne savent pas
mais s’il vous plaît
pardon

Abdellatif Laâbi


Gente di Madrid, scusate!

¡Ay qué día tan triste en Madrid!
Che lo si dica
la terra non ha tremato quel giorno
Nessun asteroide vagabondo
si è schiantato sulla Borsa
Nessuna nuova marea nera
e la precedente sarebbe stata presto
trattata nelle urne
La televisione abbaiava, miagolava, chiocciava
strideva, gracchiava, ragliava, blaterava
I calciatori si erano ritirati in campagna
I tori passavano
Gli scrittori restavano tra le lenzuola
Il baffuto perfezionava il suo discorso d'addio
Il serial killer
si era dato una pausa di riflessione
e Dio padre o madre
come al solito
non dava segno di vita

Che lo si dica
il tempo si è fermato bruscamente
poi ci fu questo squillo anodino
perduto nella cacofonia delle suonerie
Maledetti siano i cellulari
così in cielo come in terra!
Qualche secondo
e l'argine della ragione ha ceduto
la catena della specie umana si è rotta
¡Ay qué día tan triste en Madrid!

Gli eredi obbligati che siamo
di tutte le andalusie
di tutte le luci
Di tutti i genocidi
di tutte le tenebre
Inebetiti
ridicoli
Come ratti
presi nella trappola dell'impotenza
Per la millesima volta
cercando di capire
quando avevamo creduto di aver capito
l'ultima volta

I sapienti hanno appena rivelato
che l'universo non sarebbe più in espansione
Al contrario
gli ingenui che siamo
fanno finta di scoprire
che il sadismo dell'uomo è illimitato

Salta agli occhi
l'abisso insondabile del male
Allora inabissiamoci
non fosse che per provare
un'infima parcella del calvario
dei nuovi arrivati
al ballo in maschera dell'orrore
là dove la carne e l'anima sono scaricati
nel crematorio di un cerchio dell'inferno
che nessun testo inimitabile
ci ha segnalato

Signori assassini
potete essere soddisfatti
Speculatori emeriti, avete acquistato a vil prezzo il campo incommensurabile delle miserie, delle ingiustizie, dell'umiliazione, della disperazione, e l'avete fatto ampiamente fruttare.
La tecnologia degli abominevoli diavoli non ha più segreti per voi.
Per voi non contano né la religione, né il colore, né il sesso. Tutte le marionette si equivalgono. Basta non stare stesi in una tomba per essere serviti per primi.
Siete maestri consumati nell'arte del tirare i fili dell'odio per segnalare, designare, inseguire, intrappolare e adattare il vostro calcolo al primo individuo cosciente o incosciente del rischio semplicemente di esistere.
Che mangi, che stia in piedi o coricato, che faccia la sua preghiera, che si faccia frullare idee per la testa o si rechi al lavoro con la testa vuota, che accarezzi la guancia di suo figlio o colga un fiore, che ascolti una musica che gli ricorda la terra delle sue origini o l'incontro che ha cambiato il corso della vita, che scriva una poesia o compili la sua dichiarazione dei redditi, che parli al telefono con un idraulico o con sua madre prostrata in un ospedale, che legga un libro di Gabriel García Márquez o una brochure di una pizzeria, che si agiti sotto la doccia o si annoi nelle toilettes, i pantaloni calati alle ginocchia, che apra il suo cuore al suo vicino nell'autobus o abbassi gli occhi davanti allo sguardo insistente del suo vicino di fronte, che prenda la valigia prima di salire su un treno o corra tra i corridoi kafkiani di un hotel di lusso o di merda, che abbia appena scoperto che la sua epatite C non gli lascia che pochi mesi di vita o si tocchi la tasca per assicurarsi che il suo portafoglio è ancora là, che si diriga ad un colloquio di lavoro o dipinga uno striscione per la manifestazione del giorno dopo, che si gratti le palle o batta il pugno sulla tavola, che ami la compagnia dei cani o quella dei gatti, che sia già uomo, donna, o che sia ancora in quell'età benedetta in cui l'angelo non ha veramente sesso e soprattutto non ha ali
Tutte le marionette si equivalgono. Basta non essere stesi in una tomba per essere serviti per primi.
Oh dolce bambino appena nato
è per questo che gridavi
fino a squarciarti i polmoni
nel momento di nascere?

Signori assassini
Si dice che facciate funzionare bene le vostre meningi. Allora posso porvi una domanda semplice:
Che cos'è, per voi, un essere umano?
Perché questo silenzio?! Rispondetemi!
Ah, indovino il vostro riso forzato sprezzante e immagino la bolla che lasciate scappare inavvertitamente dalle vostre labbra livide. Vi vedo un piccolo insetto, su cui si abbatte un pugno peloso e, a mo' di commento, questa esclamazione: questo gli sarà di lezione!
È vero, e continuo a sondare i vostri pensieri, che questo insetto dannoso è stato creato per l'essere che vi fa sudar freddo e che vi fa dibattere fino all'avvilimento applicando alla lettera il principio di precauzione: ho nominato la donna, perdonatemi l'espressione. Indovino la vostra paura e il vostro disgusto, l'orrore che vi ispira l'avvenimento della vita quando, dopo gli ansimi e le grida della partoriente, la testa viscosa del bambino si libera del condotto immondo che siete stati costretti a lavorare e, colmo della sventura, a inseminare. Non vi perdonerete mai di essere passati di là. È per questo che la morte è la vostra unica passione. Per essa arrossite, impallidite. Il vostro cuore palpita. Svenite. E quando l'avete celebrata, vi vedete battere alla porta di non so quale Eden dove vi sono state promesse delizie perverse, confessatelo.

¡Ay qué día tan triste en Madrid!
Che lo si dica
È a Rabat, Algeri, Il Cairo, Baghdad
che ci si dovrebbe lamentare di più
di non sapere che pensare
di non sapere che dire
di non sapere che fare
Gli eredi obbligati che siamo
di un'età dell'oro consegnata alle piangenti
Di tanti sogni abortiti
di tante vessazioni
di tante tirannie
Inebetiti
ridicoli
interiormente corrotti
dalla bestia immonda
che ci siamo abituati
a rinviare con un calcio
alla faccia dell'Altro
Responsabili? Colpevoli?
Vittime tutti anche
dei boia che escretiamo
come il fegato secerne la bile
Ciclicamente sopraffatti, abbattuti
per i potentati che esecriamo e adoriamo
a volte lottando
con la forza della speranza e della disperazione
perché i nostri discendenti
possano credere forse un giorno
che prima della morte
c'è quello che una vecchia diceria chiama
vita:
un fiume materno
in cui è bello bagnarsi
di giorno
di notte
In tutte le stagioni belle
e promettenti
Unico miracolo
senza trucco

Gente di Madrid
che i vostri morti riposino in pace
Del seme segreto della vita
depositato in loro
nessuno di loro ha demeritato
Come un individuo, essi hanno protetto il respiro che anima l'Universo e la Creazione. Ogni atomo dei loro corpi ha vibrato e girato attorno al sole interno che ha illuminato il loro cammino. Il loro viaggio fu il nostro, e il nostro viaggio sarà d'ora in poi il loro. Continueremo a sognare nei loro sogni, scorticandoci l'anima nelle loro scorticature, ad interrogarci con le loro domande, ad amare nei loro amori, ad accarezzare la luce nelle loro carezze, a meravigliarci nelle loro meraviglie. Continueremo anche a debilitarci delle loro debolezze, a recintarci nei loro recinti. Non trascureremo né i paraocchi né le piccole viltà. Assumeremo sul nostro conto la loro parte di intolleranza, di stupidità e di indifferenza perché siamo solo i loro fratelli e sorelle umani, niente altro che umani. Però cercheremo di resistere ancora meglio nella loro resistenza, alimenteremo il fuoco vacillante della nostra memoria con il carbone ardente della loro memoria.

Gente di Madrid
siccome nessuno ha pensato
di chiedervi scusa
sono io che lo farò
Io! Chi sono io? Il mio nome non vi dirà niente
Perché lo faccio? Poco importa
Il grido precede la parola
che a volte precede il pensiero
E poi il cuore ha ragioni
che la mente a volte ignora

Allora scusate, gente di Madrid
Scusate per queste notti future
bianche o grigie
Dove l'essere caro
ritornerà in forma di fantasma minacciante
a rimproverarvi di essergli sopravvissuti
Scusate per la mano
che non è stata ritrovata
Per l'anello di matrimonio calcinato
l'astuccio del trucco aperto
usato all'ultimo momento
Scusate per le scarpe intatte
E il reggiseno ancora profumato
di vaniglia o di rosa
Scusate per gli amanti dal cuore d'androgino
diviso in due
Per il riso folgorante dei bambini
Scusate per le madri della futura piazza
dell'11 marzo
Scusate per il silenzio dei miei fratelli
per non dire la loro indifferenza
Scusate per quello che alcuni di loro
pensano a voce bassa
Scusate per non aver fatto più e meglio
contro il lupo che decima
il mio proprio ovile
Scusate per non aver imparato abbastanza
la vostra lingua
per rivolgermi a voi nel miglior castigliano
Chiedo scusa a Lorca, Machado, Hernández
per non averli fatti leggere ai miei figli
Scusate per le lacune e gli incantamenti
Per gli occhi secchi della compassione
Scusate per il poco che possono le parole
dicono a metà
e spesso non sanno
però per favore
scusate

Versione spagnola

Abdellatif Laâbi è nato a Fes, in Marocco, probabilmente nel 1942. Ha iniziato a soffrire di "mal di scrivere" molto presto, per lo shock subito da Dostoevskij, per il cui tramite ha scoperto che "la vita è un richiamo interiore e uno sguardo di compassione gettato sul mondo degli uomini". È poeta, sognatore e uomo libero. Ha conosciuto le conseguenze della colonizzazione, il carcere, la tortura, l'esilio, ma soprattutto l'impegno e la passione, politica e non. Ha tradotto diversi poeti arabi in francese e ha scritto molto, attraversando tutti i generi letterari, ma privilegiando la poesia, "tutto quello che resta ad un uomo per proclamare la propria dignità". È la mia vita/ che metto in parole/ che traduco in immagini/ più o meno felici/ che interrogo, travolgo/ e spremo come un limone.

giovedì 27 maggio 2010

Parodia jako sposób przetrwania kontynentu

Ore ed ore e giorni e giorni passati su una sedia ad aspettare,
convinti che la realtà si svolga
indipendentemente dai nostri atti e dai nostri sforzi:
niente altro che la nobile certezza
che esistono cose più grandi e più importanti di noi.

Modesta estrapolazione di cinque versi intravisti nella trama di una prosa originalmente intitolata Parodia jako sposób przetrwania kontynentu, di cui provo a dare una versione italiana a partire dalla traduzione francese di Charles Zaremba.

La parodia come mezzo di sopravvivenza del continente

Perché l'Est europeo vuole che l'Ovest gli dia del denaro? Perché non si parla di nient'altro? Perché la mia radio, perché i giornali che compro sono pieni di percentuali, di cifre, di bilanci e di resoconti di riunioni in cui gli uni vogliono ottenere il più possibile, gli altri dare il meno possibile, dopo di che gli uni e gli altri sono fieri di non avere ceduto di un millimetro? Forse ho una radio che non va, forse compro giornali idioti, forse da voi è completamente diverso. Se è così, voialtri, voi discutete dell'esportazione di cattedrali gotiche, della trasmissione della tradizione mediterranea e greco-romana, della consegna di valori, di paradigmi e di miti fondamentali degni del terzo millennio, ma noi, qui, noi non ne sappiamo niente, la nostra visione si limita ai bancomat che funzionano secondo il principio del moto perpetuo e agli ipermercati in cui, oltre che a merci gratuite, si ricevono liquidi. Forse siamo proprio noi degli idioti e abbiamo mancato in qualcosa, forse i nostri spiriti barbari non distinguono tutte le sottigliezze del gigantesco piano che deve cambiare la faccia del continente.

Non saremmo attratti da nient'altro? Da niente altro che dalla pulizia dei vestiti e delle strade, dalla superiorità delle ricette sulle spese nonché dal numero infinito dei mezzi per ammazzare la noia quando questa finirà per essere il nostro premio? I nostri desideri si limiterebbero a una soteriologia dei prodotti interni lordi ponderati da Kiev a Lisbona? La nostra valuta sarebbe così vuota e sprovvista di senso che la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali la potrà riempire senza resto? Tutto ciò sembra nato morto. C'è qualcuno che ne tragga veramente giovamento? Noi dobbiamo diventare voi, ma voi, voi volete essere noi? Ne dubito.

Può darsi che la mia parte del continente possieda un istinto che la mette in guardia contro una sorta di annientamento pacifico: essa sparirà prima di esistere, diventando appena il riflesso o la caricatura di qualche cosa di più grande, di più forte di lei. Siccome nessuno immagina che sarete voi a cambiare, saremo piuttosto noi a ripetere i vostri gesti, le vostre vittorie e i vostri errori. Certo, è una via ammirevole, ma essa ci priva del diritto alle nostre vittorie e alle nostre sconfitte - anche se le prime dovessero essere minori e le seconde cocenti.
Questo istinto suggerisce anche alla mia parte di non coprirsi di ridicolo prendendo quello che avete di più volgare, perché essa fa esattamente quello che ci si attende da lei. Diventando uno specchio deformante, essa conforta il suo modello nell'idea che si fa della sua dignità, del suo carattere eccezionale.
Sì, la vecchia Europa è in ammirazione davanti a se stessa e alle proprie virtù. Ma si può essere virtuosi all'infinito? Si può impunemente condurre alla perfezione ciò che sembra perfetto, si può sviluppare ciò che è sviluppato senza rischiare l'ipertropia? Da più di mezzo secolo, a questo quadro manca un difetto, una piccola fessura. Si può dire senza esitare che la vecchia Europa sia stata talmente occupata da se stessa da non avere il tempo di commettere il minimo peccato. Spaventata dal proprio passato, essa ha voluto ad ogni costo ritrovare la propria innocenza. Senza dubbio ci è riuscita. Ha evitato come la peste l'odio, limitando all'occasione i suoi altri sentimenti allo stretto necessario. Allargando all'infinito gli spazi di libertà, si è imbrigliata nella contraddizione che consiste nell'essere limitata dalla propria assenza di limitazioni. È proprio quello che la spinge nelle regioni in cui l'offerta di libertà sarà verosimilmente più grande della domanda. In altri termini, ci sarà talmente tanta libertà, che nessuno avrà la forza di consumarla per intero senza rischiare di morire di indigestione. La libertà è diventata una merce l'accessibilità della quale, paradossalmente, governa le società. Il rischio di perderla permette manifestamente di sopportare il suo carattere obbligatorio.

Noialtri qui, noi non crediamo troppo in noi stessi né nell'avvenire. Il tempo è sempre arrivato da noi dall'esterno e, siccome era fatto di una materia omogenea, non avevamo alcuna ragione di pensare che alla fine sarebbe stato differente da quello che era all'inizio. Non avevamo nemmeno una stima esagerata per la ragione. In fin dei conti, è lei ad averci suggerito che la nostra situazione non era invidiabile. Ecco perché non facevamo più caso alle emozioni che cambiano l'immagine del mondo senza cambiarlo. Semplicemente, il rischio che ogni cambiamento comporta ci sembrava tanto grande quanto vano. Perché la storia dei cambiamenti in questa parte del continente è storia di sconfitte. Certo, cadevamo assieme, ma in seguito, noi, noi avevamo solo i nostri occhi gelosi per guardarvi sollevarvi. È più facile condividere la sconfitta (è beneficio netto) che la vittoria.

Abbiamo una fede moderata nell'unità e nella solidarietà dell'Europa. Respingendo il nostro passato, lo consideriamo come miserabile e inutile. Ma chi, oltre a noi, ne ha bisogno? Forse che chiunque vorrebbe esserne l'erede, nello stesso modo in cui rivendichiamo apertamente e palesemente la vostra eredità? Per parlare senza giri di parole: forse che Parigi, per esempio, ha vissuto la sconfitta, il crollo e il caos dell'Est in modo altrettanto forte di quello in cui l'Est avvertiva la semplice esistenza di questa Parigi data ad esempio? Forse che Londra, per esempio, ammetteva l'idea che l'inferno dei Balcani non fosse una manifestazione di esotismo tribale, ma una tragedia altrettanto europea di quella di Coventry nel '40, '41 del secolo scorso?

Queste domande possono suonare come una lamentela, ma non lo sono. Esse parlano semplicemente del provincialismo dell'Occidente che gli fa percepire il resto del continente come una brutta copia di se stesso. Ora l'Est vi prende solamente quello di cui ha bisogno. Vi chiede in prestito l'apparenza, la maschera e il costume grazie ai quali potrà simulare di essere voi. Non abbiamo mai aspettato altro, il compito era dunque abbastanza facile. Percepiti come una massa indistinta divisa da frontiere vaghe e instabili, non abbiamo dovuto compiere uno sforzo particolare per cogliere la sfida. Siccome nessuno distingueva i nostri visi, non abbiamo avuto difficoltà a simulare di essere qualcun altro.

Se l'Occidente faceva prova di provincialismo e di spirito campanilistico, allora noi, noi praticavamo una specie di cosmopolitismo aberrante. Pur continuando a vivere nelle nostre città e nei nostri paesi, non ci vivevamo che in apparenza, considerandoli come entità fittizie. La vera vita era altrove, all'Ovest. Il nostro mondo era irreale. Dovevamo renderlo tale, per evitare di disprezzarlo. I tentativi di dare più realtà al nostro mondo si risolvevano in tristi spedizioni in un passato idealizzato o in un vago millenarismo proclamante l'avvento prossimo di un ibrido favoloso, del dragone a tre teste dell'uguaglianza sociale, della prosperità generale e della libertà totale.
Nel campo del tempo, era dunque l'avvenire o il passato, e nel campo dello spazio, un "altrove" radicale. Eravamo cosmopoliti, e lo siamo tuttora. Se vogliamo essere da qualche parte, è "in Europa", eventualmente a casa nostra, ma di preferenza in un immaginario passato eroico. Odiamo il qui e l'ora, amiamo l'altrove nel tempo e nello spazio, finché l'uno e l'altro arrivano e si trasformano in un presente da aborrire. Non abbiamo mai saputo accettarci per quello che siamo.

Ogni volta che provo ad immaginarmi l'avvenire della mia parte del continente, mi vengono in mente delle immagini di annientamento pacifico e indolore: tutto quello che compone questa regione deve sparire. La confusione, il disordine, l'irresponsabilità, la noncuranza devono sparire. L'amore perverso per la propria storia maledetta deve rendere l'anima. La tendenza all'affabulazione deve cessare di vivere, anche l'attrazione per l'invenzione deve morire, e l'amore per la fantasia sarà sostituito dalla fede in una realtà data una volta per tutte. In una parola, il mondo che abbiamo edificato pazientemente deve sparire, un mondo la cui esistenza era il nostro maggiore merito, la nostra maggiore vittoria, perché era un mondo eccezionale, unico e sprovvisto di prototipi. Non è impossibile che, da una prospettiva "europea", questo mondo assomigli ad una specie di antimondo. Ma siamo noi ad averlo creato e ad avere sviluppato alla perfezione l'arte di vivere nella sua dignità e nelle sue realtà.

E dunque quello che mi viene in mente è piuttosto un bilancio delle perdite che dei profitti. Vedo cose che devono sparire e non immagino nient'altro al loro posto. Per esempio, con che cosa sostituiremo il carattere totalmente disinteressato della vita? Queste ore e questi giorni passati su una sedia ad aspettare, con la convinzione che la realtà si svolga indipendentemente dai nostri atti e dai nostri sforzi. In fin dei conti, non sono niente altro che la nobile certezza che esistono cose più importanti e più grandi di noi.
O con che cosa sostituiremo la capacità di fantasticare, questo dono eccezionale che consiste nel porre l'immaginazione al di sopra di tutto quello che suggerisce la ragione?
Con che cosa sostituiremo questo meraviglioso sentimento di essere superiori a tutti gli altri, e in particolare ai nostri vicini più prossimi, questo sentimento che permette di sopravvivere a tutte le sconfitte?
Con che cosa sostituiremo l'odio di sé? Con che cosa sostituiremo questo grande sentimento che ci obbliga a respingere e a oltrepassare il nostro destino?

Potrei proseguire con questa litania all'infinito, citando tutti gli attributi e gli aspetti della vita in questa regione del mondo. E quando avessi finito con le idee, potrei enumerare le cose che devono sparire per sempre, senza lasciare discendenza e successori o ragionevoli sostituti.
Che cosa ci sarà, per esempio, al posto dell'eterno attaccamento di cavalli che ci funge da blasone e con cui l'Occidente abbelliva la maggior parte dei suoi reportage su questa regione?
E che cosa ne sarà del resto dell'animalità che impregna così profondamente la nostra vita? Che ne sarà delle bestie che vivono così vicino agli uomini? Delle mandrie di vacche che rientrano la sera dal pascolo con la coda alzata e cagano in mezzo al villaggio? Dell'odore del bestiame che ci ricorda da dove veniamo? Quando tutto questo non ci sarà più, quando sarà sparito dal quotidiano, più niente potrà addolcire la nostra solitudine.

E che ne sarà della decomposizione? Del materiale fragile delle nostre case che si sgretolano sotto i nostri occhi perché vogliono accompagnarci nell'invecchiamento e nella morte? Delle nostre città che hanno l'aria di essere in demolizione e al contempo in costruzione? Che ne sarà del provvisorio e del tempo che, in questa regione, penetra all'interno delle cose per farle scoppiare in modo tale che all'ora della propria morte l'uomo non si senta abbandonato e muoia in compagnia dei propri oggetti?
Non posso immaginare che tutto questo possa un giorno essere sostituito da qualcos'altro. E ciò allontana da me per un istante l'idea dell'annientamento pacifico della mia parte del continente. È possibile che tutto quello che ho evocato sia semplicemente insostituibile e debba perdurare.
Infine, l'Europa non può comporsi esclusivamente di presente. Ora tutto indica che l'ossessione del presente distrugge la vita dell'Occidente e che essa cominci a distruggere la nostra. C'è qualche cosa di malaticcio nelle vecchie città europee che esistono senza interruzione da sette o ottocento anni: in mezzo alle costruzioni ieratiche, in uno spazio pieno di un condensato di passato, sotto il degno sguardo di tempi passati, si agita una folla obnubilata dall'istante presente, dall'istante che passa. Le persone assomigliano a insetti occupati dalla loro sola vita. Non hanno passato, perché sono incapaci di comprenderlo, né avvenire, perché l'avvenire si trasforma incessantemente in presente.

Bene, d'accordo. Lasciamo da parte le idee.
Tenterò di raccontare qualcosa di reale. Qualche settimana fa, sono tornato dalla Slovacchia. Ci vado spesso perché abito solamente a quindici chilometri dal confine. La scorsa settimana è stata abbastanza agitata in questo paese. Soprattutto all'est. A Trebišov e in molte altre località, gli zingari hanno saccheggiato dei negozi e si sono scontrati con la polizia. Tutto perché, nell'ambito delle riforme, il governo slovacco ha diminuito di più della metà i sussidi familiari. Per tutti, non solamente per gli zingari. La Slovacchia conta cinque milioni e quattrocentomila abitanti, di cui cinquecentomila zingari. Hanno un tasso di crescita demografica molto più elevato degli altri. Le previsioni dicono che in cinquant'anni saranno la maggioranza in Slovacchia. In questo modo si realizzerà l'idea di uno Stato zigano. Gli slovacchi lo temono e si può capirli. In fin dei conti, sono una nazione abbastanza giovane. Si sono costituiti nel XIX secolo, hanno codificato una loro lingua, hanno detto senza giri di parole: non siamo cechi in quanto nazione e in quanto organismo politico, non siamo più l'Alta Ungheria né la Cecoslovacchia, nonostante siamo stati qui e là nel corso dei secoli. Ora ecco che di fronte a dei negozi slovacchi e alla polizia slovacca, insorge un gruppo di uomini e di donne dalla pelle scura, venuti dalle lontane Indie settecento anni fa, che cercano di pregiudicare il diritto sacro della proprietà, di distruggere un ordine politico e sociale ancora giovane, esistente appena da una quindicina d'anni. Gli zingari vogliono semplicemente prendere quello che, nel loro spirito, spetta loro: il bene altrui, perché per loro, dal momento che non appartiene a degli zingari, non appartiene a nessuno, in fondo. Questa convinzione fa parte dei rudimenti della loro cultura. Una cultura per di più molto più antica di quella slovacca, ed eccezionalmente resistente alle influenze esterne. Hanno vissuto centinaia d'anni in un ambiente estremamente ostile e non sono praticamente cambiati. Sono sopravvissuti alla minaccia dell'annientamento e alla tentazione dell'assimilazione. Hanno adottato qualcuno dei nostri gadget, qualche scarto della civilizzazione, ma senza dubbio non hanno mai avuto voglia di prendere parte all'"eredità culturale europea". Evidentemente, ciò non interessa loro particolarmente.

Non ho trovato alcuna traccia della ribellione degli zingari. La calma regnava ovunque. Ma si incrociavano delle pattuglie della polizia e dell'esercito nei borghi e nei villaggi. Nel paesaggio indolente dell'est della Slovacchia, i ragazzi in uniforme avevano l'aria un po' strana. Come se fossero smarriti e avessero loro stessi bisogno d'aiuto.
Sono andato nella città di Krompachy per vedere il suo straordinario quartiere abbarbicato al fianco scosceso e roccioso della montagna. Sembrava una colonia di uccelli agglomerata su una falesia. Gli zingari l'avevano costruito con rifiuti, scarti, cose gettate di cui nessuno aveva bisogno: lamiere arrugginite, vecchie assi, travi marce. Non capivo per quale ragione prodigiosa tutto stesse in piedi e non fosse portato via dal vento. Sì, era un prodigio, la vittoria degli zingari sulla legge di gravità. Dall'altra parte della strada, i bambini di questa bidonville appollaiata là in alto giocavano nella larga vallata piatta del fiume Hornad. C'era un inizio di disgelo, la temperatura ideale per fare dei pupazzi e dei castelli di neve. Non credevo ai miei occhi: la grande prateria bianca era cosparsa di una o forse persino più decine di enormi palle bianche. Dei bambini scuri ne facevano rotolare di continuo di nuove. Esattamente come se avessero voluto asportare tutta la neve dal prato. Era bello e irreale. Le palle di circa un metro di diametro coprivano lo spazio bianco e deserto come se fossero cadute dal cielo.

Bystrany, 2004 (Sean Gallup/Getty images, Life)

Un po' più lontano si ergevano gli edifici della fabbrica siderurgica col suo camino smisurato, all'ombra del quale giocavano i bambini.
Krompachy (Google Maps)

Queste due immagini non si accordavano in nessun modo. I ragazzini avevano creato il proprio spazio, da qualche parte fuori dal tempo, sull'esempio dei loro genitori, del loro intero popolo. La semplicità di questo gioco sfrenato, il dispendio di energia disinteressato nel nome della creazione di decine di cose inutili ed effimere facevano sì che la presenza dei lugubri edifici industriali avesse l'aria di un'allucinazione assurda, di un sogno malato.
Un'ora più tardi, ero a Levoča. Dei poliziotti gironzolavano sull'antica piazza del mercato, in mezzo a degli alberi spogli. Erano stati inviati per controllare il quartiere zigano nella parte meridionale della città. Ma non succedeva nulla. La piazza era come al solito. Tre cani e cinque poliziotti in uniforme di campagna si annoiavano a morte. Dietro ordine dei loro padroni, i cani pastore saltavano mollemente sulle panchine del parco e poi ne scendevano. Oppure riportavano delle palle di neve. Se non fosse stato per le uniformi, per le armi e per gli stivali coi lacci, si sarebbero detti bravi borghesi con amici a quattro zampe nell'ozio della siesta.
Seduto al tavolo del caffè Tre Apostoli, guardavo attraverso la finestra. Per un'ora, non era cambiato niente. Il surrealismo indolente della scena del parco raggiungeva il suo apice. Dei poliziotti dal capo rasato, corpulenti e armati, si erano trasformati in scolari. Si lanciavano delle palle di neve tra di loro e contro gli alberi. I cani eseguivano degli ordini sempre più idioti: si stendevano sulla schiena e facevano il morto. Tutto sembrava giocoso e ad un tempo minaccioso. Era la non evidenza, l'incarnazione dell'ambiguità. La forza bruta, la noia e il gioco si mescolavano in proporzioni perfette, ma il mio intuito mi suggeriva che la prima, la seconda o il terzo avrebbero potuto ugualmente prendere il sopravvento senza una ragione particolare.

Pensavo agli zingari, tornando a casa al cadere della notte. Per dirla francamente, penso abbastanza spesso a loro. Durante i miei viaggi, cerco le loro abitazioni fatiscenti e provvisorie, in Slovacchia, in Romania e in Ungheria. La loro presenza mi inquieta e, allo stesso tempo, suscita la mia ammirazione. La loro vita marginale rimette radicalmente in questione il carattere della mia "europeità". Ecco un popolo analfabeta dalla pelle opaca che percorre da secoli l'Europa e l'europeità esattamente come se attraversasse delle regioni scaramente popolate, povere e poco attraenti. Alle volte trovano qualcosa di cui fanno uso, ma nell'insieme danno l'impressione di avere portato con loro tutto quello di cui hanno bisogno. Tutto indica che non hanno imparato niente da noi e che nessuna delle nostre glorie suscita la loro ammirazione. Sarebbero da più di seicento anni ciechi e insensibili alle nostre realizzazioni? Viaggerebbero e si insedierebbero unicamente nei paesi deserti, solo buoni per essere continuamente abbandonati? Tuttavia si stenta a credere che il nostro mondo sia privo di interesse fino a questo punto. Si stenta a credere che non abbiano tentato di imitarlo, che non abbiano provato, pur maldestramente, a copiarlo. Considerare le nostre migliaia di anni di civilizzazione al più come una fonte di profitto o come un terreno di accampamento!
E se almeno ciò contenesse una minaccia barbara, un odio del selvaggio per la civiltà, una sete di vendetta o di distruzione... Ma no: è solo indifferenza, una mancanza di interesse.

Non voglio assolutamente dire che qui, all'Est, siamo un po' come gli zingari - per quanto sia una metafora interessante e seducente.
Tuttavia, ci è difficile considerare l'Europa nel suo complesso come nostra proprietà, nostra patria, nostra eredità. In essa siamo stranieri, veniamo dall'esterno, da paesi di cui l'Europa stessa ha solo un'idea vaga, considerandoli piuttosto come una minaccia che come una parte di se stessa.
Noi, noi non valiamo di più. Guardando voi, è il nostro avvenire che guardiamo. In questo modo, la nostra vita diventa noiosa, sprovvista di mistero e passione. Non abbiamo potuto accompagnarvi nel vostro fiorire e nella vostra crescita, ma in compenso canteremo il vostro declino.
Se c'è qualcosa di affascinante in quello che deve accadere, sono gli errori che commetteremo noi stessi. Non è escluso che la nostra missione continentale risieda nella deformazione delle vostre esperienze, nella loro decomposizione, in una metamorfosi grottesca e in una parodia che prolungherà la loro esistenza.

Andrzej Stasiuk, Fado, Christian Bourgois éditeur, 2009

Siccome il termine “rom” non sembra ancora veramente consolidato ovunque e Stasiuk, pur filtrato attraverso il francese, non utilizza in alcun modo in senso peggiorativo il termine tradizionale, nella versione italiana è stato mantenuto quest'ultimo.

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In rete si trovano delle poesie in romanes, anche di autori rom slovacchi. Tuttavia, il ruolo svolto dall'oralità nella cultura rom e il pensiero dell'ostracismo vissuto da Papuzca quando alcune delle sue poesie vennero messe su carta, tradotte e pubblicate dal polacco Jerzy Ficowski - quello cui dobbiamo praticamente tutto ciò che sappiamo su Bruno Schulz -, mi trattengono dal riportarle. Lascio allora uno spazio bianco come la neve.















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O sopanki (About the Shoes) from Rozálie Kohoutová on Vimeo.

domenica 23 maggio 2010

Il sognatore

Un poeta di lingua yiddish (Bal-Chalomais (il sognatore), Troymen un Virklikhkayt (Sogni e realtà), Parigi, 1920),
un ebreo credente in Dio,
un anarchico,
un espropriatore di banche espulso dall'Impero Austro-Ungarico,
un emigrato in terra di Francia,
un orologiaio,
un volontario dell'esercito francese nella prima guerra mondiale,
un rivoluzionario della rivoluzione del 1905 e di quella del 1917,
un vendicatore degli ebrei sterminati nei pogrom ucraini del '18-'20.
Tutte queste persone hanno abitato un solo nome: Shalom Schwarzbard.

*

Gli stranieri desiderano gioie straniere
Tutto è straniero a parte me
Gente straniera, sguardi stranieri
Che non vedono attraverso me

Percorsi stranieri, strade straniere
Dappertutto mi smarrisco sempre
A chi chiedere la strada
Non so - sono senza parole

La vita sembra uno strano mistero
La sfinge le domanda
Di risolvere un enigma - e la risposta
È senza rapporto con il soggetto

Shalom Schwarzbard

Samuel Schwarzbard, Mémoires d'un anarchiste juif, Éditions Syllepse, 2010

*

Pletioura, chef de bande contre-révolutionnaire qui ravageà l'Ukraine, est assassiné à Paris par un israélite russe, L'Humanité, 26 mai 1926
Le général Pletioura, ex président de la République ukranienne, tué rue Racine par un israélite russe, Le Petit Parisien, 26 mai 1926
Un crime politique ukrainien à Paris - L'hetman Pletioura, ancien président de l'Ukraine, assassiné rue Racine par un juif russe, Le Petit Journal, 26 mai 1926

Извините, а колбасы у вас нет?

И тут произошло чудо. На берегу появилась стареющая женщина. То есть
дичь, которую Буш чуял на огромном расстоянии.
Вовек не узнают черные лебеди, кто спас им жизнь! Женщина была стройна
и прекрасна. Над головой ее кружились бабочки. Голубое воздушное платье
касалось травы. В руках она держала книгу. Прижимала ее к груди наподобие
молитвенника.
Дальнозоркий Буш легко прочитал заглавие - "Ахматова. Стихи".
Он выплюнул травинку и сильным глуховатым баритоном произнес:
Они летят, они еще в дороге,
Слова освобожденья и любви,
А я уже в божественной тревоге,
И холоднее льда уста мои...
Женщина замедлила шаги. Прижала ладони к вискам. Книга, шелестя
страницами, упала на траву. Буш продолжал:
А дальше - свет невыносимо щедрый, Как сладкое, горячее вино... Уже
душистым, раскаленным ветром Сознание мое опалено...
Женщина молчала. Ее лицо выражало смятение и ужас. (Если ужас может
быть пылким и радостным чувством.) Затем, опустив глаза, женщина тихо
проговорила.
Но скоро там, где жидкие березы,
Прильнувши к окнам, сухо шелестят,
Венцом червонным заплетутся розы,
И голоса незримо прозвучат...
(У нее получилось -- "говоса".) Буш поднялся с земли.
- Вы любите Ахматову?
- Я знаю все ее стихи наизусть, - ответила женщина.
- Какое совпадение! Я тоже... А цветы? Вы любите цветы? - Это моя
свабость!.. А птицы? Что вы скажете о птицах? Буш кинул взгляд на черных
лебедей, помедлил и сказал:
Ах. чайка ли за облаком кружится,
Малиновки ли носятся вокруг...
О незнакомка! Я хочу быть птицей,
Чтобы клевать зерно из ваших рук...
- Вы поэт? - спросила женщина.
- Пишу кое-что между строк, - застенчиво ответил Буш... День остывал.
Тени лип становились длиннее. Вода утрачивала блеск. В кустах бродили
сумерки.
- Хотите кофе? - предложила женщина. - Мой дом совсем близко.
- Извините, - поинтересовался Буш, - а колбасы у вас нет?
В ответ прозвучало:
- У меня есть все, что нужно одинокому сердцу...

Сергей Довлатов, Компромисс, 1993


E poi avvenne un miracolo. Una donna di una certa età fece la sua apparizione. Un altro tipo di cacciagione, che Bush era capace di sentire a distanza. I cigni neri non sapranno mai a chi devono la loro sopravvivenza. La donna era esile e bella. Delle farfalle volteggiavano sopra la sua testa. L'orlo del suo vestito leggero color azzurro sfiorava l'erba. In mano teneva un libro, che teneva stretto al cuore come un messale.
Bush, che era presbite, lesse facilmente il titolo: "Achmatova. Poesie".
Sputò il suo filo d'erba e, con una forte voce baritonale un po' roca, declamò:

Volano, sono ancora in viaggio,
Le parole di liberazione e d'amore,
Sono già colta da un'ansia divina,
Le mie labbra sono più fredde del ghiaccio...


La donna rallentò il passo. Portò le mani alle tempie. Il libro cadde per terra in un fruscio di pagine. Bush proseguì:

Una chiarezza di cui l'abbondanza ferisce
scorre in me come un vino dolce e caldo...
Un vento incandescente e profumato
consuma già la mia coscienza...


La donna rimase in silenzio. Il suo volto esprimeva agitazione ed orrore. (Se si può dire che l'orrore sia un sentimento ardente e positivo.) Poi, abbassando gli occhi, pronunciò a bassa voce:

Ma presto dove frusciano le sparse betulle
stringendosi seccamente alle finestre
Le rose si intrecceranno in una corona rossa
E risuoneranno voci invisibili...

(E pronunciò "foci".)
Bush si alzò.
- Le piace l'Achmatova?
- Conosco tutte le sue poesie a memoria, rispose la donna.
- Che coincidenza! Anch'io ... E i fiori? Le piacciono i fiori?
- Ho un debole per i fiori!... E gli uccelli? Cosa sente per gli uccelli?
Bush guardò in direzione dei cigni ed esitò un secondo prima di declamare:

Che un gabbiano volteggi al di là delle nuvole,
Che dei passeri volino intorno...
O sconosciuto! Vorrei essere un uccello,
Per beccare il grano dalle vostre mani...

- È poeta? - Chiese la donna.
- Sto scrivendo qualcosa tra le righe, rispose timidamente Bush.
Il giorno rinfrescava. Le ombre dei tigli si allungavano. L'acqua stava perdendo il suo splendore. La penombra errava tra i cespugli.
- Vuole un caffè?, propose la donna. Abito molto vicino.
- Scusi, chiese Bush, ma non avrebbe della salsiccia?
- Ho tutto quello che serve ad un cuore solitario, rispose.

Sergej Dovlatov, Compromesso

sabato 22 maggio 2010

Un po' di lirismo slavo

"Ach, cóż to byłby za kraj, gdyby nieustannie w nim padało. Gdyby nieustannie padało na owadzie przęsła kolejki w Wuppertalu, na błotnisty plac w Bingen, na pasy startowe w Tempelhof, na zielone mundury glin, na granatowe kolejarzy, na żółte wózki listonoszy, na parasole organizatorów spotkań, na srebrne grzbiety pociągów ICE, na bruk, na asfalt, na cały kraj, na wszystko". Taką miałem wizję: Niemcy w deszczu. Nie wiem, skąd mi się to wzięło. Może przeczuwałem, że deszcz rozmyje i rozmaże ostre kontury tego kraju, i nada mu nieco słowiańskiego liryzmu? Że go trochę rozmamła, rozkrochmali, że narobi błota, zacieków i kałuż. Że czarni, greccy, bałkańscy i środkowoeuropejscy taksówkarze w kremowych mercach będą wzbijać na ulicach radosne fontanny, nie bacząc na te wszystkie garnitury i kiecki za ich dwie taryfiarskie pensje. Jednym słowem, miałem – zdaje się – antropologiczną wizję wód, które przywracają pierwotny porządek, przedwieczną harmonię oraz równość i braterstwo. Wyobrażałem sobie, że w deszczu trudniej być Niemcem, a znacznie łatwiej Polakiem.

Andrzej Stasiuk, Dojczland, Wołowiec 2007

"Ah, che paese sarebbe se piovesse tutto il tempo. Se piovesse senza sosta sul viadotto a forma di insetto di Wuppertal, sulla piazza fangosa di Bingen, sulle piste di volo di Tempelhof, sulle uniforme verdi dei poliziotti, sulle uniformi blu mare dei ferrovieri, sui carrelli gialli dei postini, sugli ombrelli degli organizzatori di manifestazioni, sul dorso argentato degli ICE, sui pavés, sull'asfalto, su tutto il paese, dappertutto". Tale era la mia visione: la Germania sotto la pioggia. Non so da dove mi venisse. Mi figuravo forse che la pioggia dilavasse e sfumasse i contorni troppo netti di questo paese e che gli conferisse un po' di lirismo slavo? Che lo rammollisse un po', che lo deridesse, che producesse fango, pozzanghere, macchie. Che i conducenti di taxi neri, greci, balcanici e centroeuropei sollevassero con le loro Mercedes color crema delle gioiose fontane per le strade, senza preoccuparsi di tutti questi abiti da uomo da mille marchi e di tutti questi abiti da donna che costavano il doppio del loro salario da autista. In una parola, avevo manifestamente una visione antropologica delle acque che portano l'ordine originale, l'armonia eterna, nonché l'uguaglianza e la fratellanza. Mi immaginavo che, sotto la pioggia, fosse molto più difficile essere un tedesco e molto più facile essere un polacco.

Una possibile versione da Andrzej Stasiuk, Mon Allemagne, Christian Bourgois éditeur, 2010, traduit du polonais par Charles Zaremba

(che poi, non deve piovere molto in Polonia, se l'ombrello non è un parapioggia, ma un parasole)

Ars poetica?

Zawsze tęskniłem do formy bardziej pojemnej,
która nie byłaby zanadto poezją ani zanadto prozą
i pozwoliłaby się porozumieć nie narażając nikogo,
autora ni czytelnika, na męki wyższego rzędu.

W samej istocie poezji jest coś nieprzystojnego:
powstaje z nas rzecz, o której nie wiedzieliśmy, że w nas jest,
więc mrugamy oczami, jakby wyskoczył z nas tygrys
i stał w świetle, ogonem bijąc się po bokach.

Dlatego słusznie się mówi, że dyktuje poezję dajmonion,
choć przesadza się utrzymując, że jest na pewno aniołem.
Trudno pojąć skąd się bierze ta duma poetów
jeżeli wstyd im nieraz, że widać ich słabość.

Jaki rozumny człowiek zechce być państwem demonów,
które rządzą się w nim jak u siebie, przemawiają mnóstwem języków,
a jakby nie dosyć im było skraść jego usta i rękę
próbują dla swojej wygody zmieniać jego los?

Ponieważ co chorobliwe jest dzisiaj cenione,
ktoś może myśleć, że tylko żartuję
albo że wynalazłem jeszcze jeden sposób
żeby wychwalać Sztukę z pomocą ironii.

Był czas, kiedy czytano tylko mądre książki
pomagające znosić ból oraz nieszczęście.
To jednak nie to samo co zaglądać w tysiąc
dzieł pochodzących prosto z psychiatrycznej kliniki.

A przecie świat jest inny niż się nam wydaje
i my jesteśmy inni niż w naszym bredzeniu.
Ludzie więc zachowują milczącą uczciwość,
tak zyskując szacunek krewnych i sąsiadów.

Ten pożytek z poezji, że nam przypomina
jak trudno jest pozostać tą samą osobą,
bo dom nasz jest otwarty, we drzwiach nie ma klucza
a niewidzialni goście wchodzą i wychodzą.

Co tutaj opowiadam, poezją, zgoda, nie jest.
Bo wiersze wolno pisać rzadko i niechętnie,
pod nieznośnym przymusem i tylko z nadzieją,
że dobre, nie złe duchy, mają w nas instrument.

Czesław Miłosz, 1968


Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l'autore né il lettore, a sofferenze insigni.

Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.

Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benchè sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.

Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?

Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l'Arte servendomi dell'ironia.

C'è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l'infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.

Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.

L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perchè la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.

Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perchè è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.

Czesław Miłosz, Poesie, Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani

venerdì 21 maggio 2010

kleinstadtelegie

die schattenkarawane, jeden morgen
ihr aufbruch, und die waschanlage,
die stets aus einem reinen schlaf erwachte.

und in den lieferwagen pendelten
die schweinehälften zwischen ja und nein,
den linden wuchsen herzen. und es paßte

nicht mehr als ein blatt papier zwischen mich und die welt.
und in den gärten, hinter allen hecken
verkündeten die rasenmäher den mai.

Jan Wagner, Guerickes Sperling, Berlin Verlag, Berlin 2004


elegia della piccola città

la caravana di ombre, ogni mattina
in partenza, e l'impianto d'autolavaggio
che regolarmente si risvegliava da un sonno puro.

e nei furgoni oscillavano
incerte tra il sì e il no le mezzene di maiale,
ai tigli crescevano cuori. e solo

un foglio di carta si infilava tra me e il mondo.
e nei giardini, dietro tutte le siepi
i tosaerba annunciavano maggio.

giovedì 20 maggio 2010

(Forse per il grembiule, forse per l'andare in punta di piedi)

Quando narò via

Quando narò via,
narò en ponta de péi.
No lasserò le péste
su la me scortaròla.
Me girerò a ogni pass
per comodar na viola,
na primola stremìda,
'ntrà l'erba spatuzzàda.
Sarò grombial de vènt
lizér de primavera
coi busi 'n le scarsèle
per corer pu lizéra.

Lilia Slomp


Quando andrò via,
andrò in punta di piedi.
Non lascerò orme
sulla mia scorciatoia.
Mi girerò ad ogni passo
per accomodare una viola,
una primula spaventata,
fra l'erba spettinata.
Sarò grembiule di vento
leggero di primavera
coi buchi nelle tasche
per correre più leggera.


(La bisnonna Maria portava sempre il grembiule. E cuciva: tutto un fare ed un disfare, a seconda della disponibilità di filo e di ago, introvabili, durante la prima guerra mondiale. In quegli anni, trattava con cura gli ultimi aghi rimasti (gli aghi erano tedeschi e dalla Germania non si importavano più) e scuciva le cose superflue, ad esempio i ricami ai lati delle federe dei cuscini. E i ricami si trasformavano in finte camicie, prive di fianchi, prive di maniche, tutte collo, bavaglio anteriore e posteriore, tenuti in posizione da un listello circolare. Mai avuto un metro da sarto standard, per prendere le misure. Ne produceva di continuo lei, ritagliando metri di fantasia da pagine di vecchi giornali. Durante la seconda guerra mondiale, un giorno, all'improvviso, la scorta di filo aumentò di colpo. Era piovuto dal cielo, in forma di paracadute.)

mercoledì 19 maggio 2010

24.

ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario: (potranno
raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti
gli uomini sono straordinari:
                                           e che di un uomo sopravvivono, non so,
ma dieci frasi, forse (mettendo tutto insieme: i tic,
i detti memorabili, i lapsus):
                                           e questi sono i casi fortunati:

Edoardo Sanguineti, Postkarten, 1978


j'ai appris à mes enfants que mon père a été un homme extraordinaire : (ils pourront
le raconter, comme ça, a quelqu'un, s'ils veulent, un jour) : et puis, que tous
les hommes sont extraordinaires :
                                                 et que d'un homme survivent, je ne sais pas,
au plus dix phrases, peut-être (en mettant tout ensemble : les tics,
les dictons mémorables, les lapsus) :
                                                 et ça, ce sont les cas heureux :

lunedì 17 maggio 2010

Le mot mot

Le mot mot ne veut rien dire (La parola parola non vuol dire niente)
Christophe Tarkos

Ça ne peut plus durer comme ça. Il y a quelque chose qui ne va pas. Dans l’utilisation faite du mot poésie, dans l’utilisation qui est faite du mot. Ce n’est pas possible. Il faut faire quelque chose. On se retrouve dans n’importe quoi, la divagation, on sait plus où on met les pieds, il y a tout et rien, personne ne sait plus ce qu’il fait, ça ne veut plus rien dire. La pensée créatrice, la beauté verbale sont réduites à des frivolités municipales, à des claquements de mains, s’engluent dans la bande sonore du championnat américain de basket, dans le chuchotement de phonèmes murmurés, ça tourne, ça peut tourner longtemps, occupe, occupe le terrain, lissé, bruisse, chauffe.

Christophe Tarkos, Manifeste chou, 1993

(Non può più durare così. C'è qualche cosa che non va. Nell'uso fatto della parola poesia, nell'uso che è fatto della parola. Non è possibile. Bisogna fare qualcosa. Ci ritroviamo in qualsiasi cosa, la divagazione, non sappiamo più dove mettere i piedi, c'è tutto e niente, nessuno sa più quello che fa, questo non vuol più dire niente. Il pensiero creativo, la bellezza verbale sono ridotti a frivolezze municipali, a battiti di mani, si incollano nella banda sonora del campionato americano di basket, nel sussurro di fonemi mormorati, funziona, può funzionare a lungo, occupa, occupa il terreno, levigato, rumoreggia, scalda.)

*

Lorsque je lis un poème je rage lorsque je bute des lèvres sur le mot "mot" ou sur le mot "phrase" et surtout sur les mots "plume" et "page"

Le monde mincit se décharne devant Où sont les poètes Qu'ils sortent dans la rue et montrent qu'on y respire avec largeur Qu'on entende le bruit que font leurs chaussures sur les escaliers de la bibliothèque qu'on voie leur sourire et leur regard alerte défier la morosité des gardiens

Tapage à leur passage dans la ville

Yael Weiss, Cahier de violence, 2009


(Quando leggo una poesia mi infurio quando le labbra inciampano sulla parola "parola" o sulla parola "frase" e soprattutto sulle parole "penna" e "pagina"

Il mondo dimagrisce gli si striminzisce davanti Dove sono i poeti Che scendano in strada e mostrino che vi si respira con larghezza Che si ascolti il rumore che fanno le loro scarpe sulle scale della biblioteca che si veda il loro sorriso e il loro sguardo svelto sfidare la tristezza dei portinai 

Baccano al loro passaggio nella città)

*
((piccolo tributo alla poesia non époustouflante. un'autocritica, anche. e soprattutto un dolore.))
*

La parole est irréversible, telle est sa fatalité. Ce qui a été dit ne peut se reprendre, sauf à s’augmenter : corriger, c’est, ici, bizarrement, ajouter. En parlant, je ne puis gommer, effacer, annuler ; tout ce que je puis faire, c’est de dire « j’annule, j’efface, je rectifie », bref de parler encore. Cette très singulière annulation par ajout, je l’appellerai « bredouillement ». Le bredouillement est un message deux fois manqué : d’une part on le comprend mal, mais d’autre part, avec effort, on le comprend tout de même ; il n’est vraiment ni dans la langue ni hors d’elle : c’est un bruit de langage comparable à la suite des coups par lesquels un moteur fait entendre qu’il est mal en point ; tel est précisément le sens de la ratée, signe sonore d’un échec qui se profile dans le fonctionnement de l’objet. Le bredouillement (du moteur ou du sujet), c’est en somme une peur : j’ai peur que la marche vienne à s’arrêter.
Roland Barthes, Le bruissement de la langue, 1975

domenica 16 maggio 2010

Post della domenica

Christophe Tarkos, péagiste

Un pauvre, tu dis?
Un paumé, un paysan?
Un serf chassé sur les routes,
Qu'habillent les trente gloriouses?

Un laquais impuissant dressé en guérite?
Un frère tourier aux mains toujours vides?
Un corps sans corps des hommes de demain,
Qui volent, que la faim ramène au sol?

Donc: un péagiste, automate trilingue
Sans langue, uniforme vide
Comme une coquille, livre enchaîné.

(Ne trouve-t-on le rythme
Des poèmes en se levant
De table pour aller faire la vaisselle?)

Jan Baetens

Cofondateur de la revue Poèzie Prolétèr, Christophe Tarkos (1964-2004) ne connaissait que trop le monde des petits boulots.


Christophe Tarkos, casellante

Un povero, dici?
Uno sfigato, un contadino?
Un servo cacciato sulle strade
Che abbigliano gli anni del boom?

Un lacchè impotente vestito in garitta?
Un fratello infornatore dalle mani sempre vuote?
Un corpo senza corpo degli uomini di domani
Che rubano, che la fame atterra?

Dunque: un casellante, distributore automatico trilingue
Senza lingua, uniforme vuoto
Come una conchiglia, libro incatenato

(Non si trova il ritmo
Delle poesie alzandosi
Da tavola per andare a lavare i piatti?)

Cofondatore della rivista Poèzie Prolétèr, Christophe Tarkos (1964-2004) conosceva bene solo il mondo dei piccoli lavori.

Così Jan Baetens, forse l'ultimo poeta fiammingo di espressione francese, su Christophe Tarkos nel suo volume Pour une poésie du dimanche (per una poesia della domenica), Les impressions Nouvelles, 2009. Tarkos, di cui al momento non so proprio nulla, ha lasciato di sé questa biografia:

Sono nato nel 1964. Non esisto. Fabbrico poesie.
1. Sono lento, di una grande lentezza.
2. Invalido, in invalidità.
3. Soggiorni regolari in ospedali psichiatrici da 10 anni.
La raccolta di poesie di Baetens è dedicata a poeti che hanno un mestiere diverso da quello di poeta, da Majakovskij (commissario del popolo - io avrei detto il contrario) a Jim Jarmush (cameriere e molto altro) ad autori anonimi. Ne riporto l'esergo:
Quando sono arrivato con il mio Nu descendant un escalier, hanno saputo che non corrispondeva alla loro teoria, che non era un'illustrazione della loro teoria. E infatti, in questo quadro c'era più che del cubismo, ovvero l'idea del movimento, sulla quale nello stesso tempo stavano lavorando i futuristi. Allora hanno giudicato che non fosse né l'uno né l'altro, né futurista né cubista, e l'hanno condannato. (...) L'ho trovata una cosa priva di senso, ingenua. Allora questo mi ha talmente raggelato che per reazione contro tale comportamento, venuto da artisti che ritenevo liberi, ho preso un mestiere. 
Pierre Cabanne, interviste con Marcel Duchamp, 1967
E se poi non mi metto a cercare adesso altre notizie su Tarkos, la cui biografia me lo rende da subito amico, ma lo rimando ad un altro momento e se pubblico questo post nello spazio di qualche minuto, casca pure giusto di domenica (il link non punta ad una grande canzone, ma il video è girato di fronte al teatro Verdi di Trieste, che architettonicamente non ha niente di originale - una piccola copia della Scala di Milano -, e dietro alla galleria Tergesteo  - una piccola copia della galleria Vittorio Emanuele di Milano -, galleria Tergesteo su cui Kafka, se mai avesse avuto occasione di scriverne, si sarebbe così espresso: so groß wie in der Galerie habe ich Menschen niemals gesehen (non ho mai visto gli uomini così grandi come nella galleria), ma di eccezionale ha solo questo: è uno dei pochi posti urbani al mondo dove si può girare un filmato in ore diurne senza dover effettuare alcuna operazione di sgombero o di contenimento dei passanti, basta attendere che le marantighe (vecchiacce) prendano il loro posto o al Verdi, appunto, o al Caffè degli Specchi nella vicina piazza Unità).

Come sarebbe se il fiume fosse il Meno

Слоны бились бивнями так,
Что казались белым камнем
Под рукой художника.
Олени заплетались рогами так,
Что казалось, их соединял старинный брак
С взаимными увлечениями и взаимной неверностью.
Реки вливались в море так,
Что казалось: рука одного душит шею другого.

Велимир Хлебников, 1910-1911


Gli elefanti si battevano con le zanne così,
Che parevano una pietra bianca
Sotto la mano dell'artista.
I cervi intrecciavano le loro corna così,
Che parevano essere uniti da un'antica alleanza.
Con le loro attrazioni reciproche e le loro reciproche incostanze.
I fiumi confluivano in mare così,
Che la mano dell'uno pareva strozzare il collo dell'altro.

Velimir Chlebnikov, 1910-1911


(Lo сдвиг (spostamento) di suono e di senso da река (fiume) a рука (mano) è completamente perduto e con tutta probabilità non solo quello. La cosa più idiota che mi è venuta in mente finora per tentare di mantenerlo è il gioco di parole Meno-mano, ma a Francoforte sull'Oder non l'avrebbe capita nessuno - ci tengo particolarmente, ai lettori di quella città -, mentre la cosa meno idiota cui mi è riuscito di pensare è un'immagine che si sviluppi a partire dai bracci di un delta fluviale, ma vi ho rinunciato, ché nel delta il fiume "discende per aver pace coi seguaci sui" e non confluisce con scatti di violenza).

sabato 15 maggio 2010

Come sarebbe se restassimo nel punto A

Le strade

Le strade polvere
o fango sassi asfalto partono
da A
giungono a B passando
per i punti intermedi
che assieme ad A e B
sono la stessa strada
strade fatte per una mente pigra
non tanto per i piedi quanto
per la nostra impazienza
(tutto sfiora e inutile procede)
potremmo invece consapevoli aspettare
su A seduti su A in piedi
che A avvampi s'allunghi
s'allarghi si svisceri si sveli
uguale a B
ai punti intermedi
ad altro ancora.

Bartolo Cattafi


Les routes

Les routes poussière
ou boue pierres asphalte partent
de A
parviennent à B en passant
par les points intermédiaires
qui avec A et B
sont la même route
routes faites pour un esprit paresseux
pas tant pour les pieds mais plutôt
pour notre impatience
(qui tout effleure et inutile avance)
conscients nous pourrions au contraire attendre
assis sur A sur A debout
que A s'enflamme s'allonge
s'élargisse se dénude se révèle
égal à B
aux points intermediaires
à autre chose encore.


(Accarezzo anch'io, come molti, l'idea di viaggiare da fermi, e talvolta la pratico pure. Però vi trovo un limite, forse - non lo nego - legato alla pigrizia della mia mente o ai limiti della mia immaginazione: come trovare l'altro, nei viaggi da fermi?)

venerdì 14 maggio 2010

Come sarebbe se ce la prendessimo con le rive

Der Fluss, der über die Ufer tritt, wird gewalttätig genannt, das Ufer, das ihn eindämmt, aber nicht.
Bertolt Brecht
(Di un fiume che esonda dalle rive si dice che è violento, ma non della riva che lo contiene)

"À Miami tout a commencé peu après 14 heures à la porte D-42 de l'aéroport international À l'interieur du tunnel d'accès au vol 924 d'American Airlines destination Orlando Rigoberto Alpizar a commencé à s'agiter à menacer et à courir frénétiquement Dans le désordre qui s'ensuivit il a crié qu'il avait une bombe dans son bagage à main Immédiatement deux agents de la sécurité aérienne qui étaient à l'interieur de l'avion l'ont sommé de se jeter à terre Rigoberto Alpizar n'a pas obéi
On entendit quatre ou cinq coups de feu et l'homme tomba abattu"
Reforma (Mexico), 8 décembre 2005

Yael Weiss, Cahier de violence, Éditions & What, 2009, Les poètes liquides associés

"A Miami tutto è cominciato poco dopo le ore 14 alla porta D-42 dell'aeroporto internazionale All'interno del tunnel di accesso al volo 924 dell'American Airlines destinazione Orlando Rigoberto Alpízar ha cominciato ad agitarsi a minacciare e a correre freneticamente Nel disordine che ne è seguito ha gridato di avere una bomba nel suo bagaglio a mano Immediatamente due agenti della sicurezza aerea che erano all'interno dell'aereo gli hanno intimato di gettarsi a terra Rigoberto Alpízar non ha obbedito
Si sono sentiti quattro o cinque colpi di arma da fuoco e l'uomo è caduto abbattuto"
Reforma (Messico), 8 dicembre 2005

Yael Weiss è nata in Messico, dove vive, nel 1977. Dal 2000 al 2007 ha vissuto a Parigi. A proposito del suo libro Cahier de violence (quaderno di violenza - non di lamentele, osservo), ha detto: "Quando scrivo, mi rivolgo innanzi tutto al mio vicino. Il mio vicino allora era francese. È nella sua lingua, in questa città, nella sua storia e nella sua violenza specifica che sono stata accolta ed è questo che ho sperimentato."

Alla luce di queste parole, la scelta odierna può apparire non perfettamente rappresentativa del suo libro, ma questo blog non conosce la parola perfezione e oggi l'algoritmo di Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi ha restituito questo brano. Del resto, niente fa ritenere che l'algoritmo non possa ritornare sulla Weiss un altro giorno.

L'articolo sul giornale messicano Reforma si intitolava Amenaza con bomba, y lo matan e cominciava così: Oficiales de EU abatieron en el aeropuerto de Miami a un hombre que dijo tener una bomba. Guardias aéreos explicaron que al abordar el vuelo 924 de American Airlines, Rigoberto Alpízar...

Jeremy Fisher ha dedicato ad Alpízar la canzone Lay Down (Ballad Of Rigoberto Alpizar).


Io, questo post.

De tu corrida presencia

Sua madre diceva che erano croati, suo padre che erano jugoslavi. Lui non ne sapeva niente. Quando passava le vacanze dai cugini in Croazia, si sentiva croato, ma era una cosa vaga. Il suo nome era serbo: Velibor (grande abete, ma ovviamente i nomi di persona non si traducono). A scuola imparava una lingua dal nome complicato: serbo-croato o croato-serbo o serbo o croato, e lo scriveva qualche volta in alfabeto latino, qualche volta in alfabeto cirillico. Confondeva la b e la v. Avrebbe voluto fare il calciatore. Nero e brasiliano, di preferenza. Da grande, avrebbe voluto chiamarsi Jairzinho. Poi avrebbe voluto diventare poeta. A scuola scriveva poemi dedicati a Tito fatti di versi in rima baciata con -allo di VIVA IL MARESCIALLO! Cantava Druže Tito, mi ti se kunemo (Compagno Tito, noi te lo giuriamo), Hej Jugoslaveni e Comandante Che Guevara. Su questo testo:

A quí sequeda a la cara,
La entrainable transpa rentia
De tu tu corrida pre sentia,
Comandante Che Guevara.

Estratti liberamente interpretati e liberamente assemblati da Velibor Čolić (scrittore bosniaco emigrato in Francia nel 1992), Jésus et Tito (roman inventaire), Gaïa Éditions, 2010

giovedì 13 maggio 2010

Come sarebbe se volessimo sul piede giusto ripartire



Tavoli, giornali, alba pratalia

Che "è vento da neve", che "stagna, anzi"
e "la padrona ha una cugina, anzi due"
"gemelle, che assomigliano a lei" "e in tre fanno
confondere tutti"
    "sbatte le porte e viene freddissimo dentro"
    (27 dicembre 1976
     osteria vicina alla Porta con l'Orologio). Dentro:
nulla di più vasto di quei tavoli
dove ogni possibilità storica e metafisica
esce, scivola fuor dalla guaina e certamente (sost.) e derivati
                   sta-e-stanno tra macchie
di vino e segni di piattini         e lustro e fragili pattumi.
Un lustro appena indiziario -
da certi tavoli -
che sbanda e se ne va per conto suo così di sbircio
che va al lontanante
following nothing nothing
getting up getting on
un lustro qui venuto, ai tavoli, e ormai sfuggente
                    da una ben nota Emmaus dai fari anabbaglianti
    Qualcosa si altera stupendamente nel suo aderire
    al punto più basso della realtà del tavolo
    low sunshine          "suo" lucido e sguancio
Hanno poi confermato i due
    pensionati che - qui - è -
    dolcissimo esser chiusi nell'ovo della pensione
    e dell'osteria
e che: i riflessi del vino-ombretta nel calice
    bevuto "in modo che, se la moglie entra,
    sembri il primo calice", i contorni
    di tale vino i segni indiziarii
    di tale resto di vino -
         fanno un cerchiolino imprigionito nel calice -
         tutto vi si lascia
    cogliere e sciogliere
    comprese alcune domande che si sporgono, soltanto, così,

E il vento scopa via la morte che non ci sente per niente
o la persuade a recarsi a ritirare la pensione
giù all'ufficio, se mai fosse aperto
E il freddo scopa via l'orrido millepiedi
                  e il '76 con i suoi 366 peduncoli di sventure
E verrà Epifania che tutte le feste scopa via
meno che i vecchi eterni di pensioncine
       e mogli sorvegliatiche,
       e men che mai padroncine gemelle 1+1+1 cugine

Davvero gronda di fato il giornale
di qui che, appunto, non reca nessuna notizia
ma è come se ne recasse - oh -
       quai vive stelle, notizie che fate noto il niente,
       notizia suppergiù, emanante, gazzetta abrasa, ad angolo radente
       che accenna perfino talvolta a un rametto
       che il vento (quello di cui sopra) ha spezzato nel bosco -
       a dieci fili d'erba calpestati da un ragazzino
       a "si ferisce con una lamiera"
       alla cena di tutti quelli che si chiamano Mario
       alla neve del '76 che forse
       forse, qui in osteria, sul giornale, supererà quella
       degli ultimi cinque, anni o secoli, che fa?

Osteria e voglia di giornale vuoto
Osteria: sbattetevi i piedi per bene, entrando:
                  dalle nudità delle nevi sbattetevi,
del gemmeo grumo sotto le scarpe camminanti
fate mucchio sulla porta,
sbattete via i piedi
già altissimi di nevi
          se vorrete sul piede giusto ripartire

Andrea Zanzotto, Fosfeni, 1983


La storia, Ritratti, Andrea Zanzotto, di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini

mercoledì 12 maggio 2010

Come sarebbe se avessimo diritto solo a tre valigie, anzi ad una sola

Но и такой, моя Россия,
ты всех краев дороже мне
Александр Блок
(Russia mia, anche così
sei il Paese per me più caro
Aleksandr Blok)

In Russia, ogni emigrante aveva diritto a tre valigie.

Dovlatov, quando nel 1978 emigrò, provò a protestare:

Всего три чемодана?! Как же быть с вещами?
(Solo tre valigie?! Ma come si fa con tutta la roba?)

Col tempo, però, ebbe modo di ricredersi e si rese conto che una valigia in fin dei conti gli era stata più che sufficiente:

Я оглядел пустой чемодан. На дне -- Карл Маркс. На крышке -- Бродский. А
между ними -- пропащая, бесценная, единственная жизнь. Я закрыл чемодан. Внутри гулко перекатывались шарики нафталина. Вещи пестрой грудой лежали на кухонном столе. Это было все, что я нажил за тридцать шесть лет. За всю мою жизнь на родине. Я подумал -- неужели это
все? И ответил -- да, это все.
(Ho esaminato la valigia vuota. Sul fondo Karl Marx. Sulla parte superiore Brodskij. E tra loro la mia unica, inestimabile, irripetibile vita. Chiusi la valigia. All'interno rimbalzarono, rumorose, le palline di naftalina. Un mucchio di cose diverse giaceva sul tavolo della cucina. Era tutto quello che avevo accumulato in trentasei anni. Nel corso di tutta la mia vita nel mio Paese. Pensai: ma davvero è tutto qui? E risposi: sì, è tutto qui.)

Сергей Довлатов, Чемодан
(Sergej Dovlatov, La valigia)

*

Dies ist es, so empfand ich, eine Feuersbrunst; nun erlebe ich sie! Schlimmer ist es nicht? Das ist das Ganze? (È questo, così percepii, un incendio; ora vivo questa esperienza! Non è peggio? È tutto qui?)

Thomas Mann, Enttäuschung (Delusione)


*
Erotik

Befreiung mit dir
damit wir nie mehr
schamlos sein müssen

und nicht mehr erklären müssen:
"Es ist doch
nichts weiter dabei"

Endlich können wir tun
du mit mir
ich mit dir

alles was wir wollen
auch das
wobei viel ist

und was wir sonst nie getan haben
und was wir nicht sagen werden
irgendwem

Erich Fried

(Liberarsi con te
perché non ci si debba più
vergognare

e spiegare:
“In fondo
è tutto qui”

Possiamo finalmente fare
tu con me
io con te

tutto quello che vogliamo
anche questo
in cui vi è molto

e quello che non abbiamo mai fatto
e quello che non diremo
a nessuno.)