venerdì 31 dicembre 2010

Nostra corrispondenza particolare

Ernesto Ragazzoni, il poeta, giornalista e traduttore autodidatta che immaginò molto più di quanto effettivamente scrisse, fu chiamato al quotidiano La Stampa da Frassati, che era rimasto colpito da alcuni suoi articoli pubblicati su La Gazzetta di Novara. Frassati l'aveva cercato e trovato in un bugigattolo della stazione torinese di Porta Nuova, dove Ragazzoni compilava moduli ferroviari e distribuiva bollette di spedizione. 

Ragazzoni lavorò a La Stampa per molti anni, sia nella sede di Torino, sia come corrispondente dall'estero. Iniziò come virgolatore, poi si occupò di tutto, politica, cronaca, cronaca giudiziaria, varietà.

Pigro (almeno per chi non sapesse cogliere l'iperattività che caratterizzava le sue attività oniriche diurne) e disincantato, per lui niente era urgente o della massima importanza, neanche gli eventi ai quali chiunque altro avrebbe riservato (e riservò) la prima pagina: relegò in quinta pagina, e in caratteri piccolissimi, l'impresa di Cook, intitolando l'articolo "Il dottor Cook annuncia di aver raggiunto il Polo" e rischiando l'indomani il licenziamento, che riuscì ad evitare forse grazie alla polemica che seguì la smentita di Peary.

Gli piacevano le pagine invisibili, i sobborghi delle città, l'inverno e non l'estate, i libri che nessuno legge più, le estemporaneità e le deviazioni dalle regole: una volta, mandato a a fare la spesa per il pranzo di Natale dai suoi due coinquilini con i quali condivideva non solo l'appartamento, ma anche le difficoltà di pagarne regolarmente l'affitto, tornò a casa senza cibo, ma con un rudimentale telescopio comprato da un venditore ambulante, con cui passò il Natale contemplando la luna.

Aveva una particolare abilità nell'individuare e stigmatizzare la ripetizione, il rituale, il gesto e la parola che, ripetendosi, si svuotano di significato. E nel prendersene gioco.

Oggi, dopo questa introduzione, i cui episodi ricordati devo quasi integralmente a "Un uomo, un giornale" di Luciana Frassati, propongo una sua corrispondenza da Parigi, con una sola raccomandazione: non la si prenda troppo sul serio. Ragazzoni non l'avrebbe voluto.

*

Il "Cubismo" e i suoi misteri

(Nostra corrispondenza particolare) Parigi, ottobre
Il Salon d'autunno, che si è aperto in questi giorni, consacra definitivamente dinanzi agli occhi del pubblico una nuova scuola di pittura destinata a mettere sottosopra il mondo. Questa scuola è il "cubismo". Il "cubismo" non consiste già, come si potrebbe credere, nella pittura esclusiva dei cubi; il "cubismo" accetta anche altre forme, il trapezio, l'icosaedro, il romboide, il prisma, il triangolo isoscele, — tutte, purché non c'entri una sola curva, — e potrebbe essere definito, così ad occhio e croce da un profano, la traduzione in linee geometriche della natura. Ma quando si dice linee geometriche, si sottintenda linee geometriche rette. Gli archi, le circonferenze, le sfericità, tutto quanto mostra di ribellarsi alle rigidità delle verticali, delle orizzontali, delle diagonali è irremissibilmente escluso. Il "cubista" vede nell'universo, unicamente ed esclusivamente, la linea retta la quale certo è la via più breve che conduce da un punto ad un altro qualsiasi... compreso il manicomio. Così, chiedete ad un "cubista" che forma abbia la luna, vi risponderà: è un astro quadrato. Pregate un "cubista" di disegnarvi la Venere di Milo o le forme di Giunone e subito andrà a cercare un regolo ed una squadra. Mettete dinanzi ad un "cubista" un ...tondo di spaghetti, e c'è da scommettere che ve lo tirerà in faccia.
Ma noi scherziamo, e non c'è niente da ridere. Il pubblico profano ha pari burlarsi, ma il "cubismo" è ammirato, il "cubismo" è ricercato, il "cubismo" è venduto, il "cubismo" diventa di moda. Esso ha dovuto attendere tre o quattro anni la sua ora, ma adesso l'ora è venuta. Ieri i "cubisti" erano sconosciuti, o meglio misconosciuti, oggi fanno chiasso. Il Salon dedica loro un'intera sala, e il fior fiore di Parigi, il pubblico eletto delle premières dei caffè concerti, dei pésages, delle spiagge eleganti, dei grandi processi criminali e di altri insigni ritrovi mondani, il pubblico intelligente, insomma, che non è come la vil folla volgare chiuso ad ogni idea di Bellezza, va in solluchero, approva e... capisce! Quanto a me, alla prima notizia che il "cubismo" era nato e battezzato, sono subito corso al Salon a fare la sua conoscenza. Quando una scuola d'arte si manifesta e sorge, chi può mai dire quali vergini vie ella aprirà, quali fremiti nuovi, quali nuove emozioni diffonderà sulla terra? Veramente già troppe cose in "ismo" hanno abbarbagliata e poi delusa l'umanità, ma ogni neonato che sbarca in questo povero mondo è bello come la speranza, e si dovrà cessare di sperare se qualche nostra antica illusione è andata fallita? E quale progresso, infine, potremmo noi fare se rifiutassimo ogni credito ai novatori?
Penetrato di queste benevoli disposizioni e di questi onesti sentimenti giunsi al Grand Palais. Mi raccolsi un momento ancora sulla soglia del tempio, ed entrai. Oh, qual gioia andare così alla ventura in cerca di capolavori! E ad ogni passo erano emozioni, ansie, perplessità. Infatti, non avendo, — allora — nessuna nozione precisa del "cubismo" e nemmeno nessun indizio sulla sala dove impera, mi fermavo dinanzi ad ogni quadro, scrutando, analizzando, tentando di discernere il carattere originale della nuova scuola, ed il bello è che ad ogni tratto mi pareva di aver trovato e che sempre il mio errore aveva mille giudiziose ragioni di fondamento. Subito nel vestibolo i miei occhi si arrestarono sorpresi sovra un cubo enorme, di ocra gialla traversato da sottili tagli rettangolari e che aveva la pretesa di rappresentare una casa. A fianco, vidi delle figurine di zinco colorato che sembravano tagliate a macchina. Erano queste le prime avvisaglie del "cubismo"? Me ne dissuasi pensando che non è nei vestiboli e nelle anticamere che si riceve un ospite di tanto riguardo, e salii lo scalone d'onore, non senza qualche emozione. Varcai una sala, poi un'altra, poi un'altra, poi dieci altre. I miei sguardi si volgevano interrogando da quadro a quadro: vidi marine che potevano essere guardate anche capovolte, con eguale successo; imbrogli di aste gialle e nere che volevano dire un bosco; campi di spinaci tracciati a quadrati perfetti, forse da qualche ortolano agrimensore; vidi certe specie di arche di Noè che non erano nient'altro che case; vidi burattini nudi sconvolti in contorsioni bizzarre; figure cadaveriche emergenti da sfondi di zolfo e di bitume; e dinanzi a ciascun quadro mi veniva alle labbra la domanda: è "cubismo" questo? No, non ancora!
Sulla soglia di una piccola sala, — piccola, come è dei santuarii dove sono serbate le reliquie più preziose, — un lampo finalmente mi traversò il cervello. Avevo trovato! I segni infallibili erano là sotto ai miei occhi. L'arte nuova mi rivelava tutte le sue maraviglie!
E che arte! Addio procedimenti arcaici dell'antica pittura, addio morbidezze di contorni, addio armoniose flessuosità di modellature! Nient'altro, qui, che angoli, spigoli e faccie ben determinate di solidi! Il corpo umano, gli animali, gli alberi, le cose hanno l'apparenza di quelle agglomerazioni di cristalli che troviamo per solito, illustrate nei trattati di geologia. Avete mai visto per le strade quei mucchi di dadi di legno che servono per la pavimentazione? Bene, quello è puro "cubismo". Anche il colore si avvicina moltissimo. Provatevi coll'immaginazione a scoprire delle fisonomie o delle forme in quei mucchi, come spesso l'occhio si diletta a fare nei giochi e nei caos delle nuvole, ed avrete l'impressione precisa di trovarvi dinanzi ad una di queste tele. Per effetto, non c'è che dire, il "cubismo" ne produce uno impareggiabile. Gleizer, Fresnaye, Metzinger, Léger, Fontenay, Duchamp, i maestri della novissima scuola hanno mille ed un titolo per andare orgogliosi. Gleizer ha una "caccia" che i competenti dicono stupenda. Dopo inauditi sforzi io non sono riuscito ad indovinare, perduta dentro un guazzabuglio di poligoni, che una tromba pentedecagona sotto il braccio di un fantino romboidale, ma io non sono competente e la sola passione del bello non basta a dissuggellarmi il comprendonio. Meglio, invece, ho compreso il La Fresnaye il quale espone un nudo di donna. Qui anche un profano capisce subito che la disgraziata signora deve aver passato un cattivo quarto d'ora presso una tribù di antropofagi, che l'ha spogliata del meglio di polpa, lasciandola piallata come un asse. Il "cubismo" fa di questi scherzi alla più bella metà del genere umano. La taglia come un'accetta può tagliare un tronco; la faccetta graziosamente ad angoli salienti e rientranti acuti, retti, ottusi; le fa gli occhi a squadra, il naso a spigolo di piramide, e quando l'ha così ben bene "cubificata" la mette in giro, felice, senza per altro l'avvertenza di apporre al quadro un cartello con scritto: "Badate di non pungervi". Certe figure, infatti, pare debbano tagliare a passarvi sopra la mano...
Ma tiriamo via, che c'è altro.
Fontenay ha due prismi che fanno all'amore sotto un albero dodecaedro, un amore solido come ben si può capire; Léger ha parecchi paesaggi, barche cubiche veleggiano su onde non meno cubiche, vedutine prese dal vero... nel caleidoscopio, effetti di nubi triangolari, ecc.; Metzinger ci regala... tutta la geometria... Ah, questo Metzinger che forza! Ho avuto un bel fare a socchiudere gli occhi, a pormi in tutti gli angoli della sala, a farmi canocchiale colla mano, a pararmi sapientemente le ciglia!... Ci ho perduto tutto il mio latino. È vero che non lo so, ma l'ho perduto lo stesso, e quando dopo infinite, vane torture, per estrarre... la radice cubica lasciai il Grand Palais, mi ritirai umiliato, avvilito quasi sentendomi, come scriveva il Bovio, "preistorico all'umana civiltà".
Il giorno dopo ho avuto la fortuna di conoscere un pittore "cubista". L'ho interrogato col rispetto che si deve all'iniziato di una setta misteriosa. Mi sono scusato della mia incompetenza e gli ho chiesto di spiegarmi che cosa sia il "cubismo". La mia umiltà lo ha commosso e non disdegnò di scendere a spiegazioni facili alla portata delle intelligenze comuni...
"Il cubismo — cominciò il mio catechista, è un'arte cerebrale, e non è tanto pittura, quanto astrazione. Il suo vero nome dovrebbe essere "purismo" giacchè cerca di ricondurre le forme complesse della natura alle loro linee più semplici ed essenziali che appunto sono le linee geometriche. Il disegno dei "cubisti" è per rapporto a quello degli altri pittori, ciò che è l'algebra per rapporto al calcolo ordinario. La riduzione di tutte le forme in figure geometriche certo dà alle opere di questi artisti un'apparenza insolita che urta il profano; ma è tuttavia un sistema ingegnosissimo per determinare con precisione, non soltanto le masse, i piani, le distanze, ma anche i valori ed i chiaroscuri. Si ottiene, con questo mezzo, un legame indissolubile tra la linea ed il colore, che produce una progressione ritmica nel senso dell'asse visuale. Esso costruisce le prospettive luminosa e psichica, in cui si manifesta tutto ciò che un'opera d'arte esprime d'occulto..."
Qui, vedendo che la spiegazione minacciava di oscurarsi in disquisizioni metafisiche per lo meno tanto astruse quanto le tele del Grand Palais, mi sono arrischiato ad interrompere il mio "cubista" e gli chiesi se proprio la pittura deve essere destinata a ridursi ad un'algebra e se proprio all'occhio non deve essere fatta alcuna concessione... Non avessi mai interrotto! Le proteste "cubiche" irruppero colla violenza di una cateratta:
"Ma all'occhio non bisogna accordare nessuna fiducia, o almeno accordarne ben poca. L'occhio nove volte su dieci si inganna, e noi dovremmo stare alla sua sola testimonianza e lavorare solo per diletto suo? L'occhio non accetta il più spesso che l'inganno. L'occhio non vede affatto. Si è tentato di farne uno strumento fedele, intelligente, ma invano. Esso non è che una finestra; noi vogliamo richiamare a questa finestra, che per se stessa è cieca, il pensiero e la ragione... "
E via su questo tono, vi lascio immaginare che po' di roba di dissertazione. Con tutta la mia buona volontà di tenerle dietro, dopo un tratto dovetti rinunciare, come un viaggiatore in ritardo che corre trafelato dietro un treno che scappa si lascia cadere affranto su una panca.
Nella vertigine delle parole ho ancora raggiunto qualche frase: "La luce dallo stesso sole non è la stessa per tutti. L'artista è quegli per cui Dio sembra avere creato un sole speciale. Se piace all'artista di immaginarsi che il suo sole speciale sia il solo che esista nell'universo, non ci si deve vedere alcun inconveniente... "
E quest'altra: "La disciplina "cubista" rende qualsiasi sentimentalità impossibile, ma ciò che si perde da questo lato lo si ritrova in cerebralità".
E questa ancora: "il ritmo è una serie unificante di contrasti lineari o dinamici; valori, contrasti tra la luce e l'ombra, non sono che ritmi nella direzione di profondità dell'asse visuale... "
Che cosa volete, queste teorie non sono molto chiare, ma almeno hanno il merito di far comprendere una cosa, e cioè il perché non si possa capir nulla (parlo per conto mio) delle famose tele esposte al Salon.
Tuttavia, il "cubismo" ha alcunché di suggestivo che è impossibile negare. Il "disegno algebra", la "ragione alla finestra dell'occhio che non ci vede", il "sole speciale dell'artista", i "contrasti lineari e dinamici" sono cose che rimangono impresse... Chissà che un giorno o l'altro non si diventi "cubisti" tutti quanti! Io non dispero. Per esempio, v'immaginate già voi, di qui, le esclamazioni al passaggio di una bella ragazza? — Che delizioso parallelebipedo !...

Ernesto Ragazzoni, La Stampa, 19 ottobre 1911

mercoledì 29 dicembre 2010

Dizionario di tutte 'e cose - U come Ulisse, V come viaggio

Quello che racconto oggi
sono le storie che avrei sperato di sentire.
Quello che racconto è solo una parte di quello non ho visto.
Se avessi visto, non avrei raccontato.

Issa Makhlouf in una traduzione della traduzione di Nabil el-Hazan

Tendiamo ad associare tutto: parole, suoni, odori, ricordi, sogni, numeri. Per comporre? Per ricomporre?

A me, per esempio, questi versi di Makhlouf fanno venire in mente Omero. 

Nelle ultime generazioni, probabilmente solo i surrealisti sono riusciti ad associare in modo libero, e comunque solo all'inizio, prima di esporre, prima che ci si aspettasse facessero i surrealisti. I surrealisti e pochi altri: dei solitari, per lo più. In tempi più remoti, persino il buon selvaggio associava: se il suo vicino di caverna schiattava dopo aver mangiato una bacca rossa, dubito che si lasciasse tentare dalla curiosità di assaggiare quella bacca rossa.

Mi fanno venire in mente Omero, e quindi Ulisse.

Associamo pigramente, strettamente, indissolubilmente, almeno nei limiti della capacità di memoria umana, quella individuale, quella collettiva, quella intergenerazionale. Possiamo farlo al punto da circoscrivere l'intera vita di un uomo alla sola idea che ci siamo fatti di lui (Van Gogh=pittore e non incidentalmente anche pittore), possiamo farlo al punto da annullare l'intera vita di un uomo alla luce della sua morte tragica o ridicola (complesso K-M).

Ulisse, e quindi viaggio. Solo che se Omero non si chiamava Erodoto (e non si chiamava Erodoto), Ulisse (cioè Omero, come Madame Bovary è Flaubert) non deve essersi mai spostato dal suo tinello.

sabato 25 dicembre 2010

qué dicha haber llegado al lugar donde estaba

Jardín del cementerio

Una hoja resbala desde el árbol
y es tu mirada la que, vuelta mano,
detiene su caída unos instantes;
luego toca la tierra humedecida
por la blanca llovizna del verano
y se confunde
con un montón de hojas arrugadas.
Huele a calas, jazmines, crisantemos.

Das media vuelta y piensas
en cuándo serás tú, si caerá nieve.
Escribe un nombre propio el tiempo
en cada lápida
y sin embargo, hermosas,
cuelgan pequeñas flores del almendro.

Giardino del cimitero
Una foglia scivola dall'albero/ed è il tuo sguardo quello che, per un'intesa immediata,/arresta la sua caduta per alcuni istanti;/poi tocca la terra umida/per la bianca pioviggine dell'estate/e si confonde/con un mucchio di foglie accartocciate./Profuma di calle, gelsomini, crisantemi./Ti giri e pensi/a quando sarai tu, se cadrà la neve./Scrive un nome proprio il tempo/in ogni lapide/e tuttavia, belli,/pendono piccoli fiori di mandorlo.


Caída de la nieve

Jamás ha sido blanca:
en su origen empuja
sedimentos y tierra,
los negros, naturales
residuos de la vida.
No hay ninguna inocencia que perder,
la inocencia está al fin de la escalada,
lo virgen es impuro, se construye.

La nieve necesita
del barrido interior de la palabra,
de su aguda atención, de su rastrillo,
para tratar de ser
y sostener el blanco cada día.

Caduta della neve
Mai è stata bianca:/alla sua origine preme/sedimenti e terra,/i neri, naturali/residui della vita./Non c'è nessuna innocenza da perdere,/l'innocenza è alla fine della scalata,/il candore è impuro, si costruisce./La neve ha bisogno/della scansione interiore della parola,/della sua acuta attenzione, del suo rastrello,/per tentare di essere/e sostenere il bianco ogni giorno.


Para leer el suelo

En ninguna morada habrá más luz
que cuando aquí las cosas
se desangran, nos buscan, se terminan.
No existirá región más oportuna
que este lugar que apesta y me conmueve.
Imposible encontrar mejores alas
que dos pies descalzándose
para leer el suelo:
su pasajero tacto funda la realidad.
En ningún paraíso habrá tanta delicia
como crece ahora mismo
a la sucia intemperie.

Per leggere il suolo
In nessuna dimora ci sarà più luce/di quando qui le cose/si dissanguano, ci cercano, finiscono./Non esisterà regione più adatta/di questo posto che appesta e mi commuove./Impossibile incontrare migliori ali/di due piedi togliendosi le scarpe/per leggere il suolo:/il suo tatto passeggero fonda la realtà./In nessun paradiso ci sarà tanta delizia/come cresce proprio ora/esposta allo sporco delle intemperie.


El paraíso literal

Brilla sin anunciarse.
Apenas hace falta alzar la vista.
Es un ofrecimiento
que la vida nos hace silenciosa
esperando que sean dignos ojos
y digna la alegría.

Sencillamente azul dentro del pecho:
qué dicha haber llegado
al lugar donde estaba.
Hoy quisiera
no añadir una coma
al cielo literal de cada día.

Il paradiso letterale
Brilla senza annunciarsi./Basta solo alzare lo sguardo./È un'offerta/che la vita ci fa silenziosa/sperando che siano degni occhi/e degna l'allegria./Semplicemente azzurro dentro il cuore:/che gioia essere arrivato/nel posto dove stavo./Oggi vorrei/non aggiungere una virgola/al cielo letterale di ogni giorno.

Andrés Neuman

domenica 19 dicembre 2010

Történelemóra

a történelmet próbáltam
magyarázni a köveknek
hallgattak

próbáltam a fáknak
bólogattak

próbáltam a kertnek
szelíden rámmosolygott

a történelem négy
évszakból áll mondta
tavaszból nyárból
őszből és télből

most éppen tél jön

Kányádi Sándor


Lezione di storia

ho provato a spiegare
la storia alle pietre
hanno taciuto

ho provato con gli alberi
hanno abbassato le chiome

ho provato col giardino
mi ha sorriso dolcemente

la storia è composta da quattro stagioni
ha detto, la primavera l'estate
l'autunno e l'inverno

ora è l'inverno che viene.


Prendo nota di un verbo bello e pericoloso: magyaráz (all'infinito magyarázni, spiegare). Italianizzare (o franciser o to anglicize, ecc.) comporta in genere solo un adattamento ortografico nella rispettiva lingua. Verdeutschen gli si avvicina di più, ma non completamente: in genere si riferisce o alla germanizzazione o all'atto del tradurre in tedesco, ed è solo in senso figurato che verdeutschen può assumere il senso di spiegare con parole semplici, rendere comprensibile. Magyaráz, invece, vuol dire proprio spiegare, sottintendendo - e qui stanno sia la sua bellezza sia la sua pericolosità - che solo attraverso l'ungherese si possa veramente capire. 

Prendo poi un'altra nota (non mi sento di fare altro, se non, al massimo, aggiungere parentesi quadre qua e là).
"Essere transilvani - dice [ancora] Pal [Pál] Bodor - vuol dire essere greco-orientali, cattolici romani e armeni, calvinisti, evangelici, ebrei, protestanti, unitaristi; vuol dire essere gomito a gomito romeni, ungheresi, slavi, sassoni, armeni. Questo spazio di convivenza ha creato la grande "utopia transilvana", la speranza di vivere e prosperare assieme. Una speranza che talvolta è divenuta realtà, come nelle grandi rivolte dei contadini". Ma l'utopia, forse, resiste ancora oggi. Ci sono intellettuali che denunciano apertamente la trappola nazionalistica. Come gli scrittori Jebeleanu, Dinescu e Crasnaru che hanno osato protestare contro l'emergere di certe tesi sciovinistiche. O lo scrittore Dorin Tudoran, che ha rivolto con l'amico ungherese Geza Szocs [Géza Szőcs] un appello all'Onu su questo tema. Racconta Bodor: "Ci sono due poeti laggiù, uno ungherese, l'altro romeno: Sandor Kanyadi [Sándor Kányádi] e Ion [Ioan] Alexandru. Sono amici per la vita, traducono l'uno le poesie per l'altro. Due destini paralleli, un solo grande sentimento di fratellanza. L'utopia transilvana è fatta di uomini come questi".
Paolo Rumiz, Danubio: storie di una nuova Europa, Edizioni Studio Tesi, 1990  


Ancora una nota, l'ultima. C'è una cosa che non si riesce a leggere subito dopo il punto aggiunto in chiusura a ora  è l'inverno che viene: gioia.

101 ragioni per imparare l'ungherese - 17

Per un bieco motivo personale.

Tutti ne hanno uno. Il mio è questo.

Tra le parole non italiane, a parte le parole slovene, che non so bene se ho sentito prima nelle forme stabilmente integrate nel dialetto triestino*, nelle poche parole della mia bisnonna paterna, nei discorsi origliati sugli autobus o nel corso delle camminate fra i paesi del Carso, nella mia infanzia c'era una parola ungherese che sentivo e assaporavo di domenica, in una pasticceria che esiste ancora, fondata dalla famiglia Eppinger a metà Ottocento e allora gestita dalla famiglia Poth: dobos. Praticamente una lettera per ogni strato, con quel che resta nell'aria della s ungherese per lo strato finale di caramello.


* i primi esempi che mi vengono in mente: brivez (barbiere), cudic' (diavolo), clabuc (berretto), jaize (uova), zima (freddo).

sabato 18 dicembre 2010

Dizionario di tutte 'e cose - M come manoscritto



Au Quartier Général à Montbello, le 18 prairial

An 5ème de la République Une et Indivisible

Bonaparte Général en Chef de l'Armée d'Italie

Au Ministre de l'intérieur

On m'assure que le célèbre manuscrit de Joseph de la Bibliothèque ambroisienne, qui a été envoyé de Milan à Paris, n'y est pas parvenu. Comme ce manuscrit est peut-être le seul sur papier papyrus, et qu'il est très intéressant qu'il ne se perde pas, je vous prie de m'apprendre s'il est arrivé à la Bibliothèque nationale.

Bonaparte



Al quartiere generale a Montebello, 18 pratile

Anno quinto della Repubblica Una e Indivisibile [6 giugno 1797]

Bonaparte Generale in Capo dell'Armata d'Italia

Al Ministro dell'interno

Mi si assicura che il celebre manoscritto di Giuseppe [Flavio, Antiquitates judaicae] della Biblioteca ambrosiana, che è stato inviato da Milano a Parigi, non vi è pervenuto. Siccome questo manoscritto è forse il solo su carta papiro, ed è molto importante che non si perda, vi prego di farmi sapere se è arrivato alla Biblioteca nazionale.

Bonaparte

Simili attenzioni ed aspirazioni, volte ad ottenere prestigio, sono ora dirette verso obiettivi generalmente diversi dai manoscritti e dai libri (le fonti di prestigio sembrano cambiare parecchio, nel tempo), ma soprattutto non prevedono mai una condivisione con il popolo. 

Le Antiquitates judaicae ritornarono a Milano nel 1815. Per sfortuna: se fossero rimaste alla Biblioteca nazionale di Francia, oggi sarebbero probabilmente digitalizzate.

"se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de' già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de' più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l'Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti".
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXII

martedì 14 dicembre 2010

101 ragioni per imparare l'ungherese - 16

Anche solo per poter sperare di riuscire, forse, un giorno, non dico a tradurre, ma almeno a tentare di spiegare con un moderato uso delle mani, questo:

Di alcune moderate riforme che vorrei vedere nell'assetto della mia patria avanti di morire. (...) Vedere la gente fremere d’amore intellettuale di Dio, lavorare con piacere, fabbricare giocattoli appassionanti, sciare ardita sulle coste dei monti, nuotare a farfalla lungo le coste dei mari; sentirla cantare inni di elementare grazia e potenza, avendo per inno nazionale un "Inno alla mortalità" in cui si esprimesse la rassegnazione a questo sgradevole aspetto della vita, e la contentezza di potere intanto produrre affetti e odi sereni, begli edifici, dolci macchine lisce come l’olio, istituti severi e soavi, e quell’onestà nel fare e nel non fare che (quando c’è) cancella la paura e perfino il rimpianto di non sopravvivere per sempre. Che importa, quando si battezza un bambino o una bambina, il pensiero di ciò che in realtà li aspetta, ciò che vi è di assolutamente sicuro nel loro destino? Si potrebbe invece compiacersi della bella festa, coi discorsi e le torte, sapendo assicurate (nella patria che vorrei vedere) tali cure agli infanti orfani da far apparire più avventurata che infausta l'eventuale scomparsa dei genitori, anche simultanea, all'indomani di quel battesimo.

Luigi Meneghello, Le carte: anni Settanta, Rizzoli, 2001

E (potendo sperare) anche questo:

Durante mucho tiempo se dijo - yo lo dije - que la única patria de un escritor era su lengua. Ya no lo creo. Tampoco creo que mi patria sea mi literatura ni la literatura. Más bien diría que mi patria es mi vida, es decir, que mi patria es algo frágil y débil e insignificante. También podría decir, siguiendo esta línea, que estoy exiliado de mi patria y que vivo en la patria de los otros, como emigrante sin papeles, y que procuro no molestar ni estar demasiado tiempo en un lugar.

Roberto Bolaño, febrero 2003

E (en ayant le droit d'espérer) pure questo:

Ich war kein Stein keine Wolke
keine Glocke und keine Laute
geschlagen von einem Engel oder von einem Teufel
Ich war von Anfang an nichts als ein Mensch
und ich will auch nicht etwas anderes sein

Erich Fried, Lebenslauf

Con la certezza che attendono pazientemente di essere tradotti in italiano moltissimi testi ungheresi di cui al momento, ignorandoli, crediamo di poter fare a meno.

Passate un buon dicembre.

lunedì 13 dicembre 2010

101 ragioni per imparare l'ungherese - 15

Perché la calligrafia ungherese non richiede un talento artistico.

La calligrafia rappresenta il disegno della musica delle parole


Danza delle lettere


La calligrafia è un viaggio nell'universo dei sensi, nonché in quello dell'immaginario


Chi cerca trova (esempio di stile Naskh)


Chi troppo guarda quale vento soffia, non semina mai né pianta


Frequentate i sapienti e i saggi per istruirvi, i poveri per essere modesti e gli indulgenti per avere la forza di perdonare (esempio di stile Thuluth)


Un'ora di giustizia vale mille mesi di preghiera (esempio di stile cufico ornamentale)


La felicità sembra essere fatta per essere condivisa


L'essenziale non è riuscire, ma provare


La pace


Immagini tratte da Salah Moussawy, La calligraphie arabe, traduction par Mohamed Saad Eddine El Yamani, Editions Bachari, 1999

domenica 12 dicembre 2010

La Storia nazionale

L'Histoire de France

Charles 9
Je voudrais aujourd'hui évoquer Charles 9
Je me plais à penser que Charles 9...
Charles 9 fut roi de France
Ainsi que d'autres personnes.
mais
Charles 9 lui fut vraiment roi et de la France en plus qui est le pays d'ici.
Charles 9 était un homme d'une quarantaine d'années le teint mat le
nez busqué et l'auriculaire bloqué.
Charles 9, (bien sûr vous ne pouvez pas appeler votre mari Charles et
encore moins Charles 9), comme on dirait Louis 16 ou François premier,
se maria et eut de nombreux enfants.
En fait comme nous le savons maintenant grâce aux techniques les plus
performantes de la technique historique électrique analytique moderne
Charles 9 baisa beaucoup et eut (peut-on dire) plein d'enfants légaux.
Donc Charles 9 fut un bon cavalier.
Il savait se tenir sur son cheval et à table.


S'il fut heureux?
Qui? Charles 9?







À force d'en parler on a presque l'impression qu'il existe, ce Charles 9. Donc Charles 9 (comme on dirait le petit jésus ou le pape (comme on dirait si tu es curé moi je suis Charles 9) ou l'Élysée ou la Côte d'Ivoire ou Mac Enroe ou le frigidaire) fut un être vivant et un Charles 9 qui laisse d'ailleurs son Nom


Tarkos, le baroque, al dante, 2009



La Storia d'Italia

Vittorio Emanuele 2
Oggi vorrei evocare Vittorio Emanuele 2
Mi piace pensare che Vittorio Emanuele 2...
Vittorio Emanuele 2 fu re d'Italia
E anche di altre persone.
ma
Vittorio Emanuele 2, lui fu veramente re e per di più dell'Italia che è il paese di là.
Vittorio Emanuele 2 era un uomo di una quarantina d'anni il colorito olivastro il
naso aquilino e il mignolo bloccato.
Vittorio Emanuele 2 (ovviamente non potete chiamare vostro marito Vittorio Emanuele e
e men che meno Vittorio Emanuele 2), come diremmo Carlo 5 o Federico primo,
si sposò ed ebbe numerosi figli.
In effetti come ora sappiamo grazie alle tecniche più
sofisticate della tecnica storica elettrica analitica moderna
Vittorio Emanuele 2 fotteva molto ed ebbe (si può dire) molti figli legittimi.
Quindi Vittorio Emanuele 2 fu un buon cavaliere.
Sapeva stare a cavallo e a tavola.


Se fu felice?
Chi? Vittorio Emanuele 2?







A forza di parlarne si ha quasi l'impressione che esista, questo Vittorio Emanuele 2. Dunque Vittorio Emanuele 2 (come diremmo il piccolo gesù o il papa (come diremmo se tu fossi parroco e io Vittorio Emanuele 2) o il Quirinale o l'Etiopia o Björn Borg o il frigorifero) fu un essere vivente e un Vittorio Emanuele 2 che d'altronde lascia il suo Nome

Allora. Ci sarebbe 'sta cosa per cui i francesi dicono Luigi quattordici e gli italiani Luigi quattordicesimo. È che Vittorio Emanuele 2 rende, se possibile, ancora maggiore giustizia del senso del ridicolo dei nomi dei sovrani, svelato, in tutta semplicità, da Tarkos.

Boris Tisčenko (1939-2010)


Sinfonia Dante n° 3 - Inferno, 2001
Sinfonia Dante n° 5 - Paradiso, 2005
Orchestra Filarmonica Accademica di San Pietroburgo, Nikolaj Alekseev


Sinfonia Dante n° 4 - Purgatorio, 2003
Orchestra Filarmonica Accademica di San Pietroburgo, Vladimir Verbicij

Altra musica

Venerdì 12 dicembre ("Un passo alla volta")

Se avessi potuto, avrei dato la parola solo ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime ed escluso completamente il resto, visti i risultati prodotti dalle attività di ricerca, ufficiali e non. Questo spiega un po' la scelta dei pezzi.
"Un passo alla volta" sono le parole di un partigiano nel film di Pasolini e Lotta Continua ("Ma che repubblica abbiamo fatto? Mi dicevo fra me e me. Loro mi rispondevano: un passo alla volta, un passo alla volta, un passo alla volta. Per me dei passi son stati fatti, ma sempre nello stesso posto, fino a che per conto mio ci deve essere un buco di 2 metri"). Se si fosse estrapolato il cammino che avrebbe compiuto il Paese da allora a quella cadenza, probabilmente oggi non ci sarebbe proprio niente di cui stupirsi.

*

Saranno pressappoco le cinque del pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969, quando un mio giovane amico mi fa un'ansiosa telefonata. "Corri subito in piazza Fontana, dev'essere successo qualcosa. Chi dice lo scoppio di una caldaia, chi dice una bomba. Ci sono molti morti". Subito un taxi, che però va adagissimo: sono le nervose giornate che precedono il Natale, le strade sono intasate dalla gente che va e viene dai negozi per le commissioni. E le vetrine di via Monte Napoleone non mi erano mai sembrate così belle e allegre, quasi tutte rosse a festoni d'oro o d'oro a festoni rossi.
In piazza Fontana, tutto grigio e affumicato l'edificio della Banca dell'Agricoltura, grigio e nero anche il pianoterra su cui corrono però rivoli di sangue; e, andando avanti, spinta da una curiosità quasi morbosa, arrivo al gradino davanti alla banca: piedi umidi di colpo, mi entra il sangue nelle scarpe. Cola sangue dappertutto, dai camici degli infermieri, dalle facce dei feriti meno gravi che vanno a farsi medicare nella farmacia lì accanto, colano gocce vermiglie anche dalle ultime barelle inghiottite dalle autoambulanze.
Dalla sala portano fuori dei carabinieri svenuti, esce stravolto il sindaco Aniasi, terreo l'arcivescovo, entrano i primi parenti a tentar di riconoscere le salme e tornano fuori piegati in due con la testa fra le mani, vengono i funzionari della Scientifica, della Politica, gli artificieri. È stata una bomba: sedici sono i morti, ottantotto i feriti, di cui alcuni gravi e altri resteranno mutilati. Cominciano anche i racconti degli scampati: la guerra, sì, come la guerra, il caos, il massacro, il macello, e odor di guerra dice chi l'ha fatta, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne bruciata e di zolfo. Io quell'odore non lo sento più, ma mi bruciano gli occhi in modo innaturale: piango.
Era giorno di mercato; piena la sala di fittavoli, bergamini e malghesi, coltivatori diretti, commercianti di mangimi o granaglie. Erano dentro ancora molti a quell'ora, quasi un centinaio nel salone, che per tradizione e per agevolare gli agricoltori il venerdì resta aperto oltre il solito orario.
Sono le sedici e trentasette minuti, ed ecco il rombo immane che scuote l'edificio, e che sarà poi paragonato al tuono o al maremoto; gran fumata nera e subito alte le fiamme, come una nuvola rossa che acceca, chi è sbattuto per terra, chi è trasportato per aria, chi davvero vola e viene scagliato oltre la porta centrale, a un passo dal tram numero 13 che, nel suo percorso a pochi metri dalla banca, a quell'ora è investito come da un brivido immenso, con un balzo si ferma e tra grida altissime si vuota di colpo.
Nello stesso tempo all'interno della banca cadono tutti i vetri e piovono a quintali i calcinacci, si staccano e precipitano gli infissi, si disintegra il tavolo centrale, sono per aria sedie, lastre di marmo, imposte che vanno poi ad abbattersi sui corpi a terra: così ogni scheggia, mobile o frammento di mobile si trasforma in proiettile.
Un uomo schizzato di sangue, indenne, ma visibilmente sotto shock ha bisogno di raccontare: a un certo momento qualcosa di oscuro e di pesante viene lanciato in uno strano volo disordinato sopra il bancone degli impiegati, e sul corridoio di sinistra. "E vuol sapere cos'era successo?" mi chiede, "cos'erano quei grossi oggetti volanti? Erano quattro corpi (ha in mente il Giudizio Universale, quello di Roma?) che volavano sotto la cupola, con pezzi di vestiti che pendevano da tutte le parti, e erano già tutti mutilati e bruciacchiati, e con un rumore tremendo sono andati a cadere in direzioni oppose, tre fra scrivania e scrivania, e un altro fuori dal salone, vicino all'ascensore. Ho detto il Giudizio Universale? Mi correggo, l'Inferno".
Un racconto segue l'altro e sono tutti apocalittici. Con sorpresa mi vedo venire incontro Mario Scialoja, un collega dell'"Espresso", che, di passaggio a Milano, per caso era capitato in piazza Fontana cinque minuti dopo lo scoppio. È completamente stravolto: era infatti entrato nella banca insieme ai pompieri per aiutare a soccorrere chi ancora poteva esser soccorso. Tra mille svariati relitti e detriti, pezzi di scarpe o borse (tra le scarpe alcune col piede dentro), e non solo brandelli di vestiti, ma brandelli di corpi, ho visto un pompiere raccogliere una mano, un prete aiutare un contadino a alzarsi prendendolo per il braccio (ma il braccio gli era venuto dietro tutto intero); lui stesso si era imbattuto in un tronco bruciacchiato con via le gambe e un braccio.
Eppure, forse per l'attrazione che l'orrore alle volte esercita, è difficile staccarsi da un posto così: saranno le solite frasi degli ultimi arrivati a farmi venir voglia di scappare: "Qui ci vuole il coprifuoco". "Mi creda, non sono mai stato così contento di aver mandato mio figlio un mese fa a Fiesole, alla riunione del Fronte Nazionale. È una santa organizzazione paramilitare dell'ex comandante della Mas, Valerio Borghese, che ha per scopo l'azione rischiosa in tempi di emergenza". Commenti di questo tipo si infittiscono nella serata.
Si saprà il giorno dopo che una seconda bomba è stata trovata intatta, chiusa in una borsa nera, ai piedi di uno dei dieci ascensori della Banca Commerciale in piazza della Scala. La polizia milanese, auspice e presente quel bizzarro duetto formato dal procuratore generale De Peppo e dal pm Pasquale Carcasio, decide di far brillare l'ordigno che esplode sotto una quantità di sacchetti di sabbia, insieme alla cassetta che lo contiene. Vengono così distrutti per sempre (e pour cause naturalmente) elementi della massima importanza (tipo di carica, provenienza, congegno di accensione), che avrebbero potuto contribuire a individuare gli attentatori.
Perfino i carabinieri criticano questa sconsiderata decisione. Rimane giusto la borsa di similpelle nera marca Mosbach-Gruber che era stata il contenitore. Ma (tutto serve per imbrogliare le carte) nessuno si preoccupa di sapere dove poteva esser stata comprata (solo trentacinque negozi vendevano borse del genere, in Italia), e quando dalla questura di Padova arriva la segnalazione, tutti la ignorano.
"Cui prodest?" L'eterna domanda si leggerà presto sulle pochissime riviste non conservatrici. A chi fa gioco il massacro? E certe volte si legge anche la risposta: "Is fecit cui prodest", giova alla destra, a quelli della mano forte, dell'ordine a tutti i costi eccetera. Invece della bomba milanese e delle tre di Roma è subito accusata la sinistra, più precisamente gli anarchici, secondo una certa parte dell'opinione pubblica da sempre fautori di disordini, considerati dall'italiano medio le forze scatenate e disgregatrici dello stato e di ogni valore borghese.
Sul "Corriere" dell'indomani si legge che subito dopo l'esplosione il giudice Antonio Amati telefona in questura per sapere cosa è successo. Mah, forse è saltata una caldaia, però si fa anche l'ipotesi di un attentato terroristico. Ci sono molti morti. "Sono dell'idea che si tratti di un attentato", replica il magistrato, che, caso strano, per una volta, la imbrocca. Ma suggerisce di continuare subito le indagini "negli ambienti anarchici".
La sera stessa "La Stampa" interroga il commissario Calabresi. "I responsabili vanno cercati fra gli estremisti di sinistra", dice e perché non sussistano dubbi conclude: "È opera degli anarchici". Lui l'asso nella manica ce l'ha già, è da stasera che l'iniquo procedimento comincia. Anche il questore Marcello Guida non è da meno. C'è un giornalista che la sera del 12 gli chiede se, secondo lui, c'è un nesso gra questo e gli attentati del 25 aprile e lui risponde "di non escluderlo".
Il potere centrale? Naturalmente contribuisce all'inquinamento delle indagini. A poche ore dalla strage, il prefetto di Milano così telegrafa al presidente del Consiglio: "Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarchici aut frange estremiste. Est già iniziata previa intesa autorità giudiziaria at identificazione et arresto responsabili". Mentre il giorno dopo Franco Restivo, ministro degli Interni, telegrafa alle altre polizie europee: "En ce moment nous ne possédons aucune indication valide à l'égard des possibles auteurs du massacre, mais nous dirigeons nos premiers soupçons vers les circles anarchisants". Un capolavoro di telegramma per via di quel "mais" (come dire: non sappiamo niente, ma sono loro).
Il gioco è fatto. È fatto con abilità grossolana, ma vedremo che per gli uomini del palazzo riuscirà alla perfezione. Quando il questore Guida ammette che probabilmente c'è un nesso tra gli attentati del 25 aprile alla Fiera e alla stazione e l'attentato del 12, dice una cosa esattissima: solo che, nell'uno e nell'altro caso, non erano stati gli anarchici a metter le bombe, ma qualcuno che si voleva e doveva proteggere. L'errore commesso allora con disinvolta improntitudine, tra prove motivate e prove eliminate, culmina nella strage, quello che doveva succedere è successo. I colpevoli sono gli anarchici.
Il prefetto Mazza parla di "intesa con l'autorità giudiziaria". Ma non certo con la persona giusta, cioè col giovane Ugo Paolillo, che aveva funzioni di pm e il 12 era il sostituto di turno esterno. Si era dimostrato subito un magistrato scomodo perché voleva fare il suo dovere. Aveva rimesso in libertà degli anarchici rinchiusi in San Vittore la sera dello scoppio, data la mancanza di validi indizi, aveva respinto la richiesta di perquisire gli uffici dell'editore Feltrinelli perché immotivata; non gli avevano fatto trovare Rolandi quando lui aveva già deciso un confronto tra il tassista e la zia di Valpreda. Finché gli dicono di ritenersi esonerato dalle indagini. "La mia linea legalitaria evidentemente non coincideva con certe esigenze e certi interessi".

Camilla Cederna, Quando si ha ragione. Cronache italiane, L'ancora, 2002 (prima edizione Il mondo di Camilla, Feltrinelli, Milano, 1980)



Le bombe scoppiano venerdì 12 dicembre 1969 tra le ore 16,37 e le ore 17,24, a Milano e a Roma. La strage è a Milano, alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana, affollata come tutti i venerdì, giorno di mercato. L'attentatore ha deposto la borsa in similpelle nera che contiene la cassetta metallica che contiene l'esplosivo sotto il tavolo al centro dell'atrio dove si svolgono le contrattazioni. I morti sono sedici, molti dei novanta feriti avranno gli arti amputati dalle schegge. L'esplosione ferma gli orologi di Piazza Fontana sulle 16,37; poco dopo in un'altra banca distante poche centinaia di metri, in Piazza della Scala, un impiegato trova una seconda borsa nera, e la consegna alla direzione. È la seconda bomba milanese, quella della Banca Commerciale Italiana. Non è esplosa, forse perché il "timer" d'innesco non ha funzionato. Ma viene fatta esplodere in tutta fretta alle ore 21,30 di quella stessa sera dagli artificieri della polizia che l'hanno prima sotterrata nel cortile interno della banca.
È una decisione inspiegabile: distruggendo quella bomba così precipitosamente si sono distrutti preziosissimi indizi, forse addirittura la firma degli attentatori(3). In mano alla polizia rimangono solo la borsa di similpelle nera uguale a quella di Piazza Fontana, il "timer" di fabbricazione tedesca Diehl Junghans, e la certezza che la cassetta metallica contenente l'esplosivo è anch'essa simile a quella usata per la prima bomba. Il perito balistico Teonesto Cerri è sicuro che ci si trova davanti all'operazione di un dinamitardo esperto.
Le bombe di Roma sono tre. La prima esplode alle 16,45 in un corridoio del sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro tra Via Veneto e via San Basilio. Tredici feriti tra gli impiegati, uno gravemente. Ma anche questa poteva essere una strage. Alle 17,16 scoppia una bomba sulla seconda terrazza dell'Altare della Patria, dalla parte di Via dei Fori Imperiali. Otto minuti dopo la terza esplosione, ancora sulla seconda terrazza, ma dalla parte della scalinata dell'Ara Coeli. Frammenti di cornicione cadendo feriscono due passanti. Ma questi due ultimi ordigni sono molto più rudimentali e meno potenti degli altri. La reazione del paese è di sdegno per gli attentati, di dolore per le vittime. Ma non si assiste a nessun fenomeno di isteria collettiva, la strage non ha sbocco immediato a livello di massa, e soprattutto non contro la sinistra, anche se immediatamente dopo la bomba di Piazza Fontana le indagini e le relative dichiarazioni ufficiali puntano solo in questa direzione nella ricerca dei colpevoli(4).

(3) Il maresciallo dell'esercito Guido Bizzarri, un artificiere che in 45 anni di attività ha disinnescato circa 20.000 ordigni, dichiarerà alla stampa: "L'avrei disinnescata io ma nessuno me lo ha chiesto. È stato più pericoloso farla brillare che aprirla".
(4) Un discorso a parte meriterebbero il ruolo giocato in questa fase dalla stampa "indipendente". Basterà sottolineare che, oltre ovviamente al "Secolo d'Italia", si sono distinti nell'incitare alla caccia all'"estremista di sinistra", la "Stampa" di Torino e i quotidiani della catena editoriale del Cav. Attilio Monti. Il "Tempo" di Roma, il 13 dicembre è arrivato al punto di pubblicare con ampio risalto che "La notizia degli attentati è stata data nel corso di un'assemblea alla Città Universitaria da un oratore di "Potere Operaio" il quale ha rivendicato al suo gruppo la paternità della strage, riscuotendo l'applauso degli studenti presenti... ".

Edoardo M. Di Giovanni, Marco Ligini, La strage di stato. Controinchiesta, Supplemento al n°48 di Avvenimenti, 1993 (prima edizione La nuova sinistra, Samonà e Savelli, 1970)



Mezzanotte è passata da poco, ma è difficile dormire bene dopo una giornata come quella del 15 dicembre 1969, dopo il funerale delle vittime della Banca dell'Agricoltura. Come se tutta quell'angoscia fosse entrata nelle ossa insieme a una nebbia mai vista che rendeva bassissimo il cielo e nero il mezzogiorno. E con ancora nelle orecchie l'eco dei singhiozzi delle famiglie mentre il coro delle voci bianche in Duomo pregava Dio di aprire le porte del cielo ai loro parenti straziati. Poi quel silenzio compatto, monumentale, che aveva salutato le bare sul sagrato, quei grappoli oscuri di gente ai balconi e alle finestre, quel tappeto di folla immobile e buia nel buio che copriva tutta la città paralizzata, una quantità di gente venuta da lontano a circondare il Duomo, visi chiusi, espressioni sgomente, un dolore unanime e una tensione quasi fisicamente percepibili.
Cinque ore in Duomo in piedi a un banco per meglio vedere e sentire, un'ora in giro dopo, a casa a scrivere uno degli articoli più difficili di una lunga carriera (dovevo cominciare dalle bombe del 12, da tutto quel sangue, i rottami, i carabinieri che svengono, il sindaco che esce dalla banca col viso color terra, i parenti che vengono portati via piegati in due con la faccia tra le mani, i racconti degli scampati, il volo dei corpi mutilati sotto la cupola del salone, ecco la guerra, i bombardamenti, il caos, il massacro, il macello, ecco l'odor di guerra, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne bruciata e di zolfo). E adesso a letto col sonno che non arriva.
Arriva invece una telefonata. "Sei già a letto? Non importa. Fra cinque minuti davanti al tuo cancello." "Perché?" "Un uomo si è buttato da una finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un'occhiata." Sono due amici coi quali ho sempre corso in questi giorni, Corrado Stajano e Giampaolo Pansa, hanno la faccia e i modi di questi giorni, gesti frettolosi, rabbia e dolore negli occhi.

Camilla Cederna, Pinelli - Una finestra sulla strage, Il Saggiatore, Milano, 2004 (prima edizione Feltrinelli, 1971)


«Io sono convinta che la verità noi la sapremo», dice.
Quando?
«Quella notte sul pianerottolo di casa le dissi che avrei atteso magari vent'anni. Non è che abbia tanta pazienza, ma se in Italia esiste veramente una democrazia, e tutto è successo in democrazia, allora noi la verità, ripeto, la sapremo.»
Quindi lei ha fiducia.
«Malgrado tutto, sì. Pensi al primo giorno, si è voluto coprire ogni cosa, no? Ma a continuare a insistere, a spingere, a tentar di convincere, qualcosa accade. Anche se si è dovuto ricominciare tutto da capo dopo due anni. La mia, badi, non è una fiduciosa attesa passiva: più di un anno fa ho presentato denuncia per omicidio volontario, violenza privata, sequestro di persona, abuso di ufficio, abuso di autorità contro chi si trovava in quella stanza dove mio marito era trattenuto contro la legge. Sono in molti gli scettici, quando io dico che si conoscerà la verità, ma si sono sapute tante cose da allora. I nervi di qualcuno possono cedere, i nervi di qualcuno possono saltare.»
Quante persone conoscono la verità, secondo lei?
«Qualcun altro, oltre a quelli della stanza.»
Lei è mai stata interrogata, dalla polizia?
«Mai, vorrei essere io a interrogare la polizia.»
E dai magistrati?
«La prima volta, la mattina dopo la morte di mio marito andai dal giudice Paolillo. Gli ho chiesto ragione di quanto era accaduto. Lui mi disse che aveva forti perplessità sulla tesi del suicidio, e che voleva vederci chiaro. Protestai perché non ero stata avvisata subito di quel che era successo: per paura che mio marito riuscisse a dirmi qualcosa, magari una sola parola che avrebbe chiarito tutto? Il giudice era sconvolto quasi quanto me. Gli chiesi di farmi assistere agli interrogatori dei poliziotti. Lo vietava la procedura, ma lui promise di accontentarmi, era molto impressionato. A un certo momento gli dissi la fra se: “Se la giustizia è onesta...”. “Signora, la giustizia è onesta”, mi rispose lui staccando le parole. Poi l'istruttoria gli fu tolta.»
Ancora quella notte, signora Pinelli: le fecero vedere suo marito?
«Per prima andò mia suocera, mi telefonò subito dal Pronto Soccorso del Fatebenefratelli: “Qui non la vedo bene, c'è sotto qualcosa, non mi vuol dire niente nessuno. Perché non mi fate vedere mio figlio, ho chiesto ai carabinieri: e loro non mi hanno neppure risposto”. Andai anch'io dopo aver trovato un amico di famiglia che pensasse alle bambine. Quando sono arrivata all'ospedale era tutto buio, non c'era più nessuno, mia suocera aveva capito che Pino era morto dalle parole dette da un infermiere: "E la carta per il Comune?”. Mancava poco alle due, il questore Guida stava facendo la sua conferenza stampa, stava dicendo che mio marito, gravemente indiziato di concorso per la strage di piazza Fontana, con gli alibi caduti, si era ucciso. Stava dicendo che il suicidio era un'evidente autoaccusa. Querelato per diffamazione, il questore fu poi prosciolto in istruttoria per mancanza di dolo.»
Qual è la cosa che l'ha tormentata di più, quale il sospetto più grande?
«La diffamazione pubblica subita da mio marito e la ritrattazione privata, in sordina, a caratteri piccolissimi sui giornali, non attraverso il telegiornale delle venti e trenta, per esempio. Il pubblico ministero al processo Baldelli-Lotta Continua, prima dell'apertura del dibattimento, ha escluso ogni responsabilità di Pino nella strage di piazza Fontana, lo stesso ha fatto il giudice istruttore del processo Valpreda a Roma. Figuriamoci adesso che anche i giornali e gli ambienti più retrivi si schierano per l'innocenza di Valpreda, che terribile ingombro Giuseppe Pinelli, l'anarchico individualista!»
La signora Licia si esprime con contenuta passione. Ci vorrebbe una macchina da presa, qui, per cogliere anche le pieghe parlanti del suo viso. Mi vengono in mente i mesi del processo: seduta sulla panca dietro gli avvocati, lo seguì immobile giorno dopo giorno e sembrava il vero pubblico ministero, anche per quel cappello raffaellesco che portava qualche volta e che la faceva ancora più pallida. Come le appariva il dibattimento dalla panca laggiù?
«C'era la giustizia di fronte a me, dipinta sul muro. La giustizia era dipinta.»
Come si sentiva dentro quel rito che aveva per protagonista il fantasma del suo povero marito?
«Un'estranea, la spettatrice di un difficile gioco delle parti. Qualche volta avevo voglia di alzarmi e di parlare. Mi sono controllata, ho dovuto fare molti sforzi, è stata davvero un'esperienza di gran fatica. Fu durissimo, per esempio, contenersi quando fu portato il libro dei fermati in questura, con la prova del fermo illegittimo: in un allucinante stile burocratico si poteva leggere che Giuseppe Pinelli risultava messo in libertà alle ore dodici del 17 dicembre, quando era già morto da un giorno e mezzo. Una persona [l'avvocato Lener, n.d.r.] si alzò e disse che non si poteva guardare quel libro, “per rispetto della personalità umana”. Capisce, rispetto della personalità umana, dopo tutto ciò che era accaduto, dopo tutto ciò che era stato detto su Pino dal questore Guida.»
Ci fu un momento, durante il processo interrotto, in cui ebbe l'impressione di essere vicina alla scoperta della verità?
«Sì, durante l'interrogatorio del brigadiere Panessa. Vede, si è data di me un'immagine abbastanza tranquilla, si è parlato molto della mia compostezza, ma se io le dicessi quello che penso, quello che provo! Ho sentito la verità, per un attimo, in quell'aula di tribunale, capisce?»

Intervista di Corrado Stajano a Licia Pinelli, Il Giorno, 5 ottobre 1972, ripubblicata in Corrado Stajano, Maestri e infedeli. Ritratti del Novecento, Garzanti, 2008

sabato 11 dicembre 2010

Vita te voio ben (ma no ogni giorno)

Con Cergoly non si sa bene da che parte cominciare - se da quello che sappiamo o, invece, dal molto che non sappiamo e ci piacerebbe sapere di lui.
Dalla prefazione di Giovanni Raboni a Opera 79, Carolus L. Cergoly, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, Genova, 1983


Con Cergoly non si sa neanche bene dove finire. Forse a Venezia.
F., 2010

Poesia d'un Barbon
scritta per farse coraggio
sotto el Ponterosso
su carta d'imballaggio
senza nissun
che te dia qualcossa
magari anche una piada
un pugno una sberla
senza una strada
che porti a qualche fermo
senza un numero
per dir
stago de casa qua
senza una man
tenera de dona
che coccoli in amor.
Coparse e dopo
l'Isola dei Morti
in quadro la go vista
un polveron de noia
a l'infinito
morto isolà va ben
ma
almeno saver qualcossa dei vivi
se gà piovù in Farneto
se bora scura(*)
fa rabiar el mar
Vita te voio ben
ma no ogni giorno
domenica in loculo
ma lunedì alle cinque
zo in Ponterosso
vivo.

Carolus L. Cergoly, Latitudine Nord, 1980


Poesia di un Barbone
scritta per farsi coraggio
sotto il Ponterosso
su carta da imballaggio
senza nessuno
che ti dia qualcosa
magari anche un calcio
un pugno una sberla
senza una strada
che porti a qualche sosta
senza un numero
per dire
sto di casa qua
senza una mano
tenera di donna
che coccoli in amore.
Ammazzarsi e dopo
l'Isola dei Morti
nel quadro l'ho vista
un polverone di noia
all'infinito
morto isolato va bene
ma
almeno sapere qualcosa dei vivi
se è piovuto nel bosco di Farneto
se la bora scura
fa arrabbiare il mare
Vita ti voglio bene
ma non ogni giorno
domenica nel loculo
ma lunedì alle cinque
giù al Ponterosso
vivo.




(*) La bora può essere chiara o scura, a seconda che arrivi sul golfo di Trieste in presenza di un anticiclone o meno. La scura, per rimanere ancora con Cergoly, quando soffia, può provocare paura, ma mica di cadere. Di perdere l'anima:


Vento de bora
Scura
Refola la contrada
Paura
Che l'anima me scampi
Sotto la sciarpa gialla


Gli italiani conoscono Trieste grazie alla bora e la bora grazie al periodico servizio del telegiornale fantasiosamente(**) intitolato "Bora a Trieste", che di preferenza compare fin nei titoli di testa quando non si vuole parlare d'altro. Succede abbastanza spesso. Il servizio in questione è sintetico, ma efficace e ben rodato ed è corredato da un breve filmato che riprende, di spalle, un anziano che cammina sul molo Audace "spazzato" dal vento. Il verbo "spazzare" compare in effetti almeno una volta nel servizio televisivo. Ora, non vorrei gettare nessuno spettatore televisivo nello sconforto, ma è ora che si sappia: l'anziano che cammina sul molo Audace è morto (nell'estate del 1981, di infarto, su una spiaggia cubana. Felice.) La bora, però, non soffia solo a Trieste. Anche ad Aidussina, Cherso, Fiume, Senj e Spalato, per esempio. Ma lì ha un carattere diverso, meno irrequieto. Ha poi dei parenti in altre parti del mondo, che nascono, crescono e muoiono per le stesse cause termiche e orografiche: a Novorossiysk, sul Mar Nero, vicino alle foci del fiume Kuban, a Novaya Zemlya, tra il mare di Barents e il Mare di Kara, e nella pianura di Kantō, in Giappone, dove si chiama oroshi. Dei suoi parenti, però, ignoro il carattere. In realtà la bora si può trovare, seppure per solo qualche istante, dappertutto, anche a Parigi. Non lo dico io, lo dice sempre Cergoly: A Parigi flon flon/Salso de mar/E refolo de bora/Aria de casa mia.
Per un'incredibile coincidenza, questo blog contiene una poesia intitolata proprio Bora.

(**) Non è il titolo più fantasioso. Dopo "Nebbia in val Padana", inspiegabilmente un po' demodé, rimane saldamente in testa, inarrivabile, "Acqua alta a Venezia".

101 ragioni per imparare l'ungherese - 14

Perché la pronuncia ungherese è come, è proprio, tende, è pressappoco, è quasi...

I suoni ungheresi sono quelli del francese a parte qualche eccezione.
Kati Cavalieros, Michel Malherbe, Parlons hongrois, page 16, L'Harmattan, 1988

A: si pronunzia tendente un poco all'O come l'a teutonico.
Gy: ci vuole la viva voce del maestro; presso a poco come di in Dieu
Ly: dolce come ll spagnolo.
Ny: gn p. e. nella parola degno. 
Ö: eu francese.
Zsigmond Deáky, Grammatica ungherese ad uso degl'italiani, pagg. 1 e 2, Presso Filippo e Niccola de Romanis, 1827

L'ungherese non è per niente difficile da pronunciare e troverete che, per la maggior parte, le parole sono pronunciate come sono scritte. L'alfabeto è quasi lo stesso dell'inglese - alcuni segni diacritici sono aggiunti sopra le vocali per indicare la loro pronuncia e alcune lettere sembrano più aggregati di consonanti che singole lettere. Una volta memorizzati i loro suoni, tuttavia, troverete che la corrispondenza univoca tra lettere e suoni rende la pronuncia delle parole ungheresi più semplice che il tentativo di immaginare la pronuncia di alcune parole inglesi. Oltre alla facilità della pronuncia, tutte le parole hanno l'accento sulla prima sillaba - senza eccezioni.
Carol Rounds, Erika Sólyom, Colloquial Hungarian: the complete course for beginners, page 1, Routledge, 2002
... e può essere, per esempio, così: 

Béla Bartók, A kékszakállú herceg vára (Il castello del principe Barbablu), 1911


Haj regö rejtem
hová, hová rejtsem...
Hol, volt, hol nem:
kint-e vagy bent?
Régi rege, haj mit jelent,
Urak, asszonyságok?
Ím szólal az ének.
Ti néztek, én nézlek.
Szemünk,
pillás függönye fent:
Hol a színpad:
kint-e vagy bent,
Urak, asszonyságok?
Keserves és boldog
nevezetes dolgok,
az világ kint haddal tele,
de nem abba halunk bele,
urak, asszonyságok.
Nézzük egymást, nézzük,
regénket regéljük.
Ki tudhatja honnan hozzuk?
Hallgatjuk
és csodálkozunk,
urak, asszonyságok.
Zene szól, a láng ég.
Kezdődjön a játék.
Szemem pillás függönye fent.
Tapsoljatok majd, ha lement,
urak, asszonyságok.
Régi vár, régi már
az mese ki róla jár.
Tik is hallgassátok.

Traduzione letterale in inglese del prologo
Libretto

giovedì 9 dicembre 2010

101 ragioni per imparare l'ungherese - 13

Perché esistono manuali di ungherese con consigli di pronuncia a prova di bomba.
Questa guida non intende darvi una completa padronanza dell'ungherese. Per un corso completo scrivete all'Istituto delle Forze Armate Statunitensi, Madison, Wisconsin. Questo manuale, tuttavia, vi consentirà di tenere semplici conversazioni nella lingua.
Le registrazioni che accompagnano questa guida vi forniscono alcune delle più importanti parole e frasi in ungherese. Leggete la sezione denominata Suggerimenti per la pronuncia e ascoltate poi le registrazioni finché avrete imparato le Parole e Frasi Utili a memoria. Ripetete ogni parola a voce alta dopo averla sentita e ditela esattamente nel modo in cui la dice il lettore ungherese. Imitate la pronuncia con la massima attenzione, come se imitaste qualcuno che ha un accento insolito.
Hungarian. A guide to the spoken language, page 5, War Department, Washington, December 28, 1943
Jó reggelt


Isten vele

mercoledì 8 dicembre 2010

Kafka e il letto

Il frammento delle foglie, dicevo. Eccolo.

Wie ein Weg im Herbst: kaum ist er reingekehrt, bedeckt er sich wieder mit den trockenen Blättern.

Franz Kafka, Fragmente

Come un sentiero in autunno: è appena spazzato che si ricopre di nuovo di foglie secche.

*

È una questione con cui ci si misura molto presto. Quanti bambini, prima o poi, pongono la domanda: ma perché rifare il letto ogni mattina se ogni sera si finisce col disfarlo?

Ipotesi

Ipotizziamo che non abbiate timore di leggere o rileggere delle poesie molto note: Itaca, ad esempio, o Tabacaria.

*

Não sou nada.
Nunca serei nada.
Não posso querer ser nada.
À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.
Janelas do meu quarto,
Do meu quarto de um dos milhões do mundo que ninguém sabe quem é
(E se soubessem quem é, o que saberiam?),
Dais para o mistério de uma rua cruzada constantemente por gente,
Para uma rua inacessível a todos os pensamentos,
Real, impossivelmente real, certa, desconhecidamente certa,
Com o mistério das coisas por baixo das pedras e dos seres,
Com a morte a pôr humidade nas paredes e cabelos brancos nos homens,
Com o Destino a conduzir a carroça de tudo pela estrada de nada.
Estou hoje vencido, como se soubesse a verdade.
Estou hoje lúcido, como se estivesse para morrer,
E não tivesse mais irmandade com as coisas
Senão uma despedida, tornando-se esta casa e este lado da rua
A fileira de carruagens de um comboio, e uma partida apitada
De dentro da minha cabeça,
E uma sacudidela dos meus nervos e um ranger de ossos na ida.
Estou hoje perplexo como quem pensou e achou e esqueceu.
Estou hoje dividido entre a lealdade que devo
À Tabacaria do outro lado da rua, como coisa real por fora,
E à sensação de que tudo é sonho, como coisa real por dentro.
Falhei em tudo.
Como não fiz propósito nenhum, talvez tudo fosse nada.
A aprendizagem que me deram,
Desci dela pela janela das traseiras da casa,
Fui até ao campo com grandes propósitos.
Mas lá encontrei só ervas e árvores,
E quando havia gente era igual à outra.
Saio da janela, sento-me numa cadeira. Em que hei-de pensar?
Que sei eu do que serei, eu que não sei o que sou?
Ser o que penso? Mas penso ser tanta coisa!
E há tantos que pensam ser a mesma coisa que não pode haver tantos!
Génio? Neste momento
Cem mil cérebros se concebem em sonho génios como eu,
E a história não marcará, quem sabe?, nem um,
Nem haverá senão estrume de tantas conquistas futuras.
Não, não creio em mim.
Em todos os manicómios há doidos malucos com tantas certezas!
Eu, que não tenho nenhuma certeza, sou mais certo ou menos certo?
Não, nem em mim...
Em quantas mansardas e não-mansardas do mundo
Não estão nesta hora génios-para-si-mesmos sonhando?
Quantas aspirações altas e nobres e lúcidas —
Sim, verdadeiramente altas e nobres e lúcidas —,
E quem sabe se realizáveis,
Nunca verão a luz do sol real nem acharão ouvidos de gente?
O mundo é para quem nasce para o conquistar
E não para quem sonha que pode conquistá-lo, ainda que tenha razão.
Tenho sonhado mais que o que Napoleão fez.
Tenho apertado ao peito hipotético mais humanidades do que Cristo,
Tenho feito filosofias em segredo que nenhum Kant escreveu.
Mas sou, e talvez serei sempre, o da mansarda,
Ainda que não more nela;
Serei sempre o que não nasceu para isso;
Serei sempre só o que tinha qualidades;
Serei sempre o que esperou que lhe abrissem a porta ao pé de uma parede sem porta
E cantou a cantiga do Infinito numa capoeira,
E ouviu a voz de Deus num poço tapado.
Crer em mim? Não, nem em nada.
Derrame-me a Natureza sobre a cabeça ardente
O seu sol, a sua chuva, o vento que me acha o cabelo,
E o resto que venha se vier, ou tiver que vir, ou não venha.
Escravos cardíacos das estrelas,
Conquistámos todo o mundo antes de nos levantar da cama;
Mas acordámos e ele é opaco,
Levantámo-nos e ele é alheio,
Saímos de casa e ele é a terra inteira,
Mais o sistema solar e a Via Láctea e o Indefinido.
(Come chocolates, pequena;
Come chocolates!
Olha que não há mais metafísica no mundo senão chocolates.
Olha que as religiões todas não ensinam mais que a confeitaria.
Come, pequena suja, come!
Pudesse eu comer chocolates com a mesma verdade com que comes!
Mas eu penso e, ao tirar o papel de prata, que é de folhas de estanho,
Deito tudo para o chão, como tenho deitado a vida.)
Mas ao menos fica da amargura do que nunca serei
A caligrafia rápida destes versos,
Pórtico partido para o Impossível.
Mas ao menos consagro a mim mesmo um desprezo sem lágrimas,
Nobre ao menos no gesto largo com que atiro
A roupa suja que sou, sem rol, pra o decurso das coisas,
E fico em casa sem camisa.
(Tu, que consolas, que não existes e por isso consolas,
Ou deusa grega, concebida como estátua que fosse viva,
Ou patrícia romana, impossivelmente nobre e nefasta,
Ou princesa de trovadores, gentilíssima e colorida,
Ou marquesa do século dezoito, decotada e longínqua,
Ou cocote célebre do tempo dos nossos pais,
Ou não sei quê moderno — não concebo bem o quê —,
Tudo isso, seja o que for, que sejas, se pode inspirar que inspire!
Meu coração é um balde despejado.
Como os que invocam espíritos invocam espíritos invoco
A mim mesmo e não encontro nada.
Chego à janela e vejo a rua com uma nitidez absoluta.
Vejo as lojas, vejo os passeios, vejo os carros que passam,
Vejo os entes vivos vestidos que se cruzam,
Vejo os cães que também existem,
E tudo isto me pesa como uma condenação ao degredo,
E tudo isto é estrangeiro, como tudo.)
Vivi, estudei, amei, e até cri,
E hoje não há mendigo que eu não inveje só por não ser eu.
Olho a cada um os andrajos e as chagas e a mentira,
E penso: talvez nunca vivesses nem estudasses nem amasses nem cresses
(Porque é possível fazer a realidade de tudo isso sem fazer nada disso);
Talvez tenhas existido apenas, como um lagarto a quem cortam o rabo
E que é rabo para aquém do lagarto remexidamente.
Fiz de mim o que não soube,
E o que podia fazer de mim não o fiz.
O dominó que vesti era errado.
Conheceram-me logo por quem não era e não desmenti, e perdi-me.
Quando quis tirar a máscara,
Estava pegada à cara.
Quando a tirei e me vi ao espelho,
Já tinha envelhecido.
Estava bêbado, já não sabia vestir o dominó que não tinha tirado.
Deitei fora a máscara e dormi no vestiário
Como um cão tolerado pela gerência
Por ser inofensivo
E vou escrever esta história para provar que sou sublime.
Essência musical dos meus versos inúteis,
Quem me dera encontrar-te como coisa que eu fizesse,
E não ficasse sempre defronte da Tabacaria de defronte,
Calcando aos pés a consciência de estar existindo,
Como um tapete em que um bêbado tropeça
Ou um capacho que os ciganos roubaram e não valia nada.
Mas o Dono da Tabacaria chegou à porta e ficou à porta.
Olhou-o com o desconforto da cabeça mal voltada
E com o desconforto da alma mal-entendendo.
Ele morrerá e eu morrerei.
Ele deixará a tabuleta, e eu deixarei versos.
A certa altura morrerá a tabuleta também, e os versos também.
Depois de certa altura morrerá a rua onde esteve a tabuleta,
E a língua em que foram escritos os versos.
Morrerá depois o planeta girante em que tudo isto se deu.
Em outros satélites de outros sistemas qualquer coisa como gente
Continuará fazendo coisas como versos e vivendo por baixo de coisas como tabuletas,
Sempre uma coisa defronte da outra,
Sempre uma coisa tão inútil como a outra,
Sempre o impossível tão estúpido como o real,
Sempre o mistério do fundo tão certo como o sono de mistério da superfície,
Sempre isto ou sempre outra coisa ou nem uma coisa nem outra.
Mas um homem entrou na Tabacaria (para comprar tabaco?),
E a realidade plausível cai de repente em cima de mim.
Semiergo-me enérgico, convencido, humano,
E vou tencionar escrever estes versos em que digo o contrário.
Acendo um cigarro ao pensar em escrevê-los
E saboreio no cigarro a libertação de todos os pensamentos.
Sigo o fumo como uma rota própria,
E gozo, num momento sensitivo e competente,
A libertação de todas as especulações
E a consciência de que a metafísica é uma consequência de estar mal disposto.
Depois deito-me para trás na cadeira
E continuo fumando.
Enquanto o Destino mo conceder, continuarei fumando.
(Se eu casasse com a filha da minha lavadeira
Talvez fosse feliz.)
Visto isto, levanto-me da cadeira. Vou à janela.
O homem saiu da Tabacaria (metendo troco na algibeira das calças?).
Ah, conheço-o: é o Esteves sem metafísica.
(O Dono da Tabacaria chegou à porta.)
Como por um instinto divino o Esteves voltou-se e viu-me.
Acenou-me adeus gritei-lhe Adeus ó Esteves!, e o universo
Reconstruiu-se-me sem ideal nem esperança, e o Dono da Tabacaria sorriu.

Álvaro de Campos, 15.1.1928

Poesias de Álvaro de Campos. Fernando Pessoa. Lisboa: Ática, 1944 (imp. 1993). - 252.
1ª publ. in Presença, nº 39. Coimbra: Jul. 1933.


Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso desiderare essere niente.
A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo.
Finestre della mia stanza,
Della mia stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è
(E se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
Vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
Su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
Reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
Con il mistero delle cose al di sotto delle pietre e degli esseri,
Con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
Con il Destino che guida il carretto di tutto sulla strada di niente.
Oggi sono vinto, come se sapessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
E non avessi altra fratellanza con le cose
Che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero
La fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
Da dentro la mia testa,
E una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell'andarmene.
Oggi sono perplesso, come chi ha pensato e creduto e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
Alla Tabaccheria dall'altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
E alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.
Sono fallito in tutto.
Siccome non ho espresso alcun proposito, forse tutto è stato niente.
Dall'insegnamento che mi hanno impartito,
Sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa.
Sono andato in campagna pieno di grandi propositi.
Ma là ho incontrato solo erba e alberi,
E quando c’era la gente era uguale all'altra.
Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A cosa devo pensare?
Che ne so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
E ci sono tanti che pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti!
Genio? In questo momento
Centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
E la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno,
Non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me stesso.
In tutti i manicomi ci sono pazzi furiosi con tante certezze!
Io, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano?
No, neppure in me stesso...
In quante mansarde e non mansarde del mondo
Non staranno sognando a quest'ora geni per se stessi?
Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -,
Sì, veramente alte, nobili e lucide -,
E chissà se realizzabili,
Non verranno mai alla luce del sole reale né troveranno l'ascolto delle persone?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
E non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.
Ho sognato più di quanto Napoleone abbia fatto.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
Anche se non ci abito;
Sarò sempre quello che non è nato per questo;
Sarò sempre solo quello che aveva delle qualità;
Sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta
E ha cantato la cantica dell'Infinito in un pollaio,
E sentito la voce di Dio in un pozzo tappato.
Credere in me stesso? No, e neanche in niente.
Che la Natura sparga sulla mia testa ardente
Il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli,
E il resto venga pure se verrà, o dovrà venire, o non venga.
Schiavi cardiaci delle stelle,
Abbiamo conquistato tutto il mondo prima di alzarci dal letto;
Ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
Ci siamo alzati ed esso è estraneo,
Siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
Più il sistema solare e la Via Lattea e l'Indefinito.
(Mangia cioccolatini, piccola;
mangia cioccolatini!
Guarda che non c’è al mondo altra metafisica che i cioccolatini.
Guarda che tutte le religioni non insegnano altro che la pasticceria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi mangiare io cioccolatini con la stessa verità con cui li mangi tu!
Ma io penso e, togliendo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita.)
Ma almeno rimane dell’amarezza di ciò che mai sarà
la calligrafia rapida di questi versi,
portico crollato sull’Impossibile.
Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo senza lacrime,
nobile almeno nell’ampio gesto con cui getto
i panni sporchi che io sono, senza lista, nel corso delle cose,
e resto in casa senza camicia.
(Tu, che consoli, che non esisti e per questo consoli,
O dea greca, concepita come una statua che fosse viva,
O patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta,
O principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
O marchesa del diciottesimo secolo, scollata e distante,
O celebre cocotte dell’epoca dei nostri padri,
O non so che di moderno – non capisco bene cosa -,
Tutto questo, qualsiasi cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invoco
Me stesso ma non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con una nitidezza assoluta.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le macchine che passano,
Vedo gli enti vivi vestiti che si incrociano,
Vedo i cani che anche loro esistono,
E tutto questo mi pesa come una condanna all'esilio,
E tutto questo è straniero, come tutto.)
Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto,
E oggi non c'è mendicante che io non invidi solo perchè non è me.
Di ciascuno guardo gli stracci e le ferite e le bugie,
E penso: forse non ho mai vissuto né studiato né amato né creduto
(Perché è possibile fare la realtà di tutto questo senza fare niente di tutto questo);
Forse sei esistito appena, come una lucertola cui taglino la coda
E che sia coda al di qua della lucertola irrequietamente.
Ho fatto di me ciò che non ho saputo,
E ciò che avrei potuto fare di me non l'ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno riconosciuto subito per quello che non ero e non ho smentito, e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
Era incollata alla faccia.
Quando l'ho tolta e mi sono guardato allo specchio,
Ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo più indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho gettato la maschera e dormito nel guardaroba
Come un cane sopportato dai gestori
In quanto inoffensivo
E scriverò questa storia per provare che sono sublime.
Essenza musicale dei miei versi inutili,
Potessi incontrarmi come una cosa fatta da me,
E non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria di fronte,
Calpestando la coscienza di stare esistendo,
Come un tappeto in cui un ubriaco inciampi
O uno stuoino rubato dagli zingari che non valeva niente.
Ma il Padrone della Tabaccheria si è affacciato sulla porta ed è rimasto sulla porta.
Lo guardo con il fastidio della testa girata male
E con il fastidio dell'anima che capisce male.
Lui morirà ed io morirò.
Lui lascerà l'insegna, io lascerò dei versi.
Ad un certo punto morirà anche l'insegna, e anche i versi.
Dopo un po' morirà la strada dove stava l’insegna,
E la lingua in cui erano stati scritti i versi.
Morirà poi il pianeta rotante in cui è accaduto tutto questo.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa come la gente
Continuerà a fare cose come versi e a vivere sotto cose come insegne,
Sempre una cosa di fronte all'altra,
Sempre una cosa tanto inutile quanto l'altra,
Sempre l'impossibile tanto stupido come il reale,
Sempre il mistero del profondo tanto certo come il sonno del mistero della superficie,
Sempre questo o sempre un'altra cosa o né l’uno né l’altra.
Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
E la realtà plausibile mi crolla improvvisamente addosso.
Mi rialzo energico, convinto, umano,
Con l'intenzione di scrivere questi versi in cui dico il contrario.
Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli
E assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero.
Seguo il fumo come se avesse una propria rotta,
E mi godo, in un momento sensitivo e competente
La liberazione da tutte le speculazioni
E la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell’essere mal disposti.
Poi mi allungo sulla sedia
E continuo a fumare.
Finché il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
Forse sarei felice.)
Visto questo, mi alzo dalla sedia. Vado alla finestra.
L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il Padrone della Tabaccheria si è affacciato sulla porta.)
Come per un istinto divino Esteves si è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l’universo
Mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il Padrone della Tabaccheria ha sorriso.

*
Ipotizziamo poi che abbiate a disposizione, per ricopiare sia Itaca sia Tabacaria, un pezzo di carta grande come un francobollo e ipotizziamo, soprattutto, che vi fidiate di me: in queste ipotesi, e solo in queste ipotesi, potreste riuscirvi scrivendo sul francobollo due soli versi.